Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 17234 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 17234 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a AGRIGENTO il 06/02/1960
avverso la sentenza del 10/04/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette/sentite le conclusioni del PG NOME COGNOME
udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Palermo confermava la sentenza con cui il tribunale di Agrigento, in data 21.6.2022, aveva condannato COGNOME NOME per le dichiarazioni da lui rese nei confronti di COGNOME NOME, attraverso il social network Facebook, alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato ex artt. 595, co. 1, 2 e 3, in rubrica ascrittogli.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando, dopo una lunga premessa: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al disposto degli artt. 595 e 51, c.p.; 2) violazione e vizio di motivazione per avere la corte territoriale confermato la condanna dell’imputato a pena detentiva, in contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 150 del 2021; 3) violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto il processo in appello si è svolto secondo il rito cartolare, laddove il decreto di citazione notificato prevedeva la presenza dell’imputato all’udienza
Con requisitoria scritta del 30.1.2025, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott. NOME COGNOME chiede che il ricorso venga accolto, limitatamente al motivo relativo alla pena, e dichiarato inammissibile nel resto.
Il ricorso va rigettato.
Per ragioni di ordine logico, va, innanzitutto, rilevata l’infondatezza dell’ultimo motivo di ricorso.
Risulta incontestato che il giudizio di appello si è svolto in forma cartolare, in mancanza di una tempestiva richiesta di trattazione orale da parte dell’imputato.
Tale circostanza non è contestata nemmeno dal ricorrente, che, per mezzo del suo difensore, si lamenta di essere stato “tratto in inganno” dal contenuto del decreto di citazione per il giudizio di appello emesso in data 19.10.2023, in cui, in vista dell’udienza del 28.3.2024, si faceva riferimento alla presenza personale dell’imputato e non alla trattazione in forma scritta dell’impugnazione.
Come si evince dagli atti, consultabili in questa sede, essendo stato dedotto un error in procedendo, effettivamente in vista della celebrazione dell’udienza del 28.3.2024, l’appellante aveva evidenziato, attraverso il mezzo della posta elettronica, che egli non aveva richiesto la trattazione orale, perché, come si è detto, “tratto in inganno” dalla dicitura del decreto di citazione, che non conteneva alcun riferimento alla forma di trattazione cartolare del giudizio di appello.
Orbene l’assunto del ricorrente non può essere condiviso.
Al riguardo deve rilevarsi che, in base alla disciplina introdotta dall’art. 23 del d. I. 9.11.2020, n. 149 e dall’art. 23-bis, d. I. 28.10.2020, n. 137, convertito dalla legge 176 del 2020, poi prorogata dall’art. 94, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2022, come progressivamente modificato, il giudizio di appello si svolge con trattazione scritta, a meno che una parte formuli nei modi e nei termini previsti richiesta di trattazione orale, implicante lo svolgimento di udienza nelle forme stabilite in relazione al rito applicabile.
Nessuna nullità, dunque, è configurabile nel caso in esame, stante l’assenza della prescritta richiesta da parte dell’imputato di trattazione orale del giudizio di appello, che sarebbe stato affetto da una nullità di carattere generale a regime intermedio, solo nel caso in cui esso si fosse svolto con trattazione scritta nonostante la rituale richiesta di svolgimento dell’udienza con trattazione orale (cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 16080 del 20/03/2024, Rv. 286336).
Né vale invocare la mancanza nel decreto di citazione per il giudizio di appello di ogni riferimento alla trattazione in forma cartolare, che, essendo la regola, vale a dire l’ordinario modo di procedere, derogabile solo in virtù di espressa richiesta di trattazione orale delle parti, non poteva risultare sconosciuta al difensore dell’imputato, che non può certo invocare a sua discolpa l’ignoranza della legge processuale penale (cfr., in questo senso, con riferimento al tema della restituzione nel termine ex art. 175, c.p.p., ex plurimis, Sez. 1, n. 1801 del 30/11/2012, Rv. 254211).
Pertanto l’assenza di motivazione da parte della corte d’appello sull’eccezione proposta dall’imputato, non assume rilievo, trattandosi di eccezione infondata.
6. Inammissibili appaiono il secondo e il terzo motivo di ricorso, perché fondati su censure di merito, del tutto generiche, non scrutinabili in questa sede di legittimità, che si risolvono, peraltro, anche nella semplice reiterazione di quelle già dedotte in appello e puntualmente disattese dalla corte di merito, con la cui motivazione sul punto il ricorrente in realtà non si confronta, dovendosi, pertanto, le stesse considerare non specifiche ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Rv. 277710).
In tema di ricorso per cassazione, invero, sono inammissibili i motivi che riproducono pedissequamente le censure dedotte in appello, al più con l’aggiunta di espressioni che contestino, in termini meramente assertivi ed apodittici, la correttezza della sentenza impugnata, laddove difettino di una critica puntuale al provvedimento e non prendano in considerazione, per confutarle in fatto e/o in diritto, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti (cfr. Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, Rv. 281521).
Orbene, premesso che nel caso in esame si versa in un’ipotesi di “doppia conforme, in quanto la sentenza di appello, nella sua struttura argonnentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019 Rv. 277218), i giudici di merito hanno correttamente evidenziato il valore diffamatorio delle affermazioni utilizzate dall’imputato, come riportate nel capo d’imputazione.
Esse, infatti, presentate retoricamente in forma di domande di cui si suggeriva implicitamente la risposta, lasciavano intendere che il
COGNOME, all’epoca dei fatti sindaco di Licata, impegnato nella lotta contro l’abusivismo edilizio, “avesse partecipato a un sistema criminale volto a sfruttare la maggiore volumetria associata ai fabbricati per la trasformazione dei prodotti agricoli, per costruire vere e proprie ville; il COGNOME veniva in particolare accusato di avere personalmente realizzato la propria villa, appena divenuta nota alle cronache perché oggetto di un attentato incendiario, con la compiacenza del dirigente dell’ufficio tecnico, ing. COGNOME così commettendo non solo un abuso edilizio, ma anche reati di truffa, falso e abuso d’ufficio”, nonché di essere stato sorpreso, mentre, insieme ai suoi parenti, “cercava di eliminare nuovi abusi, quelli degli ultimi mesi/anni” (cfr. p. 6 della sentenza di primo grado).
Il giudice di primo grado aveva, inoltre, evidenziato la falsità del fatto specificamente attribuito alla persona offesa, posto che, come riconosciuto peraltro dallo stesso imputato, “la villa oggetto dell’attentato incendiario era di proprietà del padre del sindaco e non era frutto della prassi criminale descritta nel post, perché costruita negli anni Sessanta e oggetto di un condono edilizio già negli anni Novanta, non addebitabile al Cambiano, che, all’epoca, aveva solo dodici anni”.
Nei confronti di quest’ultimo era sorto effettivamente un processo penale per violazioni urbanistiche, tuttavia relative a un immobile del tutto diverso dalla villa indicata nel post, che si era concluso con una sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 131 bis, c.p., per la particolare tenuità del fatto, trattandosi della mera “copertura mediante un manto di tegole di un preesistente pergolato”, con conseguente aumento della volumetria (cfr. pp. 7 e 8 della sentenza di primo grado).
A fronte di tale percorso motivazionale, con l’atto di appello del 5.9.2022 l’COGNOME contestava il mancato riconoscimento in suo favore della scriminante ex art. art. 51, c.p., sub specie dell’esercizio del diritto di critica politica, posto che l’imputato, ha mosso critiche in modo dubitativo e interrogativo, del tutto legittime, in quanto il COGNOME, nel momento in cui ricopriva la carica di sindaco di Licata, aveva commesso “una serie di abusi edili, con aumento di volumi nella propria abitazione
di residenza”, sicché il prevenuto aveva pieno diritto di esprimere i suoi dubbi sull’operato del sindaco, anche in relazione alla sanatoria edilizia riguardante il fabbricato oggetto dell’attentato incendiario di cui si è detto.
Così delimitato il thema decidendum sottoposto al giudice di appello, appare opportuno soffermarsi brevemente sui tratti salienti del diritto di critica politica.
Non ignora, il Collegio, il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Sezione, secondo cui in tema di diffamazione a mezzo stampa, il rispetto della verità del fatto assume, in riferimento all’esercizio del diritto di critica politica, un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, ed ancor più quella politica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (cfr. Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010, Rv. 249239; Cass., Sez. 5, n. 25518 del 26/09/2016, Rv. 270284).
Allo stesso tempo va, però, rammentata la costante riflessione operata all’interno della giurisprudenza di legittimità, volta ad individuare i limiti interni alla scriminante di cui si discute, oltrepassati i quali la condotta oggettivamente contra legem posta in essere non può trovare giustificazione nell’esercizio del diritto di critica politica.
Si tratta di un approdo interpretativo, che, nel corso degli anni, ha approfondito e sviluppato nelle sue diverse implicazioni, il fondamentale principio, secondo cui il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è essenzialmente quello del rispetto della dignità altrui, non potendo lo stesso costituire mera occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale, anche mediante l’utilizzo di “argumenta ad hominem” (cfr. Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010, Rv. 249239).
Si è, così, affermato che sussiste l’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica qualora l’espressione usata consiste in un dissenso motivato, anche estremo, rispetto alle idee ed ai comportamenti altrui,
nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni non obiettive, purché non trasmodi in un attacco personale lesivo della dignità morale ed intellettuale dell’avversario (cfr. Sez. 5, n. 46132 del 13/06/2014, Rv. 262184).
Pertanto l’esimente di cui si discute, che pure tollera l’uso di espressioni forti e toni aspri, non ricorre ove tali espressioni siano generiche e non collegabili a specifici episodi, risolvendosi in frasi gratuitamente espressive di sentimenti ostili (cfr. Sez. 5, n. 48712 del 26/09/2014, Rv. 261489).
Particolarmente intensa risulta la riflessione operata dalla giurisprudenza sulla verità del fatto storico che forma oggetto della critica politica, di cui sono testimonianza due arresti, relativi a fattispecie concrete assimilabili a quella in esame.
In particolare si è osservato che, ai fini del riconoscimento dell’esimente del diritto di critica, e specificamente di critica politica, non può prescindersi dal requisito della verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica; sicché l’esimente non è applicabile qualora l’agente manipoli le notizie o le rappresenti in modo incompleto, in maniera tale che, per quanto il risultato complessivo contenga un nucleo di verità, ne risulti stravolto il fatto, inteso come accadimento di vita puntualmente determinato, riferito a soggetti specificamente individuati.
In applicazione di tale principio la Corte ha annullato con rinvio la decisione d’appello che aveva riconosciuto l’esimente all’autore di alcuni volantini nei quali, per screditare l’operato di una giunta comunale, si affermava che il sindaco era stato “sottoposto a giudizio”, senza specificare che si trattava di giudizi civili e amministrativi, ai quali il sindaco era chiamato nella qualità di rappresentante dell’ente locale (cfr. Sez. 5, n. 7798 del 27/11/2018, Rv. 276026).
Più di recente si è ribadito che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ai fini della configurabilità dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica, che trova fondamento nell’interesse all’informazione dell’opinione pubblica e nel controllo democratico nei confronti degli
esponenti politici o pubblici amministratori, è necessario che l’elaborazione critica non sia avulsa da un nucleo di verità e non trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui.
In tale caso la Corte ha ritenuto corretta l’esclusione dell’esimente, sia pure nell’ampia visione convenzionale del diritto alla libertà di espressione in contesti di critica politica, nel caso di un articolo di stampa che attribuiva ad un sindaco, senza alcun appiglio oggettivo e mediante travisamento o manipolazione dei fatti storici, il sospetto di mafiosità, per la gestione familiaristica e clientelare dell’amministrazione comunale (cfr. Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Rv. 279909).
Ciò posto, la sentenza della corte territoriale appare assolutamente in linea con i princìpi innanzi sintetizzati, nella parte in cui il giudice di appello ha evidenziato la completa non corrispondenza al vero delle circostanze di fatto rappresentate nel post: la consumazione da parte del Cambiano di una specifica attività illecita, frutto di un accordo criminoso con il responsabile dell’ufficio tecnico comunale, avente a oggetto la trasformazione in ville di fabbricati originariamente destinati alla produzione di prodotti agricoli, costruiti in zona destinata a verde agricolo, a partire dalla villa del padre, oggetto di un attentato incendiario, e l’essere stato sorpreso mentre, unitamente ai suoi parenti, cercava di eliminare gli effetti dei nuovi abusi realizzati negli ultimi anni o mesi.
Circostanze tutte, non contenenti nemmeno un nucleo di verità, artatamente trasfuse nel post per dare vita a una vera e propria aggressione ad hominem, attraverso la quale il Cambiano è stato presentato all’opinione pubblica come un soggetto dedito alla commissione di gravi reati, abusando della sua posizione di sindaco, in combutta con il dirigente dell’ufficio tecnico comunale.
Né può considerarsi tale da integrare un nucleo di verità l’abuso edilizio oggetto del procedimento penale sorto a carico del Cambiano, conclusosi con la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 131 bis, c.p., di cui si è detto in precedenza, trattandosi, come rilevato dai giudici di merito con
logico argomentare, di un evento del tutto marginale e inidoneo a rendere veri i fatti denunciati nel post, rappresentando, in ogni caso, ove anche lo si volesse prendere in considerazione, un fatto oggetto di una vera e propria manipolazione, che ne ha stravolto il vero, limitato significato.
A fronte di tale limpido argomentare, i motivi di ricorso appaiono del tutto generici, versati in fatto e meramente reiterativi delle censure già articolate in appello.
Il ricorrente insiste nell’evidenziare la circostanza che il COGNOME, mentre era impegnato sul fronte dell’antiabusivismo edilizio, aveva realizzato personalmente degli illeciti urbanistici e che il contenuto del post sollecitava si facesse luce sull’attività della famiglia COGNOME anche per il passato, ma non è revocabile in dubbio che l’imputato abbia accusato la persona offesa di gravi e specifici reati (truffa, falso ideologico, lottizzazione abusiva, abuso d’ufficio), commessi a partire da quello che nel post viene indicato come lo “uno scandaloso imbroglio posto in essere da Cambiano e da Ortega”, riguardante la costruzione della “villa del sindaco Cambiano, quella al centro degli attentati”, del tutto inesistenti, come completamente falsa si è rivelata l’ulteriore accusa dell’essere stato sorpreso il Cambiano mentre cercava di eliminare, con i suoi parenti, i nuovi abusi edilizi perpetrati.
Infondato appare anche l’ultimo motivo di ricorso.
Come affermato da un condivisibile orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità’ l’applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, a seguito della sentenza n. 150 del 2021 della Corte costituzionale, è subordinata alla verifica della “eccezionale gravità” della condotta, che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, si individua nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi d’odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima, compiute nella consapevolezza della oggettiva
e dimostrabile falsità dei fatti ad essa addebitati (cfr. Sez. 5, n. 28340 del 25/06/2021, Rv. 281602).
In questa prospettiva si è chiarito che è legittima, in relazione all’art. 10 Cedu, secondo un’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata della norma, l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il delitto di diffamazione commesso, anche al di fuori di attività giornalistica, mediante mezzi comunicativi di rapida e duratura amplificazione (nella specie “internet”), ove ricorrano circostanze eccezionali connesse alla grave lesione di diritti fondamentali, come nel caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza (cfr. Sez. 5, n. 13993 del 17/02/2021, Rv. 281024).
Di tali princìpi hanno fatto buon governo i giudici di merito, e, in particolare, il giudice di primo grado, osservando come nel caso in esame l’eccezionale gravità dei fatti (che non devono necessariamente essere limitati a discorsi di odio o di istigazione alla violenza o a campagne di disinformazione, come adombra il ricorrente), tale da giustificare la scelta della pena detentiva, peraltro in misura coincidente con il minimo edittale, deriva dalla natura, particolarmente intensa e profondamente lesiva della sfera personale del COGNOME, dell’attività di disinformazione posta in essere dall’imputato, consapevolmente fondata su molteplici false rappresentazioni della realtà, che aveva innescato una diffusa e generalizzata indignazione da parte dei lettori del post, e che si era mantenuta ferma anche dopo che l’COGNOME aveva appreso la falsità delle notizie riportate, non avendo egli proceduto ad alcuna rettifica.
Siffatta attività, si è tradotta, in ultima analisi, come rileva la corte di appello con logico argomentare, richiamandosi agli argomenti posti dalla Corte Costituzionale a fondamento della menzionata decisione, in un pericolo per la democrazia, essendo stata la menzogna utilizzata per screditare il proprio avversario agli occhi della pubblica opinione (cfr. pp. 10-13 della sentenza di primo grado; pp. 9-10 della sentenza di secondo grado).
D’altro canto, come osserva la corte territoriale, a fronte di un’articolata motivazione del tribunale, con l’atto di appello, incentrato sul diritto di
critica, l’imputato si era genericamente doluto delle argomentazioni del giudice di primo grado sul punto, limitandosi a definirle “abnormi”.
Ciò determinerebbe comunque l’inammissibilità del motivo di ricorso di cui si discute, posto che, come è stato affermato in un condivisibile
arresto, è’ inammissibile, ai sensi dell’e. 6136,, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen., il ricorso per cessazione che deduca una questione che
non ha costituito oggetto dei motivi di appello, tale dovendosi intendere anche la generica prospettazione nei motivi di gravame di una censura
solo successivamente illustrata in termini specifici con la proposizione del ricorso in cessazione (cfr. Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, Rv.
280306).
8. Al rigetto segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 18.2.2025.