Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 3458 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 3458 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 17/01/2025
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; letta la memoria di replica del difensore del ricorrente, avvocata NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME impugna il provvedimento del 27 settembre 2024 con il quale il Tribunale di Roma ha dichiarato inammissibile l’appello proposto avverso l’ordinanza della Corte di appello di Roma del 19 giugno 2024 che aveva respinto la richiesta di retrodatazione, e conseguente dichiarazione di perdita di efficacia, della misura della custodia cautelare in carcere emessa a carico del ricorrente per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., fatto commesso in Roma dall’ottobre 2015, con condotta tuttora in atto. Per tale reato il COGNOME ha riportato condanna alla
pena di anni quattordici di reclusione nell’ambito del processo cd. Propaggine per il quale era stato emesso, il 2 maggio 2023, decreto che dispone il giudizio.
Al ricorrente è contestato il delitto di partecipazione alla locale di ndrangheta costituita in Roma da NOME COGNOME e NOME COGNOME, gruppo dedito, prevalentemente, all’acquisizione di attività commerciali grazie a intestazioni fittizie.
2. Con i motivi di ricorso, sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il difensore del ricorrente denuncia violazione di legge e cumulativi vizi di motivazione dell’ordinanza impugnata che ha richiamato in termini puramente adesivi il provvedimento di rigetto della Corte di appello senza esplicitare il percorso logicogiuridico seguito e per l’omessa valutazione degli elementi nuovi prodotti dalla difesa che aveva allegato – diversamente da precedente istanza che era stata rigettata con conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso- precisi elementi di fatto, estrapolati dalla informativa di Polizia posta a fondamento del procedimento cd. Enclave, e dai quali emergeva che NOME COGNOME faceva parte della cosca COGNOME su Roma; che l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, capeggiata dal COGNOME, era stata appositamente costituita su Roma per permettere su detto territorio la commissione dei reati fine perseguiti dalla cosca; che il COGNOME era referente, su Roma Nord, della Cosca COGNOME e intratteneva rapporti con NOME COGNOME e alcuni esponenti della famiglia COGNOME.
A questo fine, la difesa aveva prodotto, estrapolandoli dalla informativa di polizia giudiziaria nel procedimento cd. Enclave gli atti che, valorizzando le risultanze delle intercettazioni, descrivevano il modus operandi del COGNOME; i contatti allestiti per il compimento delle attività illecite, in particolare c componenti della famiglia COGNOME tanto da rendere configurabile sia l’appartenenza del ricorrente alla cosca sia l’utilizzazione del metodo mafioso.
Il Tribunale non ha esaminato gli elementi prodotti ma, seguendo la linea tracciata dalla Corte di appello, ne ha imputato la mancata produzione alla difesa e, quindi, ha ritenuto che non si trattasse di elementi nuovi perché preesistenti rispetto alla prima istanza sulla quale si era formato il giudicato.
Si tratta, tuttavia, di una interpretazione erronea poiché il giudicato cautelare non osta alla valutazione di tali elementi e, comunque, la motivazione del Tribunale è apparente e insufficiente e non indica gli elementi che, rispetto alla contestazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. denotano la condotta del ricorrente come di mera contiguità piuttosto che partecipazione all’associazione mafiosa.
Il ricorso è stato trattato con procedura scritta, ai sensi dell’art. 611, comma 1-bis cod. proc. pen. modificato dall’art. 11, comma 3, d.l. n. 29 del 6 giugno 2024, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 120 del 8 agosto 2024 n. 120.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché il motivo proposto è generico.
Il Tribunale di Roma, premesso che i reati ascritti al COGNOME nel procedimento cd. Enclave, erano relativi a reato associativo in materia di stupefacenti, reati di estorsione e intestazioni fittizie, rispetto ai quali non era neppure contestata l’aggravante mafiosa e che si trattava di reati che vedevano il COGNOME agire in concorso con soggetti diversi da quelli poi coinvolti nel processo cd. Propaggine, ha rilevato che, rispetto ai fatti posti a base dell’ordinanza del procedimento cd. Enclave con ordinanza eseguita il 17 febbraio 2021, il reato di partecipazione all’associazione mafiosa, oggetto del processo cd. Propaggine, è contestato con condotta perdurante.
L’ordinanza impugnata, che riporta buona parte della sentenza dell’8 novembre 2023 di questa Corte che aveva già esaminato la censura difensiva in relazione alla mancata applicazione della disposizione recata dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., ha spiegato che non era acquisita la prova della rescissione del vincolo associativo del Vitalone in relazione al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., contestato con condotta perdurante e, dunque, anche successiva all’operatività, temporalmente delimitata, del reato associativo di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/1990 e all’esecuzione della misura custodiale nel procedimento cd. Enclave, dimostrando, anzi, le indagini svolte proprio il contrario.
Si tratta di un’affermazione che il ricorrente non ha contestato, vieppiù in presenza della intervenuta condanna confermata in appello per il reato associativo di cui all’art. 416-bis cod. pen., che è a fondamento dell’ordinanza impugnata, attraverso la deduzione di elementi specifici, desumibili dalle sentenze di condanna o da altri specifici atti processuali, al fine di dimostrare la rescissione dei legami associativi e, dunque, la cessazione della permanenza, quanto meno prima dell’emissione della prima ordinanza del 17 febbraio 2021 intervenuta nel procedimento cd. Enclave.
L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte che ha ribadito come, al di fuori del caso in cui oggetto di contestazione nelle due ordinanze sia il medesimo fatto, in tutti gli altri casi di connessione rileva, quale presupposto di operatività della disposizione di cui all’art.
297, comma 3, cod. proc. pen., l’anteriorità alla prima ordinanza dei fatti oggetto della successiva.
La giurisprudenza di legittimità ha anche approfondito il tema dell’operatività della disposizione di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. in presenza dello stato di custodia in atto in relazione alla prima misura applicata, e i reati permanenti in cui la contestazione sia effettuata nella forma cd. “aperta” o a “consumazione in atto”, senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, un tema che si pone con particolare frequenza proprio in relazione ai reati associativi di stampo mafioso, per lo più caratterizzati da contestazioni aperte.
Si è, così, affermato il principio secondo cui in tema di contestazioni a catena, ai fini della retrodatazione dei termini di decorrenza della custodia cautelare disposta per il reato di associazione mafiosa (nella specie contestato in forma “aperta”), il provvedimento coercitivo che limita la libertà personale dell’indagato per il primo fatto di reato determina una mera presunzione relativa di non interruzione della condotta partecipativa, la protrazione della quale deve tuttavia essere desunta da concreti elementi dimostrativi (Sez. 1, n. 20135 del 16/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 281283).
Premesso che lo stato di detenzione non assume di per sé decisivo rilievo rispetto alla permanenza dell’affectio societatis e che, pertanto, lo stato di detenzione a seguito dell’applicazione di un’ordinanza cautelare non costituisce un elemento automaticamente idoneo ad integrare una presunzione assoluta di interruzione della permanenza del reato associativo di tipo mafioso, la ratio sottesa all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., può trovare attuazione, rifuggendo da precostituiti automatismi e presunzioni, attraverso l’acquisizione di elementi che consentano di ritenere l’intervenuta cessazione della permanenza quanto meno alla data di emissione della prima ordinanza (cfr. Sez. 2, n. 16595 del 06/05/2020, COGNOME, Rv. 279222).
Tali elementi, come si è detto, non sono stati indicati nel ricorso al confronto dell’ordinanza impugnata che, viceversa, ha affermato come le indagini svolte nel processo cd. Propaggine dimostrassero proprio la protrazione della condotta partecipativa in epoca successiva alla esecuzione della misura nel procedimento Enclave.
2.Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata invia equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 -ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 17 gennaio 2025
La Consigliera relatrice
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Il Presidente