Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 7500 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 7500 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a MESSINA il 30/08/1953
avverso l’ordinanza del 31/10/2024 del Tribunale per il riesame di MESSINA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME sulle conclusioni del PG., Dr.ssa NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.11 Tribunale per il riesame di Messina, decidendo ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., il 31 ottobre – 15 novembre 2024 ha rigettato l’appello proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale di Messina il 10 settembre 2024 ha respinto la richiesta avanzata ex art. 299 cod. proc. pen. il 5 settembre 2024 nell’interesse di NOME COGNOME e protesa alla declaratoria di cessazione dell’efficacia della custodia cautelare in carcere in corso di esecuzione in ragione della – ritenuta – compiuta decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare ovvero, in subordine, di sostituzione della misura con quella meno afflittiva degli arresti donniciliari.
Per una migliore intelligenza del ricorso, appare opportuno premettere che con l’originaria istanza ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen. si era sottolineato quanto segue in relazione alla richiesta avanzata in via principale:
che nei confronti di NOME COGNOME era stata emessa una prima ordinanza cautelare, il 21 luglio 2017, nell’ambito del proc. n. 4463/17 P.M. per detenzione illecita di stupefacente, ed una successiva, nel proc. n. 563/2017 P.M. (quello nell’ambito del quale si innesta la vicenda incidentale in esame), eseguita il 4 maggio 2021, in relazione alle imputazioni delle violazioni dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, tra il 24 maggio e il 18 luglio 2017, e dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, contestazione sino al luglio 2018;
che nella sentenza della Corte di appello di Messina del 30 maggio 2023 si è ritenuta la sussistenza del nesso della continuazione tra le condotte indicate;
che, atteso il riconosciuto vincolo qualificato di connessione tra tutti i fatti, l durata della misura deve computarsi dalla data di esecuzione della prima ordinanza, cioè a partire dal 21 luglio 2017, e va commisurata all’imputazione più grave, ossia alla violazione dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, come puntualizzato – anche – dalle Sezioni Unite della S.C. nella sentenza n. 23166 del 28/05/2020, COGNOME, Rv. 279347-02;
che, in conseguenza, sarebbero stati abbondantemente superati i termini massimi di carcerazione preventiva.
In linea subordinata, si era fatto presente che l’aggravamento, disposto il 30 agosto 2024, della misura cautelare degli arresti domiciliari che erano stati concessi nel presente procedimento con ordinanza del 4 gennaio 2023 sarebbe ingiusto ed illegittimo, poiché il comportamento di NOME COGNOME ritenuto in violazione degli obblighi connessi alla custodia al domicilio, in realtà, sarebbe scaturito dalla mera necessità di difendersi dalla violenta aggressione patita da parte del fratello NOME, sussistendo tra i due antichi dissapori.
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2.1. Il Tribunale con ordinanza del 10 settembre 2024 ha disatteso l’istanza protesa alla declaratoria di perdita di efficacia, poiché, pur dando atto dell’avvenuto riconoscimento del nesso della continuazione tra tutti gli episodi, ha sottolineato che il primo provvedimento cautelare in ordine cronologico, emesso nel proc. 4463/2017 il 21 luglio 2017, ha tratto origine da un arresto in flagranza per violazione dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e che «la successiva contestazione ex art 74 d.P.R. 309/90 inerisca a ben diverso e definito quadro probatorio successivamente sviluppatosi, con l’introito sia in fase investigativa che in successiva fase processuale di diverse, ulteriore non certo conoscibili – all’atto dell’arresto in flagranza – emergenze a carico del Buonanno relazione a tale più grave contestazione associativa, pur nella riconosciuta continuazione ex articolo 81 c.p. fra le diverse condotte» (p. 2 dell’ordinanza del 10 settembre 2024), onde non troverebbe applicazione l’art. 304 cod. proc. pen. ed i termini massimi nel procedimento – che viene in rilievo – n. 563/2017 sarebbero lontani dalla scadenza.
Quanto alla richiesta subordinata, anch’essa disattesa, si è sottolineato trattarsi di una mera lettura soggettiva degli antefatti dell’aggravamento, in distonia con alcune delle risultanze investigative raccolte dalla polizia giudiziaria.
2.2. E’ stato proposto appello ex art. 310 cod. proc. pen. sottolineando plurimi errori di diritto, in tesi difensiva: per avere trascurato che la stessa Corte di appello nella sentenza del 30 maggio 2023 ha espressamente ritenuto tutti i fatti avvinti dal nesso della continuazione, determinando la pena complessiva in quella di sette anni e otto mesi di reclusione, con un presofferto peraltro di sei anni e otto mesi ed un residuo di un anno da espiare; per avere ignorato che, ai sensi dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., la carcerazione preventiva, nel caso di specie da calcolare dal 21 luglio 2017, data di esecuzione della prima misura (proc. n. 4463/17), non può superare i due terzi del massimo della pena temporanea per il reato ritenuto in sentenza, limite nel caso di specie superato, essendo i due terzi della pena di sette anni e otto e mesi inflitta pari a cinque anni, sette mesi e diciotto giorni di reclusione; che dallo stesso dispositivo della sentenza, in cui sono state riconosciute le attenuanti generiche, si desumerebbe un ruolo defilato dell’imputato e che, in ogni caso, i fatti sarebbero da riqualificare in violazione del comma 6 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990.
2.3. Il Tribunale distrettuale, come anticipato, decidendo in sede di appello cautelare, ha rigettato con ordinanza del 31 ottobre – 15 novembre 2024 l’impugnazione, osservando, tra l’altro, come «Il gravame poggia sulla considerazione dell’unitarietà del reato continuato alla quale dovrebbe corrispondere un unico termine di durata massima della custodia cautelare al quale imputare entrambi i periodi di custodia cautelare sofferti dall’appellante
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nell’ambito dei due processi. L’assunto deve ritenersi infondato. La difesa, infatti, ripropone sotto altro nome l’eccezione del divieto di contestazione a catena, unica questione che legittimerebbe la retrodatazione del termine di durata massima della custodia cautelare alla data di applicazione del primo titolo, già sollevata dinanzi a questo Tribunale e disattesa con ordinanza del 19 ottobre 2022. Già in quella sede il Collegio aveva avuto modo di osservare che l’invocato meccanismo della contestazione a catena dovesse avere come presupposto indefettibile la circostanza che l’ordinanza cautelare posteriore (che in tal caso è quella del 4 maggio 2021 emessa nell’ambito del presente procedimento) sia relativa a fatti anteriori all’emissione del titolo custodiale precedente: tale presupposto non appare sussistente già sulla scorta della formale contestazione, posto che l’ordinanza posteriore è per fatti contestati fino ad agosto 2018 (fatto punito ai sensi dell’articolo 74 DPR 309/90), mentre il provvedimento antecedente è di luglio 2017. Ne discende, pertanto, che il termine durata massima della custodia cautelare non può decorrere, a dispetto di quanto sostenuto dalla difesa, dalla data di applicazione del primo provvedimento cautelare».
Ha inoltre osservato il Collegio come dal dispositivo della sentenza emessa dalla Corte di appello e relativa a tutti i fatti non è dato desumere quale sia la pena in concreto irrogata in continuazione rispetto al reato ritenuto più grave, che dovrebbe essere quello associativo.
Tutto ciò premesso, ricorre per la cassazione dell’ordinanza NOME COGNOME tramite Difensore di fiducia, affidandosi ad un solo, complessivo, motivo con il quale denunzia violazione di legge, sotto plurimi profili (artt. 297, comma 3, 12, lett. b e lett. c, 303, 304 e 649 cod. proc. pen. e 81 cod. pen.).
Ripercorsi gli antefatti processuali, le date di esecuzione dei titoli custodiali e la condanna da ultimo inflitta per tutti i fatti, con sentenza la cui motivazione si riferisce non essere ancora depositata, lamenta la avvenuta violazione del comma 3 dell’art. 297 cod. proc. pen., norma strettamente collegata al divieto de bis in idem di cui all’art. 649 cod. proc. pen., essendosi in presenza, in realtà, di una attività di traffico di stupefacenti iniziata il 24 maggio 2027 e cessata il 21 luglio 2017, data in cui l’imputato era stato arrestato dalla polizia giudiziaria nella flagrante detenzione illecita di droga, illecito per il quale è stato condannato alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione in abbreviato in un processo nel quale erano state acquisite le intercettazioni telefoniche iniziate il 24 maggio 2017 ed in base alle quali gli verrà poi contestata la partecipazione all’associazione ex art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990; con la sanzione di tre anni e quattro mesi di reclusione interamente espiata ed unificata con quella di
quattro anni e quattro mesi di reclusione per la violazione dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 e, così, sino alla sanzione finale di sette anni e otto mesi di reclusione di cui al dispositivo di sentenza del 30 maggio 10 giugno 2023, che si allega.
Si richiama, siccome ritenuta applicabile al caso di specie, la decisione della Corte costituzionale n. 233 del 19-22 luglio 2011.
Sottolineata infine l’esigenza di evitare distorsioni ed abusi distorsivi della disciplina suoi termini massimi di custodia cautelare, si chiede l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Il P.G. della RAGIONE_SOCIALE nella articolata requisitoria scritta del 30 gennaio 2025 ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è infondato e deve essere rigettato, per le seguenti ragioni.
Appare opportuno riferire la – condivisibile – requisitoria del P.G. della S.C.:
«Il ricorrente deduce la violazione degli artt. 297, comma 3, 12, lett. b) e c), 303, 304 e 649 cod. proc. pen. e 81 cod. pen., per avere il tribunale per il riesame rigettato l’appello avvero l’ordinanza con cui il GIP aveva rigettato l’istanza di revoca della misura cautelare in atto.
In particolare, il ricorrente evidenzia di essere stato sottoposto i data 21 luglio 2017 alla misura della custodia cautelare in carcere nel proc. n. 4463/2017 in relazione al reato di detenzione di sostanza stupefacente, di cui all’art. 73 dpr n. 309/1990 commesso il 21 luglio 2017 (data in cui fu sottoposto ad arresto in flagranza), per il quale è stato condannato alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione; in data 4 maggio 2021 è stato sottoposto ad analoga misura nell’ambito del procedimento n. 562/2017 per i reati di cui agli artt. 73 dpr 309/1990 commessi tra il 24 maggio e il 18 luglio 2017, nonché per il reato di cui all’art. 74 dpr n. 309/1990 accertato in Messina fino al luglio 2018.
Le condotte di cui sopra sono state avvinte dal vincolo della continuazione dalla Corte d’appello di Messina con sentenza 30 maggio/1° giugno 2023. Afferma, quindi, che una volta unificate dalla Corte d’appello le due condanne in continuazione in anni 7 e mesi 8 di reclusione, anche la Corte d’appello avrebbe dovuto disporre la scarcerazione per decorrenza dei termini di fare, che non può essere mai più del doppio di quello previsto, e anche due terzi della complessiva condanna che una precedente ordinanza fissava nel 5 settembre 2025.
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Il ricorso è per un verso generico non confrontandosi con i temi e le argomentazioni del provvedimento impugnato, per altro verso reso in violazione del principio di autosufficienza, facendo riferimento a provvedimenti, anche di esecuzione pena non allegati, per altro verso ancora manifestamente infondato.
Innanzitutto, va evidenziato che la seconda ordinanza riguarda due diverse ipotesi di reato: il reato associativo di cui all’art. 74 dpr n. 309/1990 che è reato permanente ed essendo stato contestato fino al luglio 2018 non è reato commesso anteriormente alla prima ordinanza, pertanto non trova applicazione il comma 3 dell’art. 297 cod. proc. pen.; diverse ipotesi di violazione dell’art. 73 dpr n. 309/1990, commesse tra il 24 maggio e il 18 luglio 2017, quindi in epoca precedente al reato per il quale era stata applicata la misura cautelare il 21 luglio 2017, ma rispetto ai quali il ricorrente non deduce (come dovrebbe in relazione alla disposizione di cui all’ultimo periodo dell’art. 297 cod. proc. pen.) che i fatt di cui a quest’ultima ordinanza fossero desumibili dagli atti già al momento dell’applicazione della prima ordinanza. Ad abundantiam, peraltro, anche laddove tali fatti emergessero precedentemente, non si avrebbe alcuna concreta refluenza sui termini di custodia, perché anche laddove ciò valesse per i reati fine, con la revoca della misura scaduta per quei reati, diversamente per il reato associativo, più grave, commesso sicuramente dopo il reato di cui all’ordinanza del 2017, perché consumatosi nel luglio 2018.
Con riferimento alla connessione qualificata, va distinta l’ipotesi dell’art. 12 lettera b) cod. proc. pen. dalla continuazione quoad poenam pronunciata dalla Corte d’appello di Messina nella sentenza 30 maggio/1° giugno 2023 citata in ricorso.
Altra questione è poi quella per cui il ricorrente chiede che dal periodo di detenzione provvisoria venga scomputata la pena definitiva, peraltro già espiata. Sul punto correttamente il tribunale per il riesame evidenzia che non è dato sapere quanto di tale pena sia stata espiata in regime di detenzione cautelare e quanto a seguito della definitività della condanna, né, qui si aggiunge è stato chiarito se dalla espiazione della pena al momento dell’esecuzione della custodia cautelare del maggio 2021 la detenzione si sia protratta ».
3. In effetti, essendo stato accertato che il reato di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (proc. n. 563/2017) è stato commesso anche dopo quello accertato il 21 luglio 2017 e per il quale è stato effettuato l’arresto in flagranza (proc. n. 4463/2017), con protrazione per un ulteriore anno, sino a luglio 2018, non si comprende come possa sostenersi l’anteriorità del più grave illecito né la desumibilità dagli atti di un accadimento che non è ancora compiutamente avvenuto. Donde la correttezza dell’argomentazione a corredo dell’ordinanza
impugnata, che resiste alle censure mosse, peraltro reiterative del contenuto dell’impugnazione proposta ex art. 310 cod. proc. pen.
Non pertinente risulta, poi, il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 233 del 2011 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura), poiché relativa ad un caso non coincidente con quello in esame, in cui difetta un accertamento irrevocabile.
4.Consegue la reiezione del ricorso e la condanna del ricorrente, per legge (art. 616 cod. proc. pen.), al pagamento delle spese processuali.
La Cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 18/02/2025.