Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 6833 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 6833 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 09/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a San Giuliano Terme il 30/5/1953
avverso la sentenza del 21/2/2024 della Corte di appello di Genova
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di rigettare il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 21 febbraio 2024 la Corte di appello di Genova – per ciò che rileva in questa sede – qualificato il reato sub b) ex art. 640 cod. pen., ha ridotto la pena inflitta a NOME COGNOME a titolo di continuazione e ha confermato nel resto la sentenza emessa il 15 luglio 2021 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città, con cui l’imputato è stato condannato anche per i reati di cui agli artt. 319 e 615-ter cod. pen.
Secondo la ricostruzione dei fatti riportata in entrambe le sentenze di merito, il 27 luglio 2016 l’Agenzia delle entrate aveva avviato una verifica fiscale per l’anno 2012 nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, già sottoposta a controllo nel 2013 con riferimento all’anno 2011. Durante tale procedimento erano emerse condotte anomale da parte dell’imputato, volte a condizionare, stante la qualifica di Direttore dell’Agenzia delle entrate di Genova, l’attività dell’ufficio, per favorir l’anzidetta società. L’interessamento dell’imputato aveva trovato un corrispettivo nell’elaborazione da parte della società di documenti falsi, relativi ai periodi di pernottamento dello stesso imputato nella struttura alberghiera, gestita dalla società, e al corrispettivo pagato. Tali documenti erano stati utilizzati dal ricorrente per ottenere indebiti rimborsi delle spese di trasferta dall’Agenzia delle entrate.
Contro la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, che ha dedotto i motivi di seguito indicati.
3.1. Mancanza di motivazione in ordine alle doglianze contenute nell’atto di appello nonché travisamento della prova e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla corretta ricostruzione del fatto storico, attribuito all’imputato a capo A) della rubrica accusatoria. Le argomentazioni, utilizzate dal provvedimento impugnato, non consentirebbero di individuare con esattezza l’esistenza di atti contrari ai doveri di ufficio, così come presuntivo sarebbero i riferimenti all’effettiva incidenza della posizione dell’imputato rispetto ai funzionari e allo sfruttamento della posizione gerarchica ai fini della realizzazione delle condotte contestate. Dalle sommarie informazioni, rese da NOME COGNOME e NOME COGNOME, si evincerebbe che l’imputato si era limitato a chiedere informazioni e non risulterebbero riscontri in merito ai contatti con la dottoressa COGNOME che si occupava della pratica. COGNOME avrebbe spiegato che l’imputato non aveva fatto pesare la propria posizione gerarchica e nella sentenza vi sarebbe un uso contraddittorio di termini, quali interessamento, intervento, il cui contenuto non sarebbe riconducibile a un unico significato. Del resto, l’assenza di qualsivoglia pressione, diretta o implicita, troverebbe valido riscontro nel fatto che il procedimento amministrativo a carico di RAGIONE_SOCIALE non fu alterato nei presupposti e negli esiti e si concluse mediante notifica di un avviso di accertamento per complessivi 304.407,64 euro.
3.2. Erronea interpretazione e applicazione dell’art. 319 cod. pen. in relazione alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato e mancanza di motivazione in ordine ai motivi di appello sul punto. Non sarebbe stata individuata la norma violata, necessaria per considerare la condotta come contraria ai doveri di ufficio, non essendo sufficiente un mero richiamo ai doveri di imparzialità e correttezza.
Inoltre, sarebbe stata riconosciuta l’esistenza del reato in assenza di un legame tra le utilità prestate e le attività poste in essere, atteso che il primo accertamento nei confronti di RAGIONE_SOCIALE si era concluso prima che l’imputato entrasse in contatto con i COGNOME e il successivo non era prevedibile nemmeno dall’imputato. Peraltro, era emersa una prassi per l’ufficio delle entrate di non attivare nuove procedure a carico del contribuente per gli anni successivi a quello oggetto di verifica, conclusasi con una conciliazione con il contribuente. La disposizione di cui all’art. 319 cod. pen. imporrebbe che il beneficio sia, sin dal momento della sua promessa o ricezione, funzionale al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio.
3.3. Erronea interpretazione e applicazione dell’art. 319 cod. pen. in relazione all’elemento soggettivo del reato nonché contraddittorietà e mancanza di motivazione in ordine ai motivi di appello relativi all’assenza di prova in merito all’esistenza del dolo specifico richiesto. Nel momento in cui il ricorrente ha ricevuto l’utilità non era previsto e prevedibile il nuovo controllo.
3.4. Erronea interpretazione e applicazione dell’art. 640 cod. pen.. La Corte territoriale non avrebbe dato risposta alle doglianze difensive relative alla induzione in errore, che sarebbe un aspetto non provato ma solo dichiarato.
3.5. Erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. nonché contraddittorietà e illogicità della motivazione. La Corte territoriale, nel negare le menzionate circostanze, avrebbe fatto riferimento alla condanna già riportata dal ricorrente, ritenuta un precedente di valenza negativa, ma tale condanna sarebbe relativa a fatti successivi a quelli giudicati nel presente procedimento, che, quindi, non sarebbero dimostrazione di nuova manifestazione criminosa. Inoltre, la personalità negativa, pure richiamata dalla sentenza di secondo grado, sarebbe smentita da numerosi fattori, quali l’atteggiamento collaborativo serbato dal ricorrente, l’avvenuto risarcimento dei danni nei confronti della parte civile, l’assenza di qualsivoglia comportamento, successivo ai fatti, idoneo a dimostrare l’esistenza di un pericolo di recidiva, tenuto conto delle dimissioni presentate all’Agenzia delle entrate subito dopo l’emersione della prima vicenda processuale.
3.6. Violazione degli artt. 63, 81, 133 cod. pen. e mancato computo della circostanza attenuante di cui all’art. 323-bis cod. pen. nonché omessa motivazione in ordine al motivo di doglianza relativo agli aumenti di pena, che sarebbero SP roporzionati.
Il 20 dicembre 2024 è pervenuta una memoria nell’interesse dell’imputato, con cui si è insistito nell’accoglimento del ricorso e, in subordine, si è chiesto di dichiarare l’estinzione per prescrizione dei reati ascritti.
Sono pervenute anche le conclusioni e la nota spese della parte civile costituita.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. I primi tre motivi del ricorso – che possono essere trattati congiuntamente, atteso che concernono un unico tema, ossia l’affermazione della responsabilità per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., sia pure censurata sotto diversi profili – non rientrano tra quelli consentiti, per un verso, e sono manifestamente infondati, per altro verso.
Costituisce principio più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, ai fini dell’accertamento del reato di corruzione propria, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio sia stato la causa della prestazione del denaro o di altra utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione (cfr., in particolare, tra le più recenti, Sez. 6, n. 39008 del 06/05/2016, COGNOME Rv. 268088 – 01; Sez. 6, n. 5017 del 7/11/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 251867 – 01; Sez. 6, n. 24439 del 25/03/2010, COGNOME, Rv. 247382 – 01).
È necessario dimostrare, quindi, non solo la dazione indebita dal privato al pubblico ufficiale (o all’incaricato di pubblico servizio), bensì anche la finalizzazione di tale erogazione all’impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri di ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica.
In tale quadro di riferimento, si afferma che, in tema di corruzione propria, costituiscono atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti (perc vietati da atti imperativi) o illegittimi (perché dettati da norme giuridich riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità (Sez. 6, n. 30762 del 14/05/2009, COGNOME e altri, Rv. 244530 – 01).
D’altra parte, è pacifico che il reato in oggetto può essere integrato anche mediante atti di natura discrezionale o meramente consultiva, quando essi costituiscano concreto esercizio dei poteri inerenti all’ufficio e l’agente sia i soggetto deputato ad emetterli o abbia un’effettiva possibilità di incidere sul relativo contenuto o sulla loro emanazione. L’atto di natura discrezionale o
consultiva non ha mai un contenuto pienamente “libero”, essendo soggetto, per un verso, al rispetto delle procedure e dei requisiti di legge, per altro verso, alla necessità di assegnare comunque prevalenza all’apprezzamento dell’interesse pubblico (Sez. 6, n. 8935 del 13/01/2015, Giusti, Rv. 262497 – 01; Sez. 6, n. 36212 del 27/06/2013, COGNOME, Rv. 256095 – 01), senza deviarne o stravolgerne il contenuto per tutelare interessi di ordine privatistico dietro la corresponsione di somme di denaro.
La giurisprudenza della Corte, inoltre, è ferma nel ritenere che si configura il delitto di corruzione impropria e non quello di corruzione propria in relazione ad un atto adottato dal pubblico ufficiale nell’ambito di attività amministrativa discrezionale, soltanto qualora sia dimostrato che lo stesso atto sia stato determinato dall’esclusivo interesse della P.A. e che, pertanto, sarebbe stato comunque adottato con il medesimo contenuto e le stesse modalità anche indipendentemente dalla indebita retribuzione (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555 – 05; Sez. 6, n. 36083 del 9/07/2009, COGNOME, Rv. 244258 – 01).
È necessario fare riferimento alle regole sottese all’esercizio dell’attività discrezionale e si tratta di verificare se l’interesse pubblico sia stato in concreto condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore; nel caso in cui l’interesse pubblico non sia stato condizionato, il fatto integrerà la fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. Quello che deve essere verificato, cioè, è se l’interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, se questo sia stato soddisfatto, ovvero se esso sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l’accordo corruttivo.
Di tali coordinate ermeneutiche ha fatto corretta applicazione la Corte di appello di Genova.
Sulla base delle intercettazioni telefoniche, delle sommarie informazioni rese sia dai funzionari dell’Agenzia delle Entrate, occupatisi della procedura nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, sia dai clienti della società, dell documentazione acquisita nel corso delle indagini e delle dichiarazioni degli imputati COGNOME e COGNOME nel corso delle indagini, entrambi i Giudici del merito hanno ritenuto provata la commissione del reato di cui all’art. 319 cod. pen. da parte dell’imputato.
La Corte di appello ha evidenziato che la contrarietà agli atti di ufficio era consistita in interventi nella procedura di accertamento fiscale, avviata nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, finalizzati a favorire la società anziché a perseguire finalità pubblicistiche e a comparare in modo corretto gli interessi coinvolti.
In particolare, il giudice di primo grado aveva evidenziato che era risultato che, ancor prima che il controllo fiscale venisse esteso all’annualità 2012, COGNOME aveva chiesto al funzionario COGNOME se fosse in corso un’attività ispettiva nei confronti della società NOME, dicendogli che i titolari di quest’ultima gli avevano mostrato un questionario ricevuto dall’Agenzia delle entrate: si trattava, in realtà, della fase prodromica all’avvio vero e proprio dell’accertamento, scaturito dalla segnalazione dei verificatori che si erano occupati dell’annualità 2011. Anche successivamente, il direttore COGNOME aveva continuato a manifestare un insolito interesse per la pratica, asserendo trattarsi di brave persone, alle quali avevano fatto pagare troppo l’anno prima.
Le ingerenze nella verifica erano proseguite anche dopo l’avvio dell’attività ispettiva per l’anno d’imposta 2012. In una prima occasione, COGNOME, presentatosi direttamente presso l’ufficio del capo team, aveva chiesto se il controllo nei confronti della società fosse già iniziato e aveva invitato i funzionari a tenerlo al corrente dell’attività ispettiva. In un’altra occasione, COGNOME aveva convocato il funzionario COGNOME e gli aveva chiesto se fosse plausibile concedere un abbattimento del 20% o 30% sul numero dei coperti indicati nei preventivi della società nonché se fosse previsto riconoscere dei costi in relazione ai maggiori ricavi accertati. Dopo la risposta negativa di COGNOME, COGNOME gli aveva suggerito un’idea su come effettuare la ricostruzione ma tale idea era stata ritenuta davvero difficilmente motivabile e giustificabile e aveva suscitato imbarazzo nei funzionari il fatto che il direttore continuava così palesemente a manifestare interesse verso quella pratica, suggerendo addirittura dei percorsi di ricostruzione non solo manifestamente pro-contribuente ma anche ritenuti ben poco verosimili e sostenibili.
Secondo il giudice di primo grado, risultava dunque evidente che, nel corso dell’intero svolgersi dell’attività ispettiva ed accertativa, compiuta dall’Agenzia delle entrate nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, l’imputato si era adoperato pesantemente per condizionare le risultanze dell’accertamento in favore del contribuente, spendendo in termini assai ampi, sia pure in modo apparentemente informale, il proprio potere gerarchico ed asservendo all’interesse del privato la propria funzione. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa e affermato dallo stesso imputato nel corso dell’interrogatorio, i numerosi interventi del Pardini nella vicenda, descritti analiticamente nel capo di imputazione, non potevano in alcun modo configurare la mera espressione di opinioni tecniche. «Da un lato, risulta evidente la natura totalmente inusuale di un interessamento così insistito e pervasivo del Direttore provinciale rispetto a una pratica affatto ordinaria e, peraltro, condotta dai funzionari incaricati esattamente con le medesime modalità e i medesimi criteri seguiti dall’Agenzia in relazione all’annualità precedente. Per
altro verso, è assai chiaro che, al di là delle modalità degli interventi, la stessa posizione gerarchica del COGNOME rispetto ai funzionari suoi interlocutori caratterizzava i suoi interventi, giocoforza, non con una natura consulenziale ma chiaramente quali pesanti e volontari condizionamenti dell’attività dell’ufficio» (così la sentenza di primo grado).
I giudici di merito hanno, inoltre, correttamente individuato il rapporto sinallagmatico tra le condotte poste in essere dall’imputato nel corso della verifica fiscale nei confronti della società NOME e le utilità fornitegli nell’anno 2016, in concomitanza con la verifica fiscale, dai gestori della società, consistite nella falsa documentazione relativa a soggiorni dell’imputato presso la struttura alberghiera dei Carbone, utilizzata per conseguire indebiti rimborsi delle spese di trasferta.
La Corte di appello ha avuto cura di precisare (con rilievi incidenti anche sulla sussistenza del dolo del reato in capo all’imputato) che non assumeva rilevanza decisiva la circostanza che la dichiarazione firmata da NOME COGNOME del marzo 2016 fosse anteriore all’inizio della verifica fiscale nei confronti di RAGIONE_SOCIALE (luglio 2016), essendo evidente la volontà dei gestori della società di instaurare rapporti amichevoli con il direttore dell’Agenzia delle entrate, considerato, peraltro, il recente accertamento subito dagli stessi con riferimento all’anno 2011, definito nel 2015 con adesione, e tenuto conto che i falsi documenti erano stati forniti durante tutto l’anno 2016, quando era in corso la nuova verifica fiscale.
Siffatte argomentazioni sfuggono a ogni rilievo censorio.
Con esse la Corte di appello, anche attraverso il richiamo alla sentenza di primo grado, ha compiutamente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi richiesti per la configurazione della contestata ipotesi delittuosa e ha evidenziato che la condotta dell’imputato, posta in essere in violazione dei doveri che attengono al modo, al contenuto, ai tempi degli atti da compiere e delle decisioni da adottare, era diretta non già al perseguimento delle finalità pubblicistiche e alla corretta comparazione degli interessi in gioco, ma ad avvantaggiare il privato corruttore.
A fronte di tale motivazione risultano manifestamente infondate le censure del ricorrente sulla qualificazione giuridica dei fatti ai sensi dell’art. 319 cod. pen.
Per il resto, invece, le doglianze del ricorrente non sono consentite.
Gli argomenti prospettati dalla difesa, infatti, si pongono solo quali mere ipotesi alternative, peraltro smentite dal complesso degli elementi di prova acquisiti.
Non è superfluo allora ricordare che, secondo una linea interpretativa in questa sede da tempo tracciata, l’esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una “mirata rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma
assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (ex multis: Sez. 3, n. 18521 dell11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217 – 01; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099 – 01; Sez. 4, n. 35683 del 10/07/2007, COGNOME, Rv. 237652 – 01).
Nel caso di specie, l’adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate nella sentenza impugnata non è stata validamente censurata dal ricorrente, limitatosi a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese dalla Corte distrettuale, la cui motivazione, anche in ragione della integrazione tra le due conformi decisioni, non presenta affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento giurisprudenziale da questa Suprema Corte elaborato, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui alla lett. e) del comma primo dell’art. 606 c.p.p. (anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono le censure articolate dal ricorrente.
3. Anche il quarto motivo è manifestamente infondato.
L’imputato si era fatto rilasciare dalla società NOME fatture false sia con riguardo al periodo di pernottamento che al contenuto delle prestazioni fruite, al fine di ottenere un rimborso delle spese sostenute maggiore rispetto a quello a lui spettante.
Va ricordato che questa Corte ha affermato che integra il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all’art. 640bis cod. pen., e non quello di indebita percezione di erogazioni pubbliche, cui all’art. 316-ter cod. pen., la condotta di chi ottiene il riconoscimento del credito di imposta previsto dalla legislazione in materia di “bonus” edilizi per effetto della trasmissione di false fatture attestanti l’esecuzione di opere in realtà mai realizzate, posto che il riconoscimento del diritto da parte dell’amministrazione avviene in conseguenza dell’induzione in errore, realizzata con la produzione delle false fatture (Sez. 2, n. 40015 del 23/10/2024, COGNOME, Rv. 287083 – 01).
è evidente, quindi, che, nel caso in disamina, la presentazione di false fatture ha indotto in errore l’Agenzia delle entrate, datrice di lavoro dell’imputato, sull’entità dei rimborsi da elargire a quest’ultimo per le spese di trasferta, così che correttamente è stato ritenuto integrato il delitto di truffa.
Il motivo relativo alle attenuanti generiche è privo di specificità.
Nel negare tali circostanze in ragione della negativa personalità del ricorrente, il Collegio territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte secondo cui la ratio della disposizione di cui all’art. 62-bis cod. pen. non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l’indicazione degli elementi di preponderante rilevanza, ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti (Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, COGNOME Rv. 265826 – 01).
Va aggiunto che non assume rilievo decisivo se la condanna per fatti analoghi, riportata e valorizzata dalla Corte di appello, fosse relativa a reati commessi precedentemente o successivamente a quelli in esame. La menzionata Corte, nel rimarcare che l’imputato era «gravato da una recente condanna per fatti analoghi» e che il riconoscimento del vincolo della continuazione con questi ultimi, contenuto nella sentenza impugnata, non eliminava «la valenza negativa di tale precedente», ha usato il termine «precedente» per fare riferimento alla condanna già riportata dall’imputato, significativa di una personalità negativa, e ciò a prescindere dalla verificazione dei fatti, oggetto di condanna, in data antecedente o successiva a quelli in disamina.
5. Anche l’ultimo motivo è manifestamente infondato.
Nella motivazione della sentenza di primo grado si legge che l’attenuante di cui all’art. 323-bis cod. pen. è da ritenersi sussistente e prevalente sulla contestata aggravante.
Ne consegue che, contrariamente a quanto lamentato dal ricorrente, la pena per il reato di cui al capo A) è stata determinata già con la previa riduzione dovuta all’attenuante in questione.
Quanto alla doglianza sull’aumento di pena a titolo di continuazione, non appare inutile premettere che, come chiarito dal Massimo Consesso di questa Corte, il giudice di merito, nel determinare la pena complessiva per gli aumenti dei reati satellite ritenuti in continuazione, oltre ad individuare il reato più grave stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269 – 01).
Le Sezioni Unite hanno chiarito che le particolari modalità di calcolo della pena del reato continuato non alludono ad una “unità ontologica” dello stesso; la pena progressiva per moltiplicazione non contraddice la struttura “plurale” del reato continuato, che diviene recessiva solo ove specifiche disposizioni di legge lo richiedano e sempre che ciò sia funzionale a un più favorevole trattamento del reo. L’autonomia dei reati satellite si salda all’obbligo di motivazione, che accede all’esercizio del potere discrezionale attribuito al giudice per la determinazione del
trattamento sanzionatorio, sì che deve essere giustificato ogni risultato di quell’esercizio (art. 132, primo comma, cod. pen.). L’astratto rigore, che assiste la decisione dei Giudici di merito nell’operazione di calcolo dei vari aumenti, deve, però, essere di volta in volta calato nel caso concreto, visto che il grado di impegno nel motivare, richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena, è correlato all’entità degli stessi e tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultin rispettati i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen. e che non si sia opera surrettiziamente un cumulo materiale di pene (Sez. U, n. 47127/2021, cit.).
A tali principi si è conformato il Collegio del merito, che ha applicato aumenti di pena contenuti e ha fatto riferimento alla congruità e adeguatezza di essi rispetto ai fatti in disamina.
6. Va aggiunto, in risposta alla richiesta subordinata formulata dal ricorrente nella memoria depositata, che non può porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della totale inammissibilità del ricorso. La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, più volte chiarito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione «non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen.» (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266 – 01; conformi, Sez. U, n. 23428 del 2/3/2005, COGNOME, Rv. 231164 – 01, e Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, COGNOME, Rv. 266818 – 01).
7. In definitiva il ricorso è inammissibile e ciò comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché – non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) – della sanzione pecuniaria di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende.
L’esito del giudizio comporta anche la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Agenzia delle Entrate, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di
rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Agenzia delle Entrate che liquida in complessivi euro 3.686,00 oltre accessori di legge. Così deciso il 9 gennaio 2025
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Il Consigliere estensore
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