Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 29388 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 29388 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a Padova il 27/04/1965 avverso la sentenza del 28/10/2024 della Corte d’appello di Venezia; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha concluso riportandosi alla memoria in atti, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso con le relative determinazioni in tema di spese; sentito, per la parte civile, COGNOME l’avv. NOME COGNOME che ha chiesto la conferma del provvedimento impugnato anche in riferimento alle statuizioni civili; sentito il difensore dell’imputato, l’avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 12 novembre 2020, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Venezia ha dichiarato COGNOME NOME responsabile dei delitti di cui agli artt. 615ter cod. pen. e 48 e 479 cod. pen. e, col vincolo della continuazione e la riduzione per il rito abbreviato, lo ha condannato alla pena di
un anno di reclusione e al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, da liquidarsi in separata sede. L’imputato è stato riconosciuto colpevole di essersi introdotto abusivamente, il 19 agosto 2015, nel client di posta elettronica certificata Aruba del fratello, NOME NOME e di aver utilizzato, senza esserne autorizzato, la password generata dal token USB della vittima, al fine di formare ed inviare una scrittura contenente un falso riconoscimento di debito, corredata dalla firma digitale della stessa vittima, inducendo, in tal modo, il giudice civile del Tribunale di Vicenza ad emanare erroneamente, il 13 maggio 2016, un decreto ingiuntivo per euro 90.000,00 a carico dell’apparente debitore.
Su gravame dell’imputato, la Corte d’Appello di Venezia, con sentenza del 28 ottobre 2024, ha dichiarato estinti per prescrizione i reati, confermando la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni a favore dell’erede della persona offesa, NOME, liquidati in euro 7.000,00.
Ha proposto ricorso per Cassazione COGNOME NOME.
3.1. Col primo motivo deduce la nullità dell’ordinanza emessa dal Giudice dell’udienza preliminare di Venezia il 24/9/2020 di rigetto dell’istanza di esclusione della costituzione di parte civile per inosservanza degli artt. 75 cod. proc. pen. e 111 Cost. ed in violazione del divieto di frazionamento della domanda risarcitoria, lamentando anche il difetto di motivazione sul punto.
Secondo il giudice d’appello non vi sarebbe alcuna coincidenza tra le azioni esercitate dalla persona offesa in sede civile e penale, caratterizzate da una “diversità di ragioni di doglianza e delle relative domande”.
Il ricorrente sostiene, invece, che la persona offesa avesse già incardinato una causa civile con i medesimi petitum e causa petendi e, siccome al momento della costituzione di parte civile nel processo penale (il 24 settembre 2020) in sede civile era stata emessa già sentenza di primo grado, sebbene non irrevocabile, ai sensi del detto art. 75 cod. proc. pen. l’azione civile non avrebbe potuto essere trasferita nel processo penale (essendo ciò consentito solo “fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato”).
Secondo parte ricorrente, al fine di evitare contrasti di giudicato, la detta norma andrebbe interpretata in senso ampio, applicandosi non solo quando le azioni, in sede civile e penale, abbiano identico contenuto, ma in ogni caso in cui esse affondino “le radici nel medesimo fatto storico produttivo di danni”. Sicché, la richiesta, in sede penale, di voci di danno ulteriori (quali i pregiudizi morali), rispetto a quelli azionati in sede civile, non renderebbe, sol per questo, ammissibile
l’istanza , in contrasto con il pacifico principio di non frazionabilità della pretesa risarcitoria, riconducibile all’art. 111 Cost.
3.2. Con il secondo motivo, parte ricorrente lamenta la nullità dell’ordinanza del Giudice dell’udienza preliminare del 24/9/2020 di rigetto dell’istanza di esclusione della costituzione di parte civile per inosservanza dell’art. 78, lett. d), cod. proc. pen. e difetto di motivazione sul punto.
Si sostiene che la costituzione di parte civile avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per genericità del petitum , mancando la specificazione delle singole voci di danno e contenendone alcune sicuramente infondate (si cita la richiesta di rimborso delle spese legali corrisposte al difensore per opporre il decreto ingiuntivo, costituenti spese da regolare secondo la soccombenza e non voce risarcitoria).
In virtù del richiamato principio tempus regit actum, si assume l’applicabilità delle norme introdotte al riguardo dalla “Riforma Cartabia”, sicché, per delineare la causa petendi , non sarebbe più sufficiente il mero richiamo al capo d’imputazione, dovendo redigersi un atto simile a quello con cui si propone la domanda nel giudizio civile.
Peraltro, la modifica (da art. 615quater a 615ter cod. pen.) del capo d’imputazione sub a) nel corso dell’udienza preliminare renderebbe impossibile sostenere la immediata connessione eziologica tra la pretesa risarcitoria contenuta nell’atto di costituzione (redatto in relazione ai titoli di reato precedenti) e il nuovo addebito contestato.
La difesa richiama, da ultimo, la giurisprudenza secondo cui il mero richiamo per relationem del capo d’imputazione, quale causa petendi , è sufficiente solo quando la contestazione accusatoria è formulata in modo completo ed esaustivo.
3.3. Col terzo motivo si deduce la nullità dell’ordinanza del Giudice dell’udienza preliminare del 24/9/2020 laddove ha disposto, su richiesta del Pubblico Ministero, la correzione del capo di imputazione sub a), nel senso che il reato contestato non era quello di cui all’art. 615 -quater cod. pen. (detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso), ma quello di cui all’art. 615 -ter cod. pen. (accesso abusivo a sistema informatico): ciò in violazione dell’art. 441 cod. proc. pen.
Non si sarebbe trattato di una mera correzione di un errore materiale, ma di un’evidente alterazione dei tratti essenziali dell’addebito mosso all’imputato, in quanto le due norme, in rapporto di specialità tra loro, sarebbero diverse per gravità ed elementi costitutivi, ivi incluso il dolo (specifico solo per l’art. 615 -quater cod. pen.).
Tale nullità sarebbe ancor più grave, a dire di parte ricorrente, trattandosi di
modifica successiva all’ammissione dell’imputato al rito abbreviato non condizionato, nel corso del quale, ex art. 441, comma 1, cod. proc. pen. (nella parte in cui esclude l’applicazione dell’art. 423 cod. proc. pen.), è precluso al Pubblico Ministero di modificare l’imputazione o effettuare contestazioni suppletive: proprio perché la scelta del rito viene fatta in relazione ad un preciso capo d’imputazione.
Sarebbe stato, dunque, “frustrato irrimediabilmente il diritto dell’imputato di decidere di essere giudicato secondo le forme del processo ordinario” e compromesso il suo diritto di difesa.
3.4. Col quarto motivo di ricorso, si censura l’illogicità della motivazione e la violazione dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., in punto di valutazione della prova indiziaria e dell’affermazione della responsabilità dell’imputato.
Il ricorrente critica la sentenza d’appello per essersi “supinamente conformata”, per relationem , a quella di primo grado senza alcuno spunto critico ulteriore in merito alle doglianze difensive.
In breve, la condanna sarebbe basata su indizi estranei al capo d’imputazione e privi di “gravità, precisione e concordanza” (quali la creazione di un indirizzo email , l’invio di presunte email confessorie, il rinvenimento di altre promesse firmate digitalmente in una chiavetta USB pervenuta all’imputato), senza alcuna specifica delle circostanze di tempo, luogo e azione (non essendo emerso che si trattasse di violazioni commesse a Venezia il 19/8/2015 e non avendo, la stessa querela, chiarito la disponibilità del sistema informatico asseritamente violato da parte dell’imputato).
Si sarebbero trascurate, ancora, considerazioni, anche tecniche, decisive svolte dall’imputato, e precisamente che: il token di firma digitale non generava una password ; l’imputato non aveva accesso al magazzino dove si trovava il token ; la persona offesa non aveva mai denunciato, per ben due anni, lo smarrimento del token ; la compagna e la figlia della persona offesa ben avrebbero potuto recuperarlo allorché avevano preso gli strumenti informatici dal magazzino; non v’erano tracce informatiche dei reati sui restanti dispositivi dell’imputato; le testimonianze confermavano l’assenza del token dalla farmacia, al momento della cessione della quota dalla persona offesa all’imputato, e il rinvenimento della chiavetta USB da parte dell’imputato con file “incriminati”; la volontà di riconciliazione della persona offesa poteva giustificare il riconoscimento economico.
3.5. Col quinto motivo, parte ricorrente si duole della quantificazione del danno in via equitativa nella sentenza d’appello in violazione degli artt. 76 cod. proc. pen., 185 cod. pen. e 1226 cod. civ.
Si sostiene sia errata e scarna la motivazione alla base della quantificazione del danno morale in via equitativa per euro 7.000,00, essendosi fatto riferimento allo “stereotipato richiamo alla callidità del reato e al legame affettivo con la persona offesa”, senza la specifica di “circostanze, parametri e calcoli” tali da chiarire il percorso logico seguito. Si lamenta l’omessa valorizzazione, al riguardo, della “accesa e risalente conflittualità” tra i fratelli.
Sono state trasmesse conclusioni scritte del Procuratore Generale, che ha chiesto dichiararsi l’ inammissibilità del ricorso, e della parte civile, che ha concluso analogamente o, in subordine, per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel complesso, infondato.
Il primo motivo (con cui si deduce la n ullità dell’ordinanza emessa dal Giudice dell’udienza preliminare di Venezia i l 24/9/2020 di rigetto dell’istanza di esclusione della costituzione di parte civile per inosservanza degli artt. 75 cod. proc. pen. e 111 Cost. ed in violazione del divieto di frazionamento della domanda risarcitoria, lamentando anche il difetto di motivazione sul punto) è inammissibile per genericità sul l’esatto tenore della causa civile.
È vero che, in tema di rapporti fra azione civile ed azione penale, deve escludersi che il danneggiato dal reato che abbia esercitato l’azione risarcitoria nel processo civile sia legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale per far valere ulteriori e diversi profili di danno derivanti dalla stessa causa, qualora sia intervenuta la pronuncia di una sentenza di merito, anche non passata in giudicato, nella sede civile (Sez. 2, n. 37296 del 28/06/2019, Inzitari, Rv. 277039-01, in fattispecie nella quale questa Corte ha annullato la statuizione del giudice di appello che aveva liquidato alla parte civile il solo danno morale; confronta, negli stessi termini, Sez. 4, n. 24215 del 19/05/2015, COGNOME, Rv. 263735-01 e Sez. 2, n. 2446 del 20/10/2020, dep. 2021, non massimata).
Tuttavia, la Corte d’appello, nel richiamare gli argomenti fatti propri dal Giudice dell’udienza preliminare, ‘ha posto a fondamento del rigetto dell’istanza di esclusione della parte civile anche il decisivo argomento costituito dalla diversità delle ragioni di doglianza e della relativa richiesta (la commissione dei fatti di rilevanza penale stigmatizzati in imputazione ed il ristoro dei conseguenti danni morali e materiali) azionate nel processo penale rispetto all’oggetto del giudizio civile’ (p. 8 sentenza d’appello).
Orbene, parte ricorrente sostanzialmente non propone censure che scardinino il detto ragionamento. Anzi, non è dato comprendere, da quanto afferma la difesa del ricorrente, che vi fosse effettivamente identità di causa petendi tra i due giudizi.
Nel ricorso, invero, ci si limita ad affermare che la causa civile aveva ‘il medesimo oggetto’, volto a ‘paralizzare la portata giuridica degli atti di riconoscimento del debito a firma della parte civile unitamente al risarcimento dei danni anche non patrimoniali conseguenti ‘ all a ‘ asserita illegittima condotta dell’odierno imputato’ (p. 7 ricorso) : e, dunque, che la causa civile inerisse un ‘accertamento negativo del credito azionato’ dall’imputato (p. 9 ricorso).
È evidente che asserire – nel giudizio civile – di non aver sottoscritto una scrittura privata e, dunque, disconoscerne il contenuto e chiedere, conseguentemente, un accertamento negativo su un credito apparentemente derivante da detta scrittura, ove pure lamentando una generica ‘illegittima’ (e non illecita) condotta della parte convenuta, sia cosa ben diversa dall’affermare che la medesima scrittura sia stata dolosamente formata dal ricorrente e che questi l’abbia, altrettanto dolosamente, utilizzata per conseguire un decreto ingiuntivo inducendo in errore il giudice civile: tanto non viene dedotto sia stato posto alla base dell’azione esercitata in sede civile, neppure con l’atto d’appello.
In quest’ultimo, invero, si legge che ‘in sede di opposizione a decreto ingiuntivo l’opponente non si è limitato a chiedere l’accertamento della insussistenza del credito sorretto dalla scrittura privata bensì ha formulato espressa richiesta di risarcimento del danno conseguente’ (p. 7 appello): laddove -si ripete -‘l’accertamento della insussistenza del credito sorretto dalla scrittura privata’ è, evidentemente, causa petendi del tutto diversa dal chiedere di accertare (con le regole proprie del processo penale) che la stessa sia stata redatta artatamente dall’imputato.
In definitiva, parte ricorrente non deduce elementi da cui sarebbe desumibile l’identità di causa petendi nelle due diverse sedi giudiziarie, civile e penale, sicché la doglianza, per come formulata in questa sede e dinanzi alla Corte d’appello, è manifestamente generica e priva di fondamento.
Il secondo motivo (inerente le erronee modalità di costituzione di parte civile e l’omessa applicazione delle disposizioni di cui alla riforma ‘Cartabia’) è infondato.
In tema di costituzione di parte civile, l’indicazione delle ragioni che giustificano la domanda risarcitoria è funzionale esclusivamente all’individuazione della pretesa fatta valere in giudizio, non essendo necessaria un’esposizione
analitica della causa petendi , sicché per soddisfare i requisiti di cui all’art. 78, lett. d), cod. proc. pen., è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto, allorquando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza (Sez. 2, n. 23940 del 15/07/2020, COGNOME, Rv. 279490-01; confronta, negli stessi termini, Sez. 6, n. 32705 del 17/04/2014, COGNOME, Rv. 260325-01 e, da ultimo, Sez. U, n. 38481 del 25/05/2023, Rv. 285036-01, in motivazione).
Né, evidentemente, avrebbe potuto farsi riferimento -al momento della costituzione di parte civile -ai requisiti introdotti da una norma non ancora esistente: e tanto proprio in applicazione del principio tempus regit actum (correttamente richiamato da parte ricorrente, ma dalla stessa applicato in modo errato).
Proprio perché, al momento della costituzione di parte civile, non era necessaria un’esposizione analitica della causa petendi , la mera correzione dell’errore materiale contenuto nel capo d’imputazione, con riferimento a lla norma violata, senza alcuna modifica fattuale e senza neppure una mera riqualificazione del fatto, comunque ben chiaro nei suoi contorni, non poteva creare alcuna incertezza pregiudizievole, in capo a chi era chiamato a rispondere della domanda civile o, in generale, su quali fossero i fatti posti a base della stessa.
Per analoghe ragioni, insussistente è la dedotta – col terzo motivo di ricorso -nullità, ex art. 441 cod. proc. pen., dell’ordinanza del Giudice dell’udienza preliminare del 24/9/2020 laddove ha disposto la correzione del capo di imputazione sub a), nel senso che il reato contestato non era quello di cui all’ art. 615quater cod. pen. (detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso), ma quello di cui all’ art. 615ter cod. pen. (accesso abusivo a sistema informatico).
Come ben rilevato dalla Corte d’appello, si è trattato della «sola correzione (nel solco di quanto sollecitato dallo stesso P.M.) dell’articolo di legge riferibile al fatto della vita compiutamente descritto in imputazione e pienamente rientrante, così come delineato nell’editto accusatorio, nell’ alveo della fattispecie i cui meri ‘estremi numerici’ sono stati, per l’appunto, oggetto di rettifica».
Nel capo d’imputazione, invero, si fa chiaramente riferimento al fatto che l’imputato «si introduceva abusivamente nel profilo di posta elettronica certificata Aruba di NOME COGNOME»: laddove l’art. 615 -ter cod. pen., a sua volta, richiama chi «abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto». V’è, dunque, perfetta corrispondenza tra la condotta descritta ab origine e la disposizione che si assume, a seguito della correzione, violata, già chiaramente evocata nella detta descrizione fattuale.
Del resto, neppure la riqualificazione del fatto in imputazione, a differenza degli interventi di modifica, sarebbe stata preclusa al Pubblico Ministero nel corso del giudizio abbreviato cosiddetto ‘secco’, non subordinato ad integrazione probatoria (Sez. 2, n. 44574 del 17/07/2019, Reci, Rv. 277761-01; Sez. 2, n. 35350 del 17/09/2010, COGNOME, Rv. 248544-01) e persino la riqualificazione, all’esito del giudizio abbreviato incondizionato, dell’originaria imputazione, non avrebbe violato i principi di cui all’art. 111 Cost. e art. 6 Cedu, se essa fosse stata, in concreto, prevedibile per l’imputato (Sez. 2, n. 38821 del 25/06/2019, Utile, Rv. 277047-01) e se fosse comunque consentito all’imputato di contestarla proponendo ricorso per cassazione (Sez. 5, n. 19380 del 12/02/2018, Rv. 27320401).
Il quarto motivo (sulla non corretta valutazione del compendio probatorio, da parte del giudice d’appello, che si sarebbe adagiato supinamente alle valutazioni operate dalla sentenza di primo grado) è inammissibile.
Preliminarmente, è opportuno richiamare i consolidati principi che delimitano l’ambito del sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato.
Il controllo demandato a questa Corte attiene al rapporto tra motivazione e decisione, e non al rapporto tra prova e decisione. Ne consegue che il ricorso per cassazione, al fine di essere valutato ammissibile, deve rivolgere le proprie censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione impugnata, e non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, la quale è riservata al giudice di merito ed è estranea al perimetro cognitivo di questa Corte. Non integra, infatti, un vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. Ad una logica valutazione dei fatti operata dal giudice di merito non può questa Corte opporne un’altra, ancorché altrettanto logica.
Solo omissioni, contraddizioni o illogicità manifeste (per esser la motivazione fondata su congetture implausibili o per avere la stessa trascurato dati di superiore valenza: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944-01; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205621-01; Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504-01; Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, Rv. 278609-01) e, ovviamente, decisive possono essere oggetto di censura in sede di legittimità. In estrema ed efficace sintesi, la manifesta illogicità della motivazione, di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., presuppone che la ricostruzione proposta da parte ricorrente sia inconfutabile, dunque l’unica plausibile, e non rappresenti soltanto un’ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza (Sez. 6, n. 2972 del
04/12/2020, dep. 2021, Rv. 280589-02).
Quanto al vizio di travisamento della prova, per essere ammissibile deve attenere al “significante” della prova stessa (ossia al suo contenuto testuale o documentale erroneamente riportato o inventato), e non al “significato” (ossia alla sua interpretazione). Inoltre, chi lo allega deve dimostrare, a pena di irrilevanza, che esso comprometta in modo decisivo la tenuta logica della motivazione (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085-01; Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Rv. 274816-07; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Rv. 249035-01).
Pertanto, le censure che si risolvano nel sollecito di una rivalutazione dell’interpretazione del compendio probatorio sono inammissibili.
Nel caso di specie, secondo il provvedimento impugnato vi sono elementi indiscutibili e di assoluto rilievo a sostegno della condanna, fra cui: «l’esclusivo interesse dell’imputato al riconoscimento di debito; l’irragionevolezza della modalità seguite per operare detto riconoscimento, incompatibili con una effettiva volontà di rappacificazione», «le plurime anomalie circa l’invio della mail; la creazione della casella di posta elettronica proprio in vista dell’invio di dette comunicazioni; la prosecuzione di un clima di ostilità pur successivamente all’atto di risarcimento per pregresse ingiustizie; la disponibilità, in capo all’imputato, del token del fratello e del relativo codice, come riferito dal COGNOME».
La sentenza d’appello reputa convincenti le spiegazioni del primo giudice sull’irrilevanza probatoria delle deposizioni favorevoli all’imputato, evidenziando come questi non si sia neppure confrontato criticamente e in modo adeguato con la sentenza di primo grado, essendosi limitato, da un lato, a contestare la credibilità del COGNOME, le cui dichiarazioni erano, però, per la Corte d’appello, «in lineare coerenza con gli ulteriori elementi di natura fattuale e logica disponibili», e , dall’altro lato, a rievocare quanto riferito dai testi COGNOME e COGNOME le cui dichiarazioni erano state motivatamente disattese già dal Giudice dell’udienza preliminare.
Trattasi di motivazione esente da vizi, che ha ritenuto, in modo non manifestamente illogico, contraddittorio o carente, la responsabilità per quanto contestato.
Né coglie nel segno la doglianza correlata al dedotto ‘appiattimento’ della sentenza d’appello su quella di primo grado.
Per quanto i richiamati argomenti, a sostegno della decisione presa dai giudici di merito, si desumano tutti dalla sentenza d’appello, e quindi non possa neanche parlarsi di motivazione per relationem , va, in ogni caso, evidenziato che, in tema di giudizio di appello, è comunque legittima la sentenza motivata per relationem alla sentenza di primo grado, se il complessivo quadro argomentativo
fornisca una giustificazione propria del provvedimento e si confronti con le deduzioni e con le allegazioni difensive provviste del necessario grado di specificità (Sez. 2, n. 18404 del 05/04/2024, Rv. 286406-02) e che, per converso, è inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si deduca l’illegittimità della sentenza d’appello solo perché motivata per relationem alla decisione di primo grado, senza indicare i punti dell’atto di appello non valutati dalla decisione impugnata (Sez. 3, n. 37352 del 12/03/2019, Rv. 277161-01).
Le doglianze del ricorrente si risolvono, in definitiva, in un’inammissibile richiesta di riesame del merito delle valutazioni espresse nel provvedimento impugnato, tendendo a sollecitare un diverso apprezzamento delle emergenze probatorie: non basandosi, di certo, su omissioni, contraddizioni o illogicità manifeste e decisive, né essendo stati addotti elementi da cui si desuma che la ricostruzione proposta da parte ricorrente sia l’unica possibile e sostanzialmente inconfutabile e, dunque, non rappresenti soltanto un’ipotesi alternativa a quella censurata.
Anche l’ultima censura, in merito alla liquidazione del danno in favore della parte civile, è priva di fondamento.
Proprio per la sua natura (priva di un riferimento nei prezzi di mercato), la determinazione del risarcimento dovuto a ristoro di un danno non patrimoniale non può che avvenire in modo equitativo, dovendo il giudice del merito limitarsi ad indicare i fatti considerati allo scopo e il percorso logico seguito, senza che sia necessario indicare analiticamente i calcoli che ne sono alla base (Sez. 6, n. 48086 del 12/09/2018, Rv. 274229-01). Siffatta valutazione, poi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione solo se essa difetti totalmente o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (Sez. 5, n. 7993 del 09/12/2020, dep. 2021, Rv. 280495-01).
Nel presente caso, la Corte d’appello ha, in modo esente da censure, fatto corretto riferimento alla «callidità dell’articolato disegno criminoso realizzato dall’imputato» e alla circostanza che la condotta sia stata posta in essere dal fratello della parte offesa, con conseguente « ‘tradimento’, quindi, di quella fiducia che naturalmente si portati a riporre nei più stretti congiunti».
Trattasi di argomenti che evidenziano il percorso logico seguito al riguardo, che non risulta contraddittorio o macroscopicamente distante dai dati di comune esperienza.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. , alla declaratoria di rigetto segue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e alla
rifusione delle spese processuali in favore della parte civile, liquidate considerato il non modesto impegno profuso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3600,00, oltre accessori di legge.
Così è deciso, 25/06/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente NOME COGNOME
NOME COGNOME