Custodia Cautelare: la Confessione Non Basta per Ottenere i Domiciliari
La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 8153/2024 offre un’importante lezione sul tema della custodia cautelare, chiarendo che la sola confessione dell’imputato non è un lasciapassare automatico per ottenere misure meno afflittive come gli arresti domiciliari. Il caso analizzato dimostra come i giudici debbano compiere una valutazione complessa, tenendo conto della personalità del soggetto, del suo passato criminale e della reale utilità delle sue dichiarazioni. Vediamo insieme i dettagli di questa significativa decisione.
I Fatti del Caso: Dalla Condanna alla Richiesta di Domiciliari
Il protagonista della vicenda è un uomo condannato in primo grado a dieci anni di reclusione per reati molto gravi, legati al traffico di sostanze stupefacenti e all’associazione a delinquere finalizzata allo spaccio (artt. 73 e 74 del d.P.R. 309/1990). Trovandosi in carcere in regime di custodia cautelare, aveva richiesto la sostituzione della misura con gli arresti domiciliari.
A sostegno della sua istanza, la difesa aveva presentato due argomenti principali:
1.  La piena confessione resa dall’imputato, che ammetteva le proprie responsabilità.
2.  La disponibilità a scontare i domiciliari presso l’abitazione di uno zio, in una città molto distante dal contesto territoriale in cui erano stati commessi i reati, al fine di recidere i legami con l’ambiente criminale.
Tuttavia, sia il G.I.P. che, in seguito, il Tribunale del Riesame avevano rigettato la richiesta, spingendo la difesa a presentare ricorso in Cassazione.
La Valutazione dei Giudici sulla Custodia Cautelare
I giudici di merito avevano ritenuto che, nonostante la confessione, le esigenze cautelari fossero ancora attuali e di tale gravità da giustificare il mantenimento della misura carceraria. La loro analisi si è concentrata su due punti chiave.
In primo luogo, la confessione è stata giudicata di scarsa rilevanza. I giudici hanno osservato che l’imputato si era limitato ad ammettere fatti già ampiamente provati nel corso del processo, senza offrire un contributo concreto e significativo alle indagini. Inoltre, le sue dichiarazioni eteroaccusatorie erano dirette contro sua madre, la quale aveva già confessato a sua volta. In sostanza, la confessione non aveva indebolito la pericolosità sociale del soggetto.
In secondo luogo, è stata data grande importanza al curriculum criminale dell’imputato. Dal suo certificato penale emergeva un percorso delinquenziale iniziato già in età minorile, con condanne specifiche e reiterate per spaccio, ma anche per rapina, furto, resistenza a pubblico ufficiale e, dato molto significativo, per evasione. Questo quadro ha delineato una personalità stabilmente dedita al crimine, una vera e propria “scelta di vita” che rendeva altamente probabile la prosecuzione delle attività illecite, anche se trasferito in un’altra città.
Le Motivazioni della Suprema Corte
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso infondato, confermando la decisione del Tribunale del Riesame e giudicando la sua motivazione del tutto logica e priva di vizi. Gli Ermellini hanno ribadito alcuni principi fondamentali in materia di custodia cautelare.
Anzitutto, hanno ricordato che per il reato associativo contestato (art. 74 d.P.R. 309/1990) opera una presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Per superare tale presunzione, occorrono elementi concreti che dimostrino un’effettiva attenuazione delle esigenze cautelari.
Nel caso specifico, né la confessione (per le ragioni già esposte) né il proposto allontanamento geografico sono stati ritenuti elementi sufficienti. La Corte ha sottolineato come il lungo e variegato percorso criminale dell’imputato, protrattosi per oltre vent’anni, fondasse una prognosi ragionevole sulla sua incapacità di rispettare le prescrizioni degli arresti domiciliari. La precedente condanna per evasione, in particolare, è stata considerata un indice inequivocabile della sua inaffidabilità.
La Corte ha concluso che non si poteva fare affidamento sul fatto che l’imputato avrebbe cambiato stile di vita, poiché la sua esistenza appariva “improntata alla commissione di gravi delitti, non solo in tema di stupefacenti”.
Conclusioni
Questa sentenza riafferma un principio cruciale: nel valutare l’adeguatezza della custodia cautelare, i giudici non possono fermarsi alla superficie di un atto collaborativo come la confessione. È necessario un esame approfondito della personalità dell’imputato, del suo passato e del contesto generale. Una confessione tardiva o che si limita ad ammettere l’evidenza non è sufficiente a scalfire un quadro di elevata pericolosità sociale, consolidato da anni di attività criminale. La decisione sottolinea che la tutela della collettività dal rischio di recidiva rimane un obiettivo primario nella scelta della misura cautelare più appropriata.
 
Una confessione è sempre sufficiente per ottenere gli arresti domiciliari al posto del carcere?
No. La sentenza chiarisce che una confessione non è automaticamente decisiva. Il suo valore viene valutato in base al suo concreto contributo alle indagini e alla sua capacità di dimostrare un’effettiva riduzione della pericolosità sociale. Se si limita ad ammettere fatti già provati, come in questo caso, la sua rilevanza è minima.
Trasferirsi in una città lontana dal proprio ambiente criminale garantisce una misura cautelare meno severa?
Non necessariamente. Il tribunale ha ritenuto che, di fronte a una personalità con una radicata “scelta di vita” criminale, la mera distanza geografica non fosse una garanzia sufficiente a prevenire la commissione di nuovi reati. La pericolosità dell’imputato è stata considerata intrinseca alla sua persona, e non legata solo al luogo di residenza.
Che peso ha il passato criminale di un imputato nella scelta della custodia cautelare?
Ha un peso fondamentale. Nel caso esaminato, l’esteso e variegato curriculum criminale dell’imputato, iniziato in età minorile e comprensivo di una condanna per evasione, è stato l’elemento decisivo per formulare una prognosi negativa sul rischio di recidiva e per giustificare il mantenimento della misura più restrittiva, ovvero la custodia in carcere.
 
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 8153 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3   Num. 8153  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME, nato a Catania il DATA_NASCITA; avverso l’ordinanza del 17-07-2023 del Tribunale di Catania; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 17 luglio 2023, il Tribunale del riesame di Catania rigettava l’appello cautelare proposto avverso l’ordinanza del 18 aprile 2023, con cui il G.I.P. presso il Tribunale di Catania aveva disatteso l’istanza di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari nei confronti di NOME COGNOME, imputato dei reati di cui agli art. 74 e 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Avverso l’ordinanza del Tribunale etneo, COGNOME, tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando un unico motivo, con cui la difesa deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, osservando che i giudici cautelari non hanno tenuto conto della piena confessione resa dall’imputato, il quale ha esteso la dichiarazione di responsabilità anche alle condotte di spaccio che non erano state accertate dagli agenti sotto copertura, tanto è vero che il P.M. ha sollecitato per il ricorrente la concessione delle attenuanti generiche, che sono state poi riconosciute dal Tribunale.
Nel provvedimento impugnato, inoltre, sarebbe rimasta ignorata la circostanza che il luogo indicato per l’esecuzione degli arresti domiciliari era l’abitazione dello zio ospitante, situata nel Comune di Anzio, in provincia di Roma, dunque lontano dal contesto della città di Catania dove sono stati commessi i fatti di causa, non essendo stata neanche presa in considerazione la possibilità di applicare il cd. braccialetto elettronico, al fine di scongiurare l’eventuale pericolo di recidiva.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Premesso che non è controversa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (l’imputato è stato condannato in primo grado alla pena di 10 anni di reclusione e non vi sono censure in punto di gravità indiziaria), deve rilevarsi che la valutazione del Tribunale del Riesame in tema di persistente attualità delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura di massimo rigore non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
In maniera non illogica, infatti, i giudici cautelari hanno ritenuto che l dichiarazioni confessorie del ricorrente fossero inidonee a superare la duplice presunzione relativa di cui all’art. 275 comma 3 cod. proc. pen., operante stante la contestazione del reato associativo ex art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990: è stato in proposito rimarcato, infatti, che le ammissioni di COGNOME sono risultate prive di un concreto apporto rispetto ai risultati dell’istruttoria dibattimental atteso che l’imputato si è limitato semplicemente a riconoscere l’evidenza dei fatti già accertati, avendo inoltre reso dichiarazioni eteroaccusatorie nei confronti della propria madre, NOME COGNOME, che aveva a sua volta già reso confessione.
Né è stata ritenuta dirimente, nell’ottica della scelta della misura, la mera lontananza geografica da Catania, luogo di commissione dei fatti contestati, del contesto territoriale dove COGNOME avrebbe dovuto scontare gli arresti domiciliari, non solo perché non vi erano elementi per far ritenere come non temporaneo l’eventuale trasferimento, ma anche e soprattutto perché dalla lettura del certificato del casellario giudiziale del ricorrente è emerso che questi, gravato da diverse condanne specifiche, esercita stabilmente l’attività di spaccio sin da quando era minorrenne, il che ha fondato la ragionevole prognosi circa la possibile prosecuzione delle attività di spaccio anche lontano da Catania.
A ciò è stato aggiunto che tra le altre condanne a carico di COGNOME, oltre a quelle per rapina, furto e resistenza a pubblico ufficiale, ne figura anche una per il reato di evasione, per cui, ha concluso il Tribunale (pag. 3 dell’ordinanza gravata), “non può farsi affidamento sul fatto che COGNOME NOME rispetterà le prescrizioni connesse alla misura degli arresti domiciliari e che, al contempo, modificherà definitivamente le proprie scelte di vita, che appaiono da oltre vent’anni improntata commissione di gravi delitti, non solo in tema di stupefacenti”.
Orbene, a fronte di un apparato argonnentativo non manifestamente illogico, non vi è spazio per l’accoglimento delle censure difensive, che invero sollecitano differenti valutazioni di merito non consentite in sede di legittimità. Ne consegue che il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME deve essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 comma 1 ter disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 12/12/2023