Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 24116 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 24116 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato a TORRE ANNUNZIATA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 16/06/2023 della CORTE D’ASSISE D’APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
udito il difensore avvocato COGNOME NOME del foro di NAPOLI, in difesa di NOME COGNOME, che conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento impugnato, la Corte di Assise di appello di Napoli ha confermato la sentenza pronunciata dalla Corte di Assise di Napoli in data 9 maggio 2018 con la quale NOME COGNOME è stato condannato alla pena dell’ergastolo per il concorso, con NOME COGNOME (esecutore materiale), NOME COGNOME (determinatore e mandante; poi assolto), NOME COGNOME (“specchiettista”), NOME COGNOME (“specchiettista”) e NOME COGNOME (che aveva messo a disposizione il ciclomotore usato per l’agguato, poi facendolo sparire) nell’omicidio di NOME COGNOME, commesso in data 14 agosto 2006 in occasione dell’agguato organizzato a suo danno, con l’aggravante della premeditazione, del motivo abietto e perché commesso avvalendosi delle condizioni di assoggettamento e omertà derivanti dall’appartenenza al RAGIONE_SOCIALE e al fine di agevolare l’attività di detta organizzazione (artt. 110, 575, 577 n. 1, in relazione all’art. 61 n. 1, e n. 3 cod. pen., 7 I. n. 203 del 1991 – capo A), nonché dei concorrenti reati di detenzione e porto in luogo pubblico di un’arma da fuoco calibro 9 utilizzata per l’omicidio (artt. 110 cod. pen., 2, 4 e 7 I. 2 ottobre 1967, n. 895 – capo B).
1.1. Con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito è stata affermata la responsabilità dell’imputato per i sopra richiamati delitti sulla base delle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dei riscontri reciproci nonché esterni, in forza dei quali sono stati individuati il movente dell’omicidio (nel desiderio di vendetta del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE per l’affronto subìto qualche mese prima in occasione del carnevale nonché in considerazione dei crescenti dissidi esistenti con l’avverso RAGIONE_SOCIALE cui apparteneva la vittima), le fasi organizzative e deliberative nonché l’esecuzione di esso, posta in essere da un collaudato gruppo di fuoco del RAGIONE_SOCIALE che, individuata la vittima, la sorprendeva e la colpiva ripetutamente con quattordici colpi di arma da fuoco.
Ricorre NOME COGNOME, a mezzo del difensore AVV_NOTAIO, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata, sviluppando due motivi.
2.1. Il primo motivo denuncia la violazione di legge, in riferimento agli artt. 111 Cost., 192 e 533 cod. proc. pen., e “la mancanza di motivazione circa l’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. In particolare, sentenza di primo grado, contenendo una motivazione per relationem sul tema dell’attendibilità delle dichiarazioni degli stessi, senza fornire la dimostrazione di avere preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e di averle meditate e ritenute coerenti con la sua decisione. La
sentenza di secondo grado impugnata, condividendo i vizi motivazionali della sentenza di primo grado e contenendo altresì una valutazione atomistica e frazionata delle evidenze che concorrono a formare il giudizio di attendibilità dei collaboratori di giustizia, ignorando in tal modo il carattere dirompente delle contraddizioni che una valutazione sinottica è idonea a rivelare. Per non contenere, entrambe le sentenze, pertinenti risposte alle deduzioni difensive. Per avere violato le regole probatorie e il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, omettendo di indicare le ragioni per le quali non si sono condivise le valutazioni radicalmente differenti delle medesime dichiarazioni poste a fondamento del giudizio di colpevolezza dell’imputato, contenute in altre sentenze passate in giudicato”.
Resta non chiarito “l’elemento di contraddizione costituito dal fatto che la sentenza che ha assolto COGNOME NOME ha, sì, valutato positivamente le medesime dichiarazioni poste a fondamento del giudizio di condanna contro COGNOME NOME, ma le ha anche disattese laddove ha ritenuto di assolvere COGNOME NOME e COGNOME NOME, raggiunti dalle chiamate in reità e correità di quei medesimi collaboratori”.
Secondo il ricorrente, la Corte “si affida ad una motivazione (la sentenza di primo grado COGNOME NOME) che è stata radicalmente riformata dalla sentenza appello COGNOME NOME“; “ignora del tutto gli argomenti dell’ordinanza del riesame”.
Il ricorso soggiunge: “La sentenza impugnata omette di confrontarsi in alcun modo con la sentenza appello NOME, che aveva motivatamente giudicato inattendibili e contraddittorie quelle stesse dichiarazioni dei collaboratori che la sentenza impugnata ha posto a fondamento della propria decisione (in conformità con quanto aveva fatto l’ordinanza del riesame)”.
La sentenza impugnata dà conto del fatto che vi sono divergenze tra i collaboratori di giustizia, ma le “risolve” ricorrendo ad un ragionamento congetturale.
La sentenza impugnata analizza in maniera parcellizzata e frazionata solo alcune delle obiezioni sollevate dalla difesa senza mai giungere ad una valutazione unitaria e complessiva del quadro probatorio; si tratta delle obiezioni che costituivano il fulcro del ragionamento con il quale la sentenza appello
NOME COGNOME aveva concluso affermando la sussistenza di seri dubbi circa l’autenticità delle conoscenze prospettate dai collaboratori di giustizia.
Il percorso motivazionale doveva ricomprendere: a) la valutazione dei rischi di circolarità e di non genuinità connessi al fatto che COGNOME NOME era intervenuto in una fase nella quale erano stati già ampiamente divulgati i contenuti delle dichiarazioni dei precedenti collaboratori; b) la coerenza delle nuove dichiarazioni con quelle precedenti; c) un esame sinottico e complessivo di tutte le dichiarazioni acquisite, ivi comprese quelle di COGNOME NOME, anche alla luce dei rilievi difensivi e delle valutazioni contenute nella sentenza appello COGNOME NOME. Tuttavia, sia nella sentenza di primo grado, che nella sentenza impugnata, è totalmente assente tale essenziale percorso. In particolare, i giudici omettono di confrontarsi con l’importante deduzione difensiva (peraltro condivisa dalla sentenza appello COGNOME NOME) relativa agli intenti calunniosi di COGNOME e COGNOME.
La spiegazione offerta dalla Corte travisa le dichiarazioni di COGNOME che omette di riferire che fu lui stesso a dire di aver lasciato il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE poco dopo l’uccisione di COGNOME, in quanto il capoRAGIONE_SOCIALE pretendeva da lui il pagamento del residuo debito contratto dal suocero per l’acquisto di una partita di cocaina. Travisando per omissione le dichiarazioni dello stesso COGNOME, là dove attribuisce il suo allontanamento dal RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ad “una sua spontanea decisione” e tralasciando di considerare che egli aveva anche detto che NOME aveva manifestato l’intenzione di sopprimere lui, il COGNOME ed altri affiliati perché poc affidabili siccome cocainomani (cfr. sentenza appello COGNOME NOME, acquisita agli atti, pag. 16).
L’unico contributo originale offerto da COGNOME NOME riguarda la confidenza ricevuta da NOME di essere stato egli stesso autore dell’omicidio di COGNOME NOME. La rivendicazione di COGNOME NOME troverebbe inoltre conferma nell’esito positivo dello stub effettuato sullo stesso COGNOME subito dopo l’omicidio: “Tale circostanza – come evidenziato dalla difesa – lungi dal confermare le dichiarazioni degli altri collaboratori, se valutata in uno con tutte le altre emergenze, ivi compresi i motivi di rancore nei confronti dei NOME che NOME ha dichiarato di condividere con COGNOME NOME, rilancia per così dire il tema della calunnia”.
2.2. Il secondo motivo denuncia la violazione di legge, in relazione agli artt. 125 comma 3, 192 cod. proc. pen. e 16-quater L. n. 82 del 1991, e la mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione per non avere dato conto della doverosa “valutazione particolarmente penetrante circa le ragioni per le quali i collaboratori di giustizia, in particolare COGNOME NOME, abbiano reso le dichiarazioni poste a fondamento della condanna a notevole distanza temporale dall’inizio della collaborazione, circostanza specificamente evidenziata dalla difesa”.
In particolare, la difesa aveva osservato, senza ricevere risposta, che il superamento del termine entro il quale rendere le dichiarazioni non è irrilevante neppure in fase di indagini ed ai fini delle valutazioni cautelari.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, che presenta numerose doglianze inammissibili, è nel complesso infondato.
Il secondo motivo, che ha carattere pregiudiziale, è generico e manifestamente infondato.
2.1. Esso deduce in modo generico che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia siano “tardive”, rispetto alla redazione del verbale informativo della collaborazione, senza neppure indicare a quale tra i numerosi collaboratori si riferisce la censura, mentre le sentenze di merito precisano puntualmente le tempistiche delle dichiarazioni accusatorie dei singoli collaboratori.
2.2. Il motivo è, del resto, manifestamente infondato perché non contesta la corretta interpretazione della legge che ha applicato il giudice di merito nel ribadire, conformemente alla giurisprudenza di legittimità, che «la sanzione di inutilizzabilità che, a norma dell’art. 16-quater, comma 9, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. nella legge 15 marzo 1991, n. 82 come modificata dall’art. 14 della legge 13 febbraio 2001, n. 45, colpisce le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei contenuti della collaborazione, trova applicazione solo con riferimento alle dichiarazioni rese fuori del contraddittorio e non a quelle rese nel corso del dibattimento» (Sez. 2, n. 34240 del 10/07/2018, COGNOME, Rv.
273454), sicché ciò che rileva è quanto il dichiarante ha riferito al dibattimento e non quando e quanto abbia dichiarato nella fase di redazione del verbale informativo.
Va, in proposito, notato che i collaboratori sono stati esaminati in contraddittorio nel dibattimento e le difese hanno anche avuto l’opportunità di utilizzare, per saggiarne la credibilità, tutto il complesso delle precedent dichiarazioni rese nella fase investigativa e in altri giudizi.
2.3. È, dunque, de-assiale la deduzione che si fonda sul principio giurisprudenziale (Sez. 6, n. 2632 del 14/12/2021 – dep. 2022, Ruscio, Rv. 282744) che impone una valutazione penetrante delle ragioni che hanno determinato la “tardività” delle dichiarazioni (in particolare di COGNOME) poiché tale condiviso principio riguarda le indagini preliminari e le misure cautelari adottate in detta fase e non la fase del giudizio (Sez. U, n. 1149 del 25/09/2008 – dep. 2009, Magistris, Rv. 241882 – 01: «Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare sono utilizzabili nella fase delle indagini preliminari, in particola ai fini della emissione delle misure cautelari personali e reali, oltre ch nell’udienza preliminare e nel giudizio abbreviato»).
2.3.1. In proposito, comunque, la giurisprudenza ha chiarito che «l’utilizzazione, ai fini dell’emissione di misure cautelari personali, del dichiarazioni accusatorie di un pentito, che si esternino con carattere di novità oltre il centottantesimo giorno dall’inizio della collaborazione e siano ritenute dal giudice meritevoli di apprezzamento nell’ambito del quadro indiziario di riferimento, richiede adeguata motivazione la quale dia conto del legittimo sospetto che la propalazione, in conseguenza della sua intempestività, sia nata per ragioni strumentali e possa quindi non essere veritiera» (Sez. 1, n. 7454 del 13/01/2009, COGNOME, Rv. 242845).
Tale ultima verifica è chiaramente riferibile al giudizio dibattimentale nel quale, tuttavia, si realizza mediante l’applicazione delle regole del contraddittorio, come avvenuto nel caso di specie.
Il primo motivo, che presenta numerose doglianze inammissibili, è nel complesso infondato.
3.1. Non può farsi a meno di notare, a livello metodologico, che le due decisioni, in quanto totalmente conformi anche per quello che riguarda la minuziosa ricostruzione del fatto e la valutazione del tutto simmetrica delle prove, si integrano pienamente (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218) sicché, nell’esaminare i motivi di ricorso, che denunciano presunte omesse risposte ai motivi di appello, si farà ampio riferimento alle considerazioni espresse dal primo giudice e richiamate dal secondo a fronte di deduzioni meramente reiterative o puramente confutative e perciò non dotate di alcuna capacità critica, a maggior ragione perché non viene neppure denunciato il travisamento della prova, unico vizio che, ove esistente e specificamente denunciato, consentirebbe al ricorrente di introdurre censure sulla ricostruzione del fatto e la valutazione delle prove (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758).
3.2. Ciò non di meno, la sentenza di appello è particolarmente argomentata e puntuale nel fornire risposta alle deduzioni difensive che sono state attentamente riassunte nella sentenza (pag. 15 e segg.), come pure il ricorso non contesta, sicché non si comprende, per la genericità della deduzione difensiva, a cosa esso si riferisca quando denuncia l’omessa risposta.
Si tratta, semmai, di una risposta che la difesa mostra di non condividere, preferendo dedurre l’omissione argomentativa piuttosto che impegnarsi nella critica specifica delle puntuali argomentazioni sviluppate dal giudice di merito.
Ciò avviene, in particolare, proprio per quello che concerne la questione dell’attendibilità dei collaboratori che è specificamente e partitannente esaminata dal giudice di appello (pag. 20 e segg.)
Si tratta di dichiarazioni precise, circostanziate, intrinsecamente coerenti e costanti, perché reiterate in vari dibattimenti e mai ritrattate, nonostante il fatt che in alcuni casi sia stata contestata nel dibattimento l’esistenza di elementi distonici nelle rispettive propalazioni, anche in riferimento all’esito di alcun giudizi celebrati a carico di due concorrenti nel reato.
Secondo i giudici di merito, in tutti i casi nei quali sono emerse discrasie, i collaboratori sono stati in grado di spiegare le ragioni della non perfetta sovrapponibilità di quanto percepito in un contesto che si assume comune ad entrambi, superando in tal modo l’apparente differenza del loro racconto.
Le dichiarazioni dei collaboratori, secondo i giudici di merito, convergono sempre e comunque sugli aspetti essenziali del fatto e divergono al più su dettagli non significativi che, rispetto alla portata generale delle loro propalazioni che, del resto, non sono limitate a questa sola vicenda delittuosa ma abbracciano numerosi altri delitti tutti ampiamente riscontrati, ben possono essere dimenticati o riferiti in maniera dubbiosa.
Anzi, il fatto che ci si trovi in presenza di racconti non perfettamente sovrapponibili in alcune rievocazioni depone, secondo un giudizio che non presenta vizi logico giuridici, a favore della loro indipendenza e consente di escludere la possibilità di una previa concertazione o di una possibile suggestione reciproca.
Inoltre, la coerenza, l’assenza di interesse accusatorio specifico, non essendo la loro chiamata in reità nei confronti degli imputati limitata a questa sola vicenda, ma anzi caratterizzata da chiamate in correità (essi accusano sempre prima se stessi) per molti altri gravi reati in un arco temporale apprezzabile, jrt e l v.s1.;. sono stati logicamenteVulteriori indici di piena attendibilità dei dichiaranti.
Si tratta, secondo i giudici di merito, di dichiarazioni costanti perché essi sono stati sentiti in vari dibattimenti sullo stesso fatto ed hanno sempre confermato le medesime dichiarazioni senza alcun aggiustamento.
Del resto, il criterio seguìto dai giudici di merito per compiere la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è pienamente aderente al canone ermeneutico secondo il quale la reciproca conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni delle persone imputate in procedimenti connessi a norma dell’articolo 12 cod. proc. pen. ovvero imputate di reato collegato ai sensi dell’articolo 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., non esige che le propalazioni attengano all’idem dictum; è bensì sufficiente che i fatti rappresentati siano in rapporto di univoca implicazione rispetto alla specifica condotta criminosa da provare (così, in motivazione, Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012 dep. 2013, Aquilina, Rv. 255143).
I giudici di merito hanno correttamente fatto applicazione del principio secondo il quale «le dichiarazioni accusatorie rese dal co-indagato o coimputato nel medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato ai sensi dell’art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen. sono idonee a fornirsi reciproco riscontro qualora siano attendibili e, anche in
relazione a distinti frammenti dell’attività criminosa, colleghino l’indagato o l’imputato al fatto» (Sez. 1, n. 40237 del 10/10/2007, Cacisi, Rv. 237867).
È perciò infondata la doglianza che contesta, allo scopo di escludere la credibilità dei collaboratori di giustizia, la parziale non coincidenza delle rappresentazioni fattuali dei chiamanti in correità, come pure quella che segnala gli esiti processuali cui altri giudici sono pervenuti in merito alla responsabilità alcuni soggetti implicati nella vicenda (NOME – estraneo all’odierna imputazione – è stato assolto per non avere fornito un contributo concreto all’omicidio; NOME NOME è stato assolto per l’incertezza sulla determinazione omicida).
È, in particolare, priva di capacità critica la censura che riguarda le richiamate assoluzioni poiché attiene a condotte diverse da quella oggetto del presente giudizio, mentre tutti i componenti del gruppo di fuoco e di organizzazione dell’omicidio sono stati condannati per tale compartecipazione criminosa.
Con specifico riferimento alla valutazione compiuta dai giudici di merito è utile ricordare, a fronte della generica doglianza difensiva, che:
4.1. – riguardo alla credibilità soggettiva, COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME hanno in comune il medesimo passato di militanza criminale nelle file del RAGIONE_SOCIALE, dove hanno svolto ruoli tali da giustificare l’origine e la causa del loro sapere e hanno sempre intrattenuto contatti con i soggetti direttamente chiamati in causa nella vicenda;
4.2. – COGNOME NOME è stato il primo tra i collaboratori di giustizia a rendere dichiarazioni sulla vicenda, quando le indagini sull’omicidio di COGNOME NOME non avevano portato ad alcun apprezzabile risultato.
NOME narrava i fatti della vicenda in esame – antecedenti alla guerra di camorra che inizierà nell’aprile del 2007 tra i RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e COGNOME – all’epoca assolutamente sconosciuti agli inquirenti.
Nei riguardi di COGNOME non sono dedotti né emersi elementi dai quali desumere che la sua scelta collaborativa sia stata animata da finalità ritorsive.
Del resto, è apparso del tutto improbabile, secondo un giudizio logico privo di sbavature, che la sua breve permanenza nel RAGIONE_SOCIALE NOME possa aver fatto sorgere motivi di astio e di risentimento tanto profondi da indurlo ad una falsa
delazione, soprattutto per un fatto di tale gravità e di palese matrice camorristica, quale appunto l’omicidio commesso in danno di COGNOME NOME.
NOME, oltre ad essere stato il primo a rendere dichiarazioni sul delitto, si è anche autoaccusato di gravi reati per i quali all’epoca non era neppure indagato: addirittura, non era neppure nota la sua affiliazione al RAGIONE_SOCIALE.
I legami che COGNOME aveva con il gruppo dei fratelli NOME e NOME, cugini di NOME, e la sua affiliazione al RAGIONE_SOCIALE, benché durata solo pochi mesi (dall’agosto all’ottobre del 2006) sono stati ampiamente riscontrati, come il ricorso non contesta, dagli accertamenti di polizia che hanno confermato la comune detenzione di COGNOME dapprima con NOME e poi con COGNOME NOME nelle strutture carcerarie indicate dal collaboratore.
Le sue dichiarazioni, dunque, sono state logicamente giudicate adeguate alla posizione che egli rivestiva nel RAGIONE_SOCIALE; ciò, secondo la logica valutazione dei giudici di merito, spiega la ragione per la quale egli non aveva un’approfondita conoscenza di tutti i sodali e perché a sua volta egli non fosse perfettamente conosciuto da tutti gli altri membri del RAGIONE_SOCIALE.
Le dichiarazioni di COGNOME, che ha operato una chiamata in reità diretta nei confronti di NOME NOME e degli altri soggetti coinvolti, hanno trovato conferma pure nelle successive ammissioni di responsabilità rese da NOME e NOME che, autoaccusandosi di aver partecipato al delitto, hanno dato al narrato di COGNOME un riscontro di credibilità, logicamente giudicato formidabile e inoppugnabile: il ricorso è silente sul punto.
4.3. – NOME, al momento dell’avvio della collaborazione (18 settembre 2007), aveva pressoché ultimato di scontare la pena inflittagli per violazione degli obblighi connessi alla misura di prevenzione della libertà vigilata ed era stato raggiunto, proprio il giorno precedente, da un’ordinanza di custodia cautelare per il delitto di cessione di droga in carcere.
Come hanno logicamente affermato i giudici di merito, la confessione di ben cinque omicidi, oltre quello di COGNOME NOME, non poteva certo servire ad alleggerire la posizione di NOME: anzi, la scelta di collaborazione portava il dichiarante a subire gravi conseguenze anche sul piano personale, visto che dovette per questo patire gli omicidi di due fratelli (NOME: il 9 dicembre 2007 e NOME: il 29 aprile 2008), chiaramente decretati ed eseguiti dal RAGIONE_SOCIALE per
punirlo della sua dissociazione e per distogliere altri affiliati da eventua analoghe scelte.
Il collaboratore ha, inoltre, fornito precise e confermate indicazioni sui soggetti che all’epoca facevano parte del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e sui rapporti che esistevano tra tale RAGIONE_SOCIALE e quello COGNOME. Ha dimostrato pure di essere ben a conoscenza della vittima e dei suoi legami di parentela con COGNOME NOME e COGNOME NOME, entrambi affiliati a quella organizzazione antagonista.
Per sua stessa ammissione, COGNOME NOME ha fatto parte del c.d. gruppo di fuoco del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE; in tale veste ha potuto fare i nomi degli altri componenti del gruppo RAGIONE_SOCIALE, indicando tra questi proprio COGNOME NOME, oltre a COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME: soggetti tutti con i quali aveva per tali ragioni operative contatti diretti non certo improvvisati o dell’ultima ora.
La narrazione dei fatti resa in dibattimento, come notano i giudici di merito senza ricevere alcuna specifica critica, è risultata analitica e coerente con le dichiarazioni precedentemente rese: ha fornito attraverso l’esame incrociato delle parti una versione logica e convergente con la dinamica dei fatti per la fase della quale era direttamente a conoscenza per avervi partecipato personalmente.
La coerenza e la genuinità del suo narrato è stata inoltre confermata – come la difesa non contesta specificamente – dalla perfetta coincidenza dei luoghi dimostrata con la descrizione da lui effettuata con riferimento alla indicazione degli appartamenti abitati all’interno del palazzo Fienga (sede del RAGIONE_SOCIALE) dai vari affiliati al RAGIONE_SOCIALE (soggetti, peraltro, tutti puntualmente riconosciuti in se di individuazione fotografica).
La intrinseca credibilità è stata puntualmente vagliata, come il ricorso non contesta: egli ha indicato agli investigatori il luogo ove normalmente venivano occultate le armi del RAGIONE_SOCIALE, consentendone il ritrovamento; la frequentazione con i soggetti accusati, affiliati al RAGIONE_SOCIALE (come COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e lo stesso COGNOME NOME), ha trovato riscontro nei controlli di polizia effettuati sul territorio;
NOME ha dichiarato che – in qualità di affiliato al RAGIONE_SOCIALE svolgeva funzioni di specchiettista, assolvendo al compito di controllare ì
movimenti delle vittime designate e segnalarle agli incaricati dell’esecuzione (ruolo confermato anche da NOME).
Il collaboratore ha riferito ciò che da lui è stato direttamente vissuto e ha confessato la sua partecipazione al delitto quando ancora non aveva acquisito la qualifica di indagato: la piena affidabilità delle propalazioni è stata fondata, in primo luogo, sulla sostanziale ammissione del fatto omicidiario per il quale nessun elemento indiziante era mai emerso a suo carico, neppure all’indomani delle rivelazioni auto ed etero accusatorie di COGNOME, il quale nella fase investigativa, non lo aveva neppure collocato tra le persone presenti a INDIRIZZO (sede del RAGIONE_SOCIALE) il giorno 14 agosto 2006.
La conoscenza diretta dei fatti, almeno con riferimento alla fase immediatamente antecedente a quella esecutiva, spiega, secondo la non contestata ricostruzione dei giudici di merito, la precisione, la coerenza e l’analiticità del racconto.
La genuinità e spontaneità delle sue propalazioni non sono state specificamente contrastate dalla difesa, salvo la generica deduzione dì inaffidabilità del collaboratore.
Anche per NOME gli accertamenti di polizia, che il ricorso omette di censurare, hanno confermato quanto dichiarato dal collaboratore circa i periodi di co-detenzione con COGNOME NOME ed COGNOME NOME NOME in ordine alla codetenzione con COGNOME NOME e COGNOME NOME ed alla concomitanza dei colloqui con i rispettivi nuclei familiari nel corso dei quali furono acquisite le informazioni relative all’episodio dell’uovo lanciato contro COGNOME NOME e alla conseguente aggressione da parte di quest’ultimo in danno dell’autore del gesto (NOME COGNOME), con l’immediata ritorsione del RAGIONE_SOCIALE effettuata con l’esplosione di colpi d’arma da fuoco contro l’abitazione di COGNOME NOME.
I giudici di merito hanno anche fornito una specifica risposta ai rilievi difensivi, risposta che il ricorso si ostina a non condividere: il collaboratore di giustizia ha spiegato che dopo la sua scarcerazione del 9 agosto 2006 aveva potuto riprendere tutti i contatti con gli esponenti del RAGIONE_SOCIALE e che proprio NOME COGNOME (dal quale apprendeva che in quel periodo i rapporti tra i RAGIONE_SOCIALE erano già compromessi) lo aveva incaricato di prendere la moto per eseguire il reato.
NOME attribuiva il suo allontanamento dal RAGIONE_SOCIALE, dunque, solo ad una sua spontanea decisione, intimamente maturata, puntualmente riscontrata dalla collaborazione;
COGNOME NOME, in qualità di componente del gruppo di fuoco del RAGIONE_SOCIALE, al pari di COGNOME NOME, ha partecipato all’esecuzione di molti omicidi; in tale veste è stato logicamente giudicato credibile che, con riferimento all’uccisione di COGNOME NOME, egli abbia appreso i fatti da alcuni rilevanti esponenti del RAGIONE_SOCIALE (RAGIONE_SOCIALE) e poi anche direttamente da due partecipi al delitto stesso (COGNOME NOME e COGNOME NOME), in quanto all’epoca del delitto era detenuto.
Il narrato, seppure portatore di una conoscenza solo de relato, nel suo nucleo essenziale relativo alla ricostruzione della vicenda è apparso coerente con ciò che è emerso dalle dichiarazioni provenienti dalle fonti primarie, che invece hanno riferito per conoscenza diretta.
Le sue dichiarazioni, come il ricorso non contesta, sono concordanti con quelle rese dagli altri collaboratori di giustizia con riferimento alla posizione d NOME NOME nel RAGIONE_SOCIALE, alla sua diretta partecipazione nella vicenda e al compito specifico da lui svolto nella fase esecutiva dell’agguato.
3.4. Con riferimento alla attendibilità intrinseca delle dichiarazioni, i giudici di merito hanno osservato, senza ricevere una critica specifica, che la vicenda raccontata dai collaboratori di giustizia manifesta convergenza: a) sul movente dell’azione delittuosa; b) sulla indicazione di COGNOME NOME come soggetto che partecipò alla fase organizzativa dell’azione di fuoco; c) sul ruolo esecutivo che COGNOME NOME assolse nella esecuzione dell’agguato.
Tutti i collaboratori hanno ricollegato l’uccisione di COGNOME COGNOME al fatto accaduto il “martedì grasso” del 2006 (28 febbraio 2006), allorché l’uomo, che era a passeggio con il cognato, venne colpito al volto da un uovo lanciato dal giovane NOME COGNOME (figlio di NOME NOME e nipote di NOME NOME, fratello di NOME e del capostipite NOME, padre di NOME e NOME). COGNOME NOME, a quell’offesa, aveva reagito schiaffeggiando violentemente il ragazzo.
La realtà del fatto ha trovato ampia conferma nelle risultanze processuali: COGNOME NOME, altro figlio della vittima, ha confermato di essere a conoscenza dell’episodio e che nell’immediatezza dell’omicidio di suo padre ne aveva riferito
alla polizia; confermava, inoltre, di aver appreso dal padre che il giovane aggressore, poi schiaffeggiato, era proprio NOME di NOME, nipote dell’omonimo capo RAGIONE_SOCIALE NOME.
Dell’episodio, secondo i giudici di merito che non ricevono una critica specifica, si aveva conferma anche dal contenuto della conversazione (n. 21 del 2 maggio 2007) intercettata a bordo della vettura in uso a NOME (affiliato al RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE); nel colloquio, COGNOME aveva attribuito l’origine della nuova guerra tra i due RAGIONE_SOCIALE proprio al lancio dell’uovo fatto a carnevale dell’anno precedente da NOME COGNOME contro COGNOME NOME e all’aggressione subita dal ragazzo da parte di quest’ultimo, e che ciò aveva poi indotto il RAGIONE_SOCIALE, per lavare l’offesa, a decretare la morte del medesimo COGNOME COGNOME.
Il collegamento tra l’episodio della sera del “martedì grasso” del 2006 e la sparatoria della notte contro il portone dell’abitazione di COGNOME NOME ha trovato, inoltre, un ulteriore elemento di riscontro, che la difesa omette di criticare specificamente, nella circostanza – riferita dai collaboratori COGNOME, COGNOME e COGNOME – di un tentativo di pacificazione non andato a buon fine, tanto che ne è derivato l’omicidio per il quale si procede, come risulta da altre captazioni che la difesa omette di esaminare.
Secondo i giudici di merito, altro dato di convergenza nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è il ruolo attribuito a COGNOME NOME, insieme agli altri soggetti concorrenti nell’azione delittuosa. Egli è stato indicato non solo da COGNOME NOME e COGNOME NOME, chiamanti in correità, ma anche da COGNOME NOME e COGNOME NOME, chiamanti in reità, come compartecipe all’azione di fuoco, compiuta materialmente da COGNOME NOME, con il compito di guidare il motociclo su cui sedeva il complice, che aveva poi materialmente esploso i colpi.
Secondo la versione di NOME, però, NOME era stato fin dal primo momento chiamato a svolgere questo compito; secondo NOME, invece, l’incarico era stato affidato dapprima a COGNOME NOME, cui era poi subentrato COGNOME NOME a seguito di un improvviso malore che aveva colpito il primo. COGNOME, a sua volta, non ha riferito del malore di NOME e della sostituzione di questi con NOME, come invece accennato da NOME.
Il dato, rimarcato dalla difesa per screditare il narrato dei collaboratori, non è stato però giudicato significativo dai giudici di merito; ciò sulla base di una logica e coerente argomentazione che il ricorso si limita a non condividere:
tutti i dichiaranti convergono sia sul dato essenziale della affermata partecipazione dell’imputato all’azione di fuoco, sia sul ruolo specifico da lui svolto, avendo egli ricevuto lo specifico incarico di guidare il mezzo per raggiungere e colpire la vittima;
ciascuno dei dichiaranti ha riferito il fatto riportando quanto era caduto sotto la propria diretta percezione e nella specifica fase nel corso della quale lo ha appreso: NOME, quale partecipe alla fase ideativa ed organizzativa, NOME, quale soggetto incaricato nella fase di approntamento dei mezzi per l’esecuzione del delitto, COGNOME, come soggetto che assistette alla fase iniziale che vide il coinvolgimento diretto di NOME nella fase esecutiva.
Si è fatto logicamente notare che i momenti che precedettero l’azione delittuosa furono caratterizzati dalla fibrillazione del gruppo e dalla fretta di NOME NOME di non farsi sfuggire l’occasione di uccidere finalmente COGNOME NOME, approfittando della segnalata presenza della vittima designata nei pressi dello stadio. In quei frangenti, alla iniziale scelta di affidare a COGNOME NOME, come componente del commando, il ruolo di guidatore del mezzo (per la sua riconosciuta abilità in questa mansione), subentrò la scelta di affidare a NOME tale compito, visto che – secondo NOME – proprio costui era comparso insieme a NOME a portare la moto e le pistole. Siccome tale scelta, però, non aveva potuto avere seguito a causa della improvvisa indisposizione di NOME, il gruppo dava seguito alla originaria scelta di attribuire a NOME il compito di guidare il mezzo.
Si è logicamente sottolineato che NOME, non coinvolto nella fase esecutiva, quindi, ben poteva non aver consapevolezza di quell’improvviso cambio di equipaggio dei killer, visto che la composizione finale del gruppo di fuoco era quella originariamente stabilita; mentre NOME, al quale erano state affidate mansioni meramente esecutive (custodire i motocicli, provvedere alla loro distruzione dopo l’esecuzione dell’agguato, assolvere il compito di vedetta), poteva per questa ragione non conoscere l’iniziale decisione di dare a NOME il ruolo di componente del commando.
Come è stato correttamente evidenziato, a fronte dell’incongruenza nel narrato dei due principali collaboratori di giustizia, ciò che rileva in maniera assorbente è che si tratta di aspetti che segnalano un contrasto solo apparente tra i narrati, visto che tutti i dichiarati convergono poi – come detto- sulla partecipazione e sul ruolo assolto da COGNOME NOME.
Lo stesso NOME (il primo a fare il nome dell’imputato e che aveva assistito alle fasi preparatorie) ha riferito in maniera univoca di aver assistito alla partenza dei killer armati, riconoscendoli in NOME e NOME, specificando che si trattava di soggetti che lui vedeva tutti i giorni.
COGNOME NOME, inoltre, ha riferito della presenza in quella fase preparatoria di COGNOME NOME, indicandolo come colui che giunse nel palazzo insieme a COGNOME NOME e ad altri soggetti a portare la moto e le pistole; ha specificato che quando COGNOME NOME venne ad avvertirli che COGNOME NOME era allo stadio, .2. lui e NOME uscirono subito fuori dal ballatoiovchiamarono COGNOME NOME e COGNOME NOME dal piano di sopra, dove abitava; che giunsero COGNOME NOME e COGNOME NOME in quel frattempo, con altre due o tre persone, a portare la moto e le pistole; infine che NOME e NOME scesero per le scale, presero i caschi e le pistole e la moto che era stata portata sotto al portone.
NOME NOME, a sua volta, non ha negato affatto la presenza di COGNOME NOME nel luogo in cui venne dato il mandato omicidiario, ma si è limitato a dichiarare di non ricordare se tra i presenti, quando si decise che COGNOME NOME avrebbe fatto parte del commando, oltre a NOME e NOME, c’era anche NOME: si tratta di una affermazione che, per la vaghezza del ricordo, non è stata ritenuta idonea a smentire il dato narrativo affermato da NOME, trattandosi di una circostanza che appare logicamente spiegabile col fatto che NOME – a differenza di NOME – ha partecipato solo alla fase esecutiva del delitto.
COGNOME non ha smentito la presenza di NOME nella fase organizzativa e preparatoria del delitto, pur non riuscendo a riconoscerlo in fotografia; come hanno logicamente evidenziato i giudici di merito, COGNOME ha fatto parte del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE solo per un periodo temporale esiguo, per giunta come soggetto militante nel sottogruppo facente capo a COGNOME NOME, sicché è comprensibile che egli non fosse in grado di individuare con precisione NOME, così come il fatto che né NOME né NOME conoscessero l’identità di COGNOME.
Resta significativo, come hanno logicamente chiarito i giudici di merito, che COGNOME è stato il primo collaboratore a riferire dell ‘omicidio; del resto, COGNOME, pur non conoscendo il nome di COGNOME, lo ha collocato tra le persone presenti a INDIRIZZO Fienga il giorno dell ‘ omicidio, così fornendo uno specifico riscontro al narrato del primo.
Le dichiarazioni individualizzanti di tale collaboratore nei confronti di COGNOME NOME appaiono intrinsecamente attendibili, considerando che egli ha indicato l ‘imputato come uno dei due soggetti che erano partiti per fare l ‘omicidio indicandolo con certezza e fornendo di lui elementi individualizzanti: sul punto il ricorso è silente.
Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell ‘ art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 19 aprile 2024.