Credito di imposta: non basta affermarlo per evitare la condanna
L’esistenza di un credito di imposta può essere una valida difesa per un contribuente accusato di reati fiscali, ma solo a determinate condizioni. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce i requisiti necessari affinché tale credito possa essere considerato valido per neutralizzare un debito tributario e quali sono i limiti dei poteri di accertamento del giudice. Analizziamo insieme questa importante pronuncia.
I Fatti: La Difesa Basata sul Credito Fiscale
Il caso riguarda un contribuente condannato per il reato di omessa dichiarazione, previsto dall’art. 5 del D.Lgs. 74/2000. Durante il processo d’appello, l’imputato aveva presentato documentazione a sostegno dell’esistenza di un cospicuo credito di imposta relativo all’IVA, che, a suo dire, avrebbe abbattuto il debito erariale al di sotto della soglia di rilevanza penale.
La difesa si basava su due argomenti principali:
1. L’esistenza del credito avrebbe dovuto estinguere il reato.
2. In subordine, il giudice d’appello avrebbe dovuto usare i propri poteri d’ufficio (ex art. 507 c.p.p.) per chiedere conferma dell’esistenza del credito direttamente all’Agenzia delle Entrate.
Entrambe le corti di merito avevano respinto queste argomentazioni, portando il caso all’attenzione della Corte di Cassazione.
La Decisione della Cassazione e l’uso del credito di imposta
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna e fornendo chiarimenti fondamentali su due aspetti cruciali: la natura del credito di imposta opponibile in compensazione e i limiti dei poteri istruttori del giudice penale.
La Certezza del Credito: Un Requisito Fondamentale
Il primo punto, e forse il più importante, è che per poter compensare un debito fiscale, il credito vantato dal contribuente deve essere certo. Nel caso esaminato, i giudici hanno rilevato come l’imputato si fosse limitato ad asserire l’esistenza del credito, senza fornire una prova concreta e inconfutabile della sua certezza. La documentazione prodotta non era sufficiente a tale scopo.
La Corte ribadisce un principio consolidato: non basta affermare di avere un credito; è onere del contribuente dimostrarne in modo inequivocabile la certezza e l’esigibilità.
Limiti ai Poteri d’Ufficio del Giudice
Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso, la Cassazione ha chiarito che l’attivazione dei poteri istruttori d’ufficio del giudice, previsti dall’art. 507 c.p.p., è una facoltà eccezionale, non un obbligo. Tale potere può essere esercitato solo quando l’acquisizione di una nuova prova risulti “assolutamente necessaria” ai fini della decisione.
Nel contesto dei reati tributari, l’onere di provare l’esistenza di un fatto estintivo del reato, come un credito di imposta in compensazione, grava interamente sull’imputato. Se le prove fornite dall’imputato sono insufficienti o incerte, il giudice non è tenuto a supplire a tali carenze investigative, attivandosi per cercare prove a favore della difesa.
Le Motivazioni della Corte
Le motivazioni della Corte si fondano su principi giuridici consolidati. In primo luogo, la valutazione delle prove è un’attività riservata ai giudici di merito (primo grado e appello) e non può essere messa in discussione in sede di legittimità, a meno che la motivazione non sia palesemente illogica o contraddittoria, cosa che non è avvenuta in questo caso.
In secondo luogo, la Corte sottolinea che il reato di omessa dichiarazione si consuma con la scadenza del termine per la presentazione della stessa. Eventuali pagamenti o compensazioni successive non eliminano il reato già perfezionato. Affinché la compensazione possa avere rilevanza, il credito di imposta deve essere non solo esistente, ma anche certo, liquido ed esigibile al momento della consumazione del reato, e l’imputato deve fornirne prova rigorosa.
Infine, il rigetto della richiesta di attivazione dei poteri d’ufficio è stato motivato dal fatto che l’integrazione probatoria è ammessa solo in casi eccezionali di assoluta necessità, un requisito che la giurisprudenza interpreta in modo molto restrittivo. L’imputato non può trasferire sul giudice il proprio onere probatorio.
Conclusioni
Questa ordinanza offre due importanti lezioni pratiche per i contribuenti e i loro difensori. La prima è che un credito di imposta può essere una valida difesa contro un’accusa di reato fiscale solo se la sua esistenza, certezza e liquidità sono provate in modo inconfutabile. La semplice affermazione o la produzione di documentazione non univoca non sono sufficienti. La seconda è che non ci si può attendere che il giudice penale si sostituisca alla difesa nella ricerca delle prove a discarico. L’onere della prova di fatti estintivi del reato rimane saldamente in capo all’imputato.
Un credito d’imposta può estinguere un reato tributario come l’omessa dichiarazione?
No, il versamento tardivo del tributo o la sua compensazione non incidono sulla configurazione del reato una volta che questo si è consumato. Inoltre, per poter essere considerato in compensazione, il credito deve essere provato come certo, altrimenti non è opponibile.
Il giudice è obbligato a verificare d’ufficio se un contribuente ha un credito d’imposta da usare in compensazione?
No, l’onere della prova del fatto estintivo del reato, come l’esistenza di un credito certo, grava sull’imputato. Il giudice può attivare i poteri d’ufficio per acquisire nuove prove solo se lo ritiene ‘assolutamente necessario’, ma non è tenuto a sopperire a una carenza probatoria della difesa.
Quale caratteristica principale deve avere un credito d’imposta per essere usato a difesa in un processo penale tributario?
Secondo la Corte, il requisito fondamentale è la ‘certezza’. Il credito non può essere semplicemente asserito, ma deve essere dimostrato in modo inequivocabile dall’imputato attraverso la documentazione prodotta.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 13689 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 13689 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 26/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
ASCIONE NOME NOME a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 22/05/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
NOME COGNOME ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata con la quale è stato condanNOME per il reato di cui all’art. 5 d.lgs. 74/2000. Il ricorrente deduce, primo motivo di ricorso, violazione di legge in ordine all’affermazione della responsabilità, p che nel corso del giudizio di appello, ha prodotto documentazione da cui si evince l’esistenza un credito di imposta per l’anno 2012 pari a euro 56.669,00 che avrebbe abbattuto la soglia di punibilità. Con il secondo motivo di ricorso deduce vizio della motivazione per mancata attivazione dei poteri d’ufficio da parte del giudice ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pe avrebbe potuto chiedere riscontro all’RAGIONE_SOCIALE di quanto asserito dal ricorrente.
Considerato che la doglianza non rientra nel numerus clausus RAGIONE_SOCIALE censure deducibili in sede di legittimità, investendo profili di valutazione della prova e di ricostruzione de riservati alla cognizione del giudice di merito, le cui determinazioni, al riguardo, sono insindac in cassazione ove siano sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell’iter logico-giuridico seguito dal giudicante e RAGIONE_SOCIALE ragioni del decisum. Nel caso di sp dalle cadenze motivazionali della sentenza d’appello è enucleabile una ricostruzione dei fat precisa e circostanziata, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzion difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni, in punto di responsabilità, attraverso disamina completa ed approfondita RAGIONE_SOCIALE risultanze processuali, in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili i di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede, come si des dalle considerazioni formulate dal giudice a quo, laddove ha affermato che il versamento tardivo del tributo non incide sulla configurazione della fattispecie incriminatrice non rilevando qui fatto estintivo della pretesa erariale posto in essere successivamente alla consumazione del reato. Peraltro, il giudice ha rilevato che non risulta che l’imputato abbia, sia pure tardiva versato il tributo evaso, ma che egli ha semplicemente asserito che il credito fosse suscettib di essere opposto in compensazione in quanto relativo all’iva. Il giudice ha altresì rilevato c fini della compensazione dei debiti, il credito deve essere certo, requisito nel caso di sp assente nella prospettazione del ricorrente nei motivi di gravame, e pertanto, nel caso disamina, non può essere portato in compensazione del debito. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
In ordine al secondo motivo di ricorso, occorre osservare come l’art 507 cod. proc. pen. ammetta l’integrazione probatoria soltanto ove essa risulti “assolutamente necessaria” ai fini d decidere. Costituisce, al riguardo, ius receptum, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo il quale può ritenersi sussistente il requisito dell’assoluta necessità ove la prova app decisiva (Sez. U, 6/11/92, Martin; Cass., 27/9/1997, Papini, Rv. 208009; Cass., 2/12/1992, D Fonzo, Rv. 195310), essendo pertanto richiesta una manifesta assoluta necessità della assunzione probatoria ( Cass. 8/11/1993, COGNOME; Cass. 4/6/1997, COGNOME). Dunque, non è censurabile in cassazione, se congruamente motivata, la valutazione della assoluta necessità dell’assunzione della prova, effettuata nel dibattimento di primo grado (Cass., 10/12/199 Adragna), trattandosi di un apprezzamento fondato su tutte le risultanze probatorie acquisite
rimesso esclusivamente al giudice, che deve assumere le relative determinazioni a seguito di attenta ponderazione e fornendo, al riguardo, adeguata motivazione ( Cass., 3/2/1993, Gatto). Nel caso di specie, i giudici di merito hanno evidenziato che l’onere della prova del fatto est del reato grava sul ricorrente, e che pertanto è stata correttamente declinata la richiest attivazione dei poteri officiosi istruttori di cui all’art. 507 cod. proc. pen. al fine di comprov re, presso l’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, l’esistenza di un credito di imposta da porre in compensazione in quanto dalla documentazione prodotta in giudizio non risulta che tale credito sia certo quanto nell’atto di gravame il ricorrente nulla al riguardo abbia dedotto. Trattasi di motiva congrua, esauriente ed idonea a dar conto RAGIONE_SOCIALE ragioni del decisum.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia prop il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere RAGIONE_SOCIALE spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa RAGIONE_SOCIALE ammende, equitativamente fissata in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processual ed al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa RAGIONE_SOCIALE ammende. Così deciso in Roma il 26 gennaio 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente