Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 12476 Anno 2019
Penale Sent. Sez. 1 Num. 12476 Anno 2019
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/10/2018
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a MONTEMESOLA il 23/08/1959
avverso l’ordinanza del 11/09/2017 della CORTE APPELLO SEZ.DIST. di TARANTO udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette/sentite le conclusioni del PG
Il Procuratore generale, NOME COGNOME chiede l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1. NOME NOME ricorre avverso l’ordinanza della Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, emessa in data 4 aprile 2018, quale giudice dell’esecuzione, per la determinazione del fine pena in esecuzione di 8 sentenze passate in giudicato:
– la prima del 29 giugno 1987, definitiva il 29 luglio 1987, della Corte d’appello di Lecce che lo ha condannato alla pena di mesi 3 di reclusione per il reato di cui all’articolo 588 codice penale;
– la seconda del 17 febbraio 1993, definitiva il 12 ottobre 1993, della Corte d’appello di Lecce che lo ha condannato alla pena di anni 2 mesi 3 di reclusione e 671,40 di multa, per il reato di cui all’articolo 648 codice penale;
– la terza del 31 ottobre 1994, definitiva il 28 marzo 1995, della Corte d’appello di Lecce, definitiva il 28 marzo 1995, che lo ha condannato alla pena di anni 6, mesi 2 di reclusione e C 3718,49 di multa, per i reati di cui agli artt. 81, 648 cod. pen., 23 quarto comma legge 18 aprile 1975 n. 110 e 73 comma 6 T.U. stup.;
– la quarta del 27 giugno 1995, definitiva 1’11 gennaio 1996, della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, definitiva aio 1996, GLYPH genn che lo ha condannato alla pena di anni 5 di reclusione e C 2065,83 di multa, per i reati di cui agli articoli 56, 110, 629 e 648 cod. pen., art. 10 e 12 legge 14 ottobre 1974 n. 479, articolo 23, legge 18 aprile 1975 n. 110;
-la quinta del 12 marzo 1996, definitiva il 18 novembre 1996, della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, che lo ha condannato alla pena di anni 9 di reclusione, per i reati di cui agli artt. 56 e 575, 648 cod. pen., artt e 14 legge 14 ottobre 1974 n. 497;
-la sesta (c.d. “Ellesponto”) del 13 ottobre 1999 della Corte d’assise d’appello di Taranto definitiva del 26 ottobre 2001 che lo ha condannato alla pena di anni 10 di reclusione C 36.151,99 di multa, per i reati di cui agli articoli 416-bis cod. pen. e art. 73 comma 6 T.U. stup.
– la settima del 16 dicembre 2003 della Corte d’assise d’appello di Taranto, definitiva il 31 gennaio 2004, che lo ha condannato alla pena di anni 23 di reclusione, per i reati di cui agli artt. 575 cod. pen., 10 e 12 legge n. 479 del 1974.
– l’ottava (c.d. “RAGIONE_SOCIALE“) del 6 febbraio 2004, definitiva il 22 giugno 2004, della Corte d’appello di Taranto che lo ha condannato alla pena di anni 16 di reclusione, per i reati di cui all’articolo 74 e 73 T.U. stup.
1.2. GLYPH erto, per quel che qui interessa, era stato destinatario del *** provvedimento di cumulo n. 54 del 9 luglio 2004 della Procura generale di Taranto che stabiliva due momenti concorsuali:
il primo correva dall’8 maggio 1993 e riguardava le sentenze del 29 giugno 1987, del 17 febbraio 1993, del 31 ottobre 1994, del 27 giugno 1995, del 12 marzo 1996, del 13 ottobre 1999 e del 16 dicembre 2003, tutte sopra elencate dal n. 1 al n. 7.
– il secondo, che correva dalla data di cessazione della continuazione e permanenza dei reati giudicati con la sentenza del 6 febbraio 2004 della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto (processo cosiddetto “RAGIONE_SOCIALE“) per i quali la cessazione della continuazione e della permanenza era stata fissata il 30 settembre 1995 ed il fine pena di conseguenza alla data del 10 ottobre 2023.
1.3. GLYPH i appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, il 26 La Corte d maggio 2009, quale giudice dell’esecuzione aveva riconosciuto successivamente il nesso di continuazione tra i fatti di cui alle sentenze 3, 4, 6 e 8, del predet provvedimento di cumulo, determinando l’unica pena in anni 23 e mesi 4 di reclusione, sicché la Procura generale di Taranto aveva emesso il 20 gennaio 2010 il provvedimento di cumulo numero 5, che fissava la decorrenza dell’espiazione dell’intera pena risultante dal cumulo dall’8 maggio 1993 e individuava così il fine pena al 23 novembre 2018
E’ intervenuto, infine, il provvedimento di cumulo numero 109 del 9 novembre 2016 che ha fatto coincidere il secondo momento concorsuale con la cessazione della continuazione e della permanenza del reato associativo di cui alla sentenza sub 8 (nel processo c.d. “RAGIONE_SOCIALE“), commesso da settembre 1995 al 29 settembre 2001 e riguardante la relativa condanna rideterminata ex articolo 671 codice procedura penale, con la suindicata ordinanza della Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, del 26 maggio 2009 in anni 16 e mesi otto di reclusione, così indicando la scadenza pena al 28 settembre 2031, riducendola al 30 ottobre 2028, in considerazione dei periodi di liberazione anticipata.
2. Col provvedimento impugnato, il giudice dell’esecuzione ha disatteso la richiesta di COGNOME, in base alla quale nel processo “RAGIONE_SOCIALE” sarebbe stato delimitato l’ambito temporale di accertamento per ognuno dei reati contestati ai capi P) (art. 74 T.U. stup.) e R) (artt. 81 e 73 T.U. stup.), indicando così la data di commissione dei reati, relativa al secondo momento concorsuale, con 1’8 settembre 1997, giorno dell’arresto di COGNOME. Il giudice dell’esecuzione ha ritenuto, infatti, che l’indicazione dei capi di imputazione in luogo della data primigenia riportata nella sentenza di primo grado era evidente frutto di un
errore materiale nella trascrizione, tanto più che le imputazioni non sono soggette a modifica se non ai sensi dell’art. 516 e seguenti cod. proc. pen. ad opera del pubblico ministero, non potendo il giudicante intervenire; pertanto, riteneva che i reati di cui ai capi P) e R) fossero contestati «dal settembre 1995 sino alla data odierna», come si legge nelle imputazioni riportate nell’epigrafe della sentenza di primo grado.
*** sosteneva, infatti, che erroneamente nell’ultimo cumulo emesso, la data di cessazione della permanenza del reato associativo coincide con quella di emissione della sentenza di primo grado, senza considerare che ciò inerisce profili processuali, ma non una presunzione di colpevolezza dell’imputato, tranne che ciò non sia stato accertato dal giudice di primo grado o, in difetto dal giudice dell’esecuzione e, poiché tale accertamento, non era stato effettuato nel processo di cognizione, spettava al giudice dell’esecuzione accertare che la permanenza nel reato associativo si fosse protratta sino al 30 settembre 1996, epoca dell’arresto del principale collaboratore di giustizia NOME COGNOME che aveva accusato COGNOME di aver affidato a lui la dirigenza del sodalizio.
Pertanto, secondo COGNOME, il periodo di commissione del reato associativo sub P) doveva fissarsi all’il. dicembre 1993 e quello della consumazione del reato continuato sub R) al 13 agosto 1996.
La Corte d’appello ha riconosciuto la continuazione ai reati giudicati nella sentenza n. 6 chiamata “Ellesponto” e quelli giudicati nella sentenza c.d. “RAGIONE_SOCIALE“, dando atto che «dal 1989 al 1993» COGNOME era stato titolare di un’autonoma organizzazione dedita abitualmente al commercio di stupefacenti, sicché, tenendo conto delle liberazioni anticipate godute, la data di fine pena è stata individuata nel 2 febbraio 2018.
Il giudice dell’esecuzione col provvedimento impugnato ha ritenuto che i reati di cui all’articolo 74 e 73 testo unico stupefacenti rispettivamente capo P) e capo R) erano stati contestati “sino alla data odierna” e che tale dicitura contenuta nella sentenza di primo grado, secondo la giurisprudenza di legittimità porta a far coincidere tale data con quella del decreto che dispone il giudizio (30.9.98), dal quale deve prendere avvio il secondo momento concorsuale del cumulo.
Da ultimo, la Corte di appello nel provvedimento impugnato, ha precisato di aver ritenuto di dover fare riferimento solo alla contestazione contenuta nella sentenza di primo grado, essendo un mero errore materiale la dicitura contenuta nella contestazione “fino alla data di arresto”, riportata nell’epigrafe dell sentenza di appello, stante il fatto che in secondo grado i giudici si erano limitati a ridurre la pena agli imputati, ai sensi dell’art. 599 cod. proc. pen.
3.1. Col primo motivo di ricorso, deduce il ricorrente a sostegno della richiesta di annullamento dell’ordinanza del giudice dell’esecuzione impugnata, che «il provvedimento di cumulo fosse erroneo e ingiusto», in quanto non teneva conto dell’ultima data di commissione dei reati cui ai capi P) e R) come quella coincidente con la data di arresto di ***, 1’8 settembre 1997, con la conseguenza che dovevano essere effettuati i seguenti cumuli parziali: A) il primo coincidente col momento concorsuale determinato alla data dell’8 maggio 1993 e che comportava il computo di tutte le pene di cui alle condanne intervenute con le sentenze da uno a sette; B) il secondo alla data dell’8 settembre 1997 giorno dell’arresto di COGNOME per i titoli di quei capi P) e R). di cui alla sentenza sub 8, sicché la data di fine pena doveva essere individuata nell’8 dicembre 2023
Denuncia, pertanto, violazione degli articoli 78, 79 e 80 cod. pen. e 663 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, laddove il giudice dell’esecuzione ha escluso la retrodatazione del tempo di commissione del delitto, al fine dell’individuazione dei momenti concorsuali, rispetto alla data di emissione del decreto che dispone il giudizio, così venendo meno al compito del giudice dell’esecuzione di determinare la data di commissione del reato, in funzione della corretta applicazione del principio della formazione dei cosiddetti cumuli parziali, come ha ribadito la giurisprudenza di legittimità (Sez. U., n. 42.858 del 29 maggio 2014, Gatto).
In particolare, il giudice della cognizione aveva tratto gli elementi di colpevolezza dalle dichiarazioni di NOME COGNOME, collaboratore di giustizia che, in data 30 agosto 1996, era stato arrestato, iniziando subito a collaborare e accusando COGNOME di avergli ceduto il comando del sodalizio, sicché le condotte relative al sodalizio criminoso di cui facevano parte COGNOME e COGNOME dovevano necessariamente essere antecedenti; infatti, se ne riviene una conferma nella specificazione temporale dei capi di imputazione, che coprono il periodo dei capi di accusa della sentenza sub 8) sino all’estate 1996.
La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, nella sentenza c.d. “RAGIONE_SOCIALE” del 6 febbraio 2004, però, non avrebbe compiuto alcuno specifico accertamento in merito alla cessazione della permanenza del reato associativo, pur specificando la data di commissione dei reati di cui al capo P) e al capo R) al giorno dell’arresto di ciascuno dei suddetti imputati rispettivamente il 30 agosto 96 e 1’8 settembre.
Anche il giudice dell’esecuzione si sarebbe limitato alla «superficiale registrazione» della data di contestazione del reato «sino alla data odierna» contenuta nella sentenza di primo grado; da qui, la doglianza di omessa motivazione sulle deduzioni e sulle allegazioni difensive, perché non vi è
un’inversione dell’onere della prova sul momento di effettiva cessazione della condotta che deve essere accertata in concreto dal giudice dell’esecuzione, allorché ne debba conseguire un qualsiasi effetto giuridico richiesto dal condannato.
3.2. Con il secondo motivo, denuncia l’omessa motivazione e la violazione dell’art. 125 comma 3 cod. proc. pen., in ordine alla fissazione della data di cessazione della continuazione e della permanenza che dovrebbe essere indicata nella data dell’arresto degli imputati, perché il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto effettuare uno specifico accertamento in base agli elementi contenuti nelle relative sentenze, mentre nel caso di specie ha solo liquidato il problema, asserendo che si tratta di un errore materiale della trascrizione del capo di imputazione indicato nella sentenza di primo grado (pagina due dell’ordinanza impugnata), ma non ha spiegato perché l’errore sarebbe contenuto nella sentenza d’appello e non nella sentenza di primo grado. Né ha spiegato la Corte territoriale perché ha ritenuto di disattendere la tesi difensiva, per la quale l cessazione della permanenza della continuazione dei reati di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e ai reati spaccio non possa essere fissata, come ritiene la difesa, alla data dell’arresto dei partecipi alla medesima associazione, così come consolidata giurisprudenza asserisce, in mancanza di prova contraria, che incombe alla pubblica accusa, sicché l’arresto dei partecipi farebbe presumere la disarticolazione dell’associazione e, quindi, la cessazione della sua operatività, a differenza di quella che si verifica in tema di associazione di stampo mafioso, dove non opera la stessa presunzione.
3.3. GLYPH tivo, denuncia l’erronea applicazione degli articoli 649, Col terzo mo 671 e 666 cod. proc. pen., per non aver considerato il pronunciamento della Corte d’appello di Taranto del 26 maggio 2009, che aveva stabilito che il tempus commissi delicti dei capi P) e R), giudicati con la sentenza “RAGIONE_SOCIALE” va da luglio 1989 all’anno 1993, mentre la Corte d’appello di Taranto nell’ordinanza impugnata ha affermato che l’ordinanza del 26 maggio 2009 è priva di valenza di giudicato se non con riguardo all’affermata continuazione, così trascurando che esiste il giudicato esecutivo che comprende il dedotto vincolo della continuazione tra fatti giudicati con sentenze diverse e che dall’esame delle due sentenze, nel 2009 la Corte d’appello risulta che l’associazione capeggiata dal COGNOME fosse la stessa dal 1989 al 1993, e sino a quell’anno si fosse estrinsecata la sua dirigenza, essendo stato dapprima arrestato 1’8 maggio 1993 e avendo condiviso un periodo di detenzione in carcere con il collaboratore NOME COGNOME, sino all’il dicembre 1993.
3.4. Col quarto motivo, deduce vizio di motivazione per la disparità di trattamento tra le omogenee posizioni processuali di diversi condannati nello
stesso procedimento: COGNOME COGNOME e COGNOME, con violazione degli articoli 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in relazione all’articolo 117 comma 1 della Costituzione e all’articolo 3 della Costituzione, nonché violazione dell’articolo 125 comma 3 codice di procedura penale.
In particolare, per la posizione processuale di COGNOME Angelo, il provvedimento di cumulo della Procura generale della Corte di appello del 9 luglio 2004 aveva stabilito la data del 30 settembre 1995 come momento concorsuale fondato sulla sentenza “RAGIONE_SOCIALE” che aveva condannato COGNOME per i reati P) ed R), mentre il provvedimento di cumulo della Procura generale di pene concorrenti del 9 novembre 2016 per COGNOME aveva determinato in termini peggiorativi lo stesso momento concorsuale degli stessi reati, fissando la decorrenza al 29 settembre 2001. La Corte d’appello, quale giudice dell’esecuzione, essendo stata investita della doglianza con l’ordinanza impugnata, ha omesso di pronunciarsi e non ha giustificato tale differenza.
4. La Corte, condividendo le argomentazioni svolte dal Procuratore generale ritiene il ricorso fondato nei limiti di seguito specificati.
5. Giova precisare che la giurisprudenza di questa Corte (fra le altre, Sez. 1, n. 7762 del 24/01/2012, Nucera, Rv. 252078) è orientata nel senso di ritenere che il principio dell’unità delle pene concorrenti si ispira, da un lato, all’esigenz di assicurare una corretta realizzazione della pretesa punitiva e, dall’altro, all’esigenza di evitare che il condannato riceva un pregiudizio dall’autonoma e dalla distinta esecuzione delle pene inflitte per più reati. Detto principio è riferibile solo alle pene inflitte per reati commessi prima dell’inizio del detenzione, mentre, qualora durante l’espiazione di una determinata pena o dopo che l’esecuzione di quest’ultima sia stata interrotta, il condannato commetta un nuovo reato, occorre procedere ad un ulteriore cumulo, il quale tuttavia deve comprendere, oltre alla pena inflitta per il nuovo reato, altresì quella parte di pena risultante dal cumulo precedente, che non sia stata ancora espiata ovvero in qualche modo conteggiata alla data del nuovo reato; e la decorrenza del nuovo cumulo va fissata nella data dell’ultimo reato ovvero in quella del successivo arresto, a seconda che il nuovo reato sia stato commesso durante l’espiazione della pena precedente, ovvero dopo la sua interruzione (cfr. Sez. 1, n. 26270 del 23/04/2004, Di Bella, Rv. 228138). In ogni caso, la data dell’ultimo reato per la decorrenza del cumulo, se trattasi di reato permanente contestato nella forma c.d. aperta, deve essere accertato dal giudice della cognizione o dal giudice dell’esecuzione. Ha più volte spiegato la giurisprudenza di legittimità (da ultimo, Sez. 3, n. 68 del 25/11/2014, dep.
2015, Patti, Rv. 261792) che, in tema di contestazione di un reato effettuata nella forma cosiddetta “aperta” (ovvero senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita), qualora debba farsi dipendere un qualsiasi effetto giuridico dalla data di cessazione della permanenza, andrà verificato in concreto, nella motivazione del provvedimento impugnato, se il giudice della cognizione abbia, o non, ritenuto provato il protrarsi della condotta criminosa fino alla data della sentenza di primo grado.
Come è noto, la ratio del principio sancito dall’art. 657 c.p.p., comma 4, è quella di non consentire ad alcuno di fruire di “crediti di pena” che possano agevolare la commissione di fatti criminosi nella consapevolezza dell’assenza di conseguenze sanzionatorie. Tale principio determina conseguenze anche nelle ipotesi in cui venga riconosciuto, in sede di esecuzione ovvero dal giudice della cognizione, il vincolo della continuazione tra reati commessi in tempi diversi, giudicati distintamente.
Infatti, se per uno dei reati posti in continuazione vi è stata esecuzione di pena o custodia cautelare, quest’ultima, nel giudizio di fungibilità, è valutata con riferimento al reato per il quale è stata applicata in modo autonomo rispetto al trattamento determinato dalla continuazione, al fine di scongiurare la violazione del principio sancito dall’art. 657 comma 4 c.p.p., (Sez. 1, n. 5537, 11/11/1998, COGNOME, Rv. 212215; Sez. 1, n. 5186 del 21/09/2000, Caserta, Rv. 217234).
Così che il riconoscimento della continuazione, in sede esecutiva o in sede di cognizione, con reati oggetto di sentenza irrevocabile, con la conseguente determinazione di una pena complessiva inferiore a quella risultante dal cumulo materiale, non comporta che la differenza così formatasi sia automaticamente imputata alla detenzione da eseguire, operando anche in detta eventualità il disposto dell’art. 657 comma 4 c.p.p., secondo cui a tal fine vanno computate solo la custodia cautelare sofferta e le pene espiate dopo la commissione del reato; conseguentemente il reato continuato si deve scindere nelle singole violazioni che lo compongono (Sez. 1, n. 25186, 7/02/2009, Bernardo, rv.243809). Nell’ipotesi della c.d. contestazione “aperta” in sede di esecuzione, ai fini di ogni effetto giuridico, occorre verificare in concreto se il giudice merito abbia o meno ritenuto provato il protrarsi della condotta criminosa.
Il giudice dell’esecuzione, quindi, per pronunciarsi sull’istanza di COGNOME, avrebbe dovuto innanzitutto accertare la cessazione delle condotte relative ai capi P e R della sentenza sub 8 (del processo cd. “RAGIONE_SOCIALE“). Nel provvedimento impugnato invece il giudice dell’esecuzione non ha dato atto di avere operato tale verifica.
6. Più precisamente, nell’ordinanza impugnata appare insufficiente, di per sé, il riferimento fatto alla data di emissione del decreto che dispone il giudizio, per la determinazione della cessazione della permanenza e della continuazione dei reati indicati ai capi P) e R) della sentenza c.d. “RAGIONE_SOCIALE” (sub 8).
La Corte di merito avrebbe dovuto verificare, in base alle risultanze del processo, fino a quando si era protratta la condotta delittuosa di COGNOME relativa a detti reati; in particolare, era stata evidenziata nel processo l’esistenza della conversazione intercettata il 28 agosto 1996, allorquando lo stesso COGNOME fece parola del danaro che ancora riceveva da NOME NOME, quale provento dell’attività di spaccio, che si svolgeva in un contesto in cui erano coinvolti COGNOME NOME e NOME NOMECOGNOME quali personaggi facente parte sodalizio.
Tuttavia – come in modo pertinente ha osservato il Procuratore generale NOME COGNOME resta non chiaro su quali ulteriori ed effettive emergenze il giudice dell’esecuzione abbia tratto (in presenza di una contestazione c.d. aperta fino al 30.9.1998: data del decreto di citazione a giudizio) il giorno di consumazione dell’epoca di permanenza dei singoli reati in epoca successiva al 28 agosto 1996, pertanto è necessario annullare con rinvio l’ordinanza impugnata in accoglimento del ricorso, affinché il giudice dell’esecuzione verifichi se risultino specifiche circostanze tali da permettere di avanzare la data di consumazione dei reati P) e R), in epoca compresa tra il 28 agosto 1996 e il 30 agosto 1998 (data della contestazione contenuta nella sentenza di primo grado del processo c.d. “RAGIONE_SOCIALE“, conclusosi poi con la sentenza di appello indicata sub 8).
Devono, invece, essere respinte le censure del ricorrente sul provvedimento impugnato, nella parte in cui il giudice dell’esecuzione ha ritenuto di qualificare come mero errore materiale l’indicazione contenuta nella sentenza di secondo grado di detto processo sub 8, per il riferimento della data di cessazione della permanenza e continuazione dei reati P) e R) alla data dell’arresto di COGNOME, essendosi risolto il giudizio di appello, ai sensi dell’art. 599 cod. proc. pen., nell mera riduzione della pena inflitta, come ha precisato il giudice dell’esecuzione a pag. 1 dell’ordinanza impugnata, senza specifica contestazione né nell’incidente di esecuzione né nel ricorso.
7. Ne consegue l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto che, in diversa composizione dei giudici del Collegio, dovrà procedere alla predetta verifica.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto.
Così deciso il 12/10/2018.