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Custodia cautelare: il tempo non basta a revocarla

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un indagato per narcotraffico che chiedeva la revoca della custodia cautelare in carcere. La Corte ha stabilito che il tempo trascorso tra il reato e l’applicazione della misura è irrilevante ai fini della revoca, confermando la presunzione di adeguatezza del carcere per reati gravi.

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Pubblicato il 9 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Custodia Cautelare e Decorso del Tempo: La Cassazione Chiarisce i Limiti della Revoca

Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta un tema cruciale in materia di custodia cautelare: il valore del tempo trascorso dalla commissione del reato ai fini della revoca o sostituzione della misura. Con la sentenza n. 1768/2025, la Suprema Corte ha ribadito che il cosiddetto ‘tempo silente’ non è un fattore rilevante per attenuare le esigenze cautelari, specialmente in presenza di reati gravi come l’associazione finalizzata al narcotraffico. Questa pronuncia offre importanti spunti di riflessione sulla presunzione di adeguatezza del carcere e sui criteri di valutazione della pericolosità sociale dell’indagato.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine dal ricorso presentato da un individuo indagato per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e per diversi episodi di spaccio. L’indagato, sottoposto alla misura della custodia in carcere, aveva richiesto la sostituzione con una misura meno afflittiva, come gli arresti domiciliari.

La difesa basava le sue argomentazioni principalmente su tre punti:
1. Il lungo lasso di tempo intercorso (circa tre anni) tra l’ultima condotta contestata e la richiesta di riesame della misura cautelare.
2. Un presunto allontanamento dal contesto criminale, documentato da intercettazioni.
3. Una valutazione erronea del suo ruolo all’interno dell’associazione (custode anziché corriere) e la scarsa rilevanza di contatti successivi con il capo dell’organizzazione.

Il Tribunale di Cagliari, in sede di appello, aveva già rigettato la richiesta, confermando la necessità della detenzione in carcere. Contro questa decisione, l’indagato ha proposto ricorso per Cassazione.

La Persistenza delle Esigenze di Custodia Cautelare

Il nucleo della decisione della Corte di Cassazione ruota attorno all’interpretazione dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce una presunzione ‘temperata’ di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per reati di particolare allarme sociale, tra cui l’associazione per narcotraffico.

La Corte ha specificato un principio fondamentale: ai fini della revoca o sostituzione di una misura già in atto, il tempo rilevante non è quello trascorso dalla commissione del reato (il ‘tempo silente’), ma quello trascorso durante l’esecuzione della misura stessa. Solo quest’ultimo periodo, se accompagnato da elementi nuovi e positivi, può indicare un’attenuazione della pericolosità sociale dell’indagato.

Le Motivazioni della Corte

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo la motivazione del Tribunale congrua e logica. I giudici hanno sottolineato che la valutazione sulla persistenza delle esigenze cautelari deve basarsi su un’analisi complessiva che include:

* La gravità dei reati: La partecipazione a un’associazione criminale e la ripetizione di episodi di spaccio sono state considerate indicative di una spiccata pervicacia criminale.
* La personalità dell’agente: I precedenti penali, anche se risalenti nel tempo, sono stati ritenuti rivelatori di una continuità nel commettere crimini per trarne profitto.
* L’assenza di una reale revisione critica: Il fatto che l’indagato avesse mantenuto contatti con il vertice dell’associazione anche dopo il presunto allontanamento è stato interpretato come un segnale di mancata dissociazione dal contesto delinquenziale.

In questo quadro, né il tempo trascorso, né il buon comportamento in carcere (ritenuto un contegno doveroso e non un sintomo di ravvedimento) sono stati considerati elementi sufficienti a superare la presunzione di adeguatezza della massima misura cautelare.

Conclusioni

La sentenza in esame consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso in materia di custodia cautelare per reati gravi. Viene chiarito che il semplice decorso del tempo non è, di per sé, un fattore in grado di indebolire le esigenze di prevenzione. Per ottenere una modifica della misura, la difesa deve fornire elementi concreti e sopravvenuti che dimostrino un effettivo e radicale cambiamento nello stile di vita dell’indagato e un’attenuazione tangibile della sua pericolosità sociale. La decisione riafferma la centralità della valutazione prognostica del giudice, che deve bilanciare i diritti di libertà dell’individuo con la necessità di tutelare la collettività dal rischio di reiterazione del reato.

Il tempo trascorso tra il reato e l’arresto può giustificare la revoca della custodia cautelare?
No. La Corte ha chiarito che il cosiddetto ‘tempo silente’ trascorso dalla commissione del reato non è un elemento rilevante per i provvedimenti di revoca o sostituzione della misura. L’unico tempo che assume rilievo è quello trascorso dall’applicazione della misura stessa.

Per quali reati esiste una presunzione che la custodia cautelare in carcere sia l’unica misura adeguata?
La sentenza si riferisce ai reati previsti dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., che includono i delitti di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 D.P.R. 309/90), per i quali opera una presunzione ‘temperata’ di adeguatezza della custodia in carcere.

Il buon comportamento in carcere è sufficiente per ottenere una misura meno afflittiva?
No. Secondo la Corte, il buon comportamento del detenuto non dipende necessariamente da un’effettiva resipiscenza, ma è piuttosto un contegno doveroso. Pertanto, da solo, non è considerato un elemento sufficiente a dimostrare l’attenuazione delle esigenze cautelari.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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