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Corruzione propria: no senza atto contrario ai doveri

Un privato cittadino paga un pubblico ufficiale per la sua intercessione. La Cassazione riqualifica il reato da corruzione propria a corruzione per l’esercizio della funzione, poiché non è stato compiuto uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio. Di conseguenza, il reato viene dichiarato prescritto per decorrenza dei termini.

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Pubblicato il 12 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Corruzione propria vs Corruzione per l’esercizio della funzione: la Cassazione traccia i confini

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14027 del 2024, è intervenuta per chiarire un punto cruciale del diritto penale: la distinzione tra corruzione propria (art. 319 c.p.) e corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.). La pronuncia sottolinea come, per configurare il reato più grave, sia necessaria la prova di un accordo finalizzato al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, non essendo sufficiente una generica promessa di interferenza o di “messa a disposizione” della funzione.

I fatti del processo

Il caso riguardava un cittadino che aveva versato una somma di denaro a un dipendente pubblico dell’Agenzia delle Entrate. Lo scopo era ottenere l’aiuto del funzionario per la cancellazione di un debito tributario e della relativa ipoteca immobiliare. Il pubblico ufficiale aveva promesso di intercedere presso i colleghi del settore competente, vantando una particolare relazione con la responsabile. Tuttavia, emergeva che il funzionario, una volta incassata la somma, non aveva realizzato il risultato promesso, tanto che il cittadino aveva dovuto attivarsi autonomamente per risolvere la pratica in modo legittimo.
Nei gradi di merito, la condotta era stata qualificata come corruzione propria, ritenendo che la promessa di interferire nel processo decisionale di un altro ufficio costituisse di per sé un atto contrario ai doveri d’ufficio.

La decisione della Cassazione sulla corruzione propria

La Suprema Corte ha ribaltato la qualificazione giuridica del fatto, accogliendo il ricorso dell’imputato. I giudici hanno stabilito che per integrare il reato di corruzione propria previsto dall’art. 319 c.p., è indispensabile che la promessa o la dazione di denaro sia finalizzata al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio.

Nel caso di specie, tale atto specifico non è stato individuato. La condotta del pubblico ufficiale si è limitata a una generica promessa di “interessamento” e di interferenza, senza che vi fosse prova di un’effettiva incisione sull’attività amministrativa del collega competente. L’accordo corruttivo non verteva su un’azione concreta e contraria alla legge o ai regolamenti che il funzionario avrebbe dovuto compiere.

Le motivazioni

La Corte ha spiegato che interpretare diversamente la norma porterebbe a un’eccessiva dilatazione della fattispecie di corruzione propria, riducendo quasi a zero lo spazio applicativo della meno grave ipotesi di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.). Quest’ultima, infatti, punisce proprio la “strumentalizzazione” o “distorsione” della funzione pubblica, che si verifica quando il pubblico ufficiale accetta una remunerazione per compiere un atto del proprio ufficio, senza che questo sia necessariamente illegittimo.

Considerare la mera “presa in carico dell’interesse” del privato come atto contrario ai doveri significherebbe, secondo la Corte, far rientrare ogni episodio corruttivo nella fattispecie più grave, vanificando la distinzione voluta dal legislatore. La sentenza ha quindi riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 318 c.p. e, data l’epoca dei fatti (2014), ha dichiarato il reato estinto per intervenuta prescrizione. È interessante notare come questo effetto favorevole sia stato esteso, in virtù del principio dell’effetto estensivo dell’impugnazione, anche a un coimputato il cui ricorso era stato dichiarato inammissibile.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: per una condanna per corruzione propria, l’accusa deve dimostrare in modo inequivocabile l’esistenza di un patto avente ad oggetto uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio. Una generica promessa di “mettersi a disposizione” o di esercitare la propria influenza non è sufficiente a integrare la fattispecie più grave. Questa precisazione è essenziale per garantire il rispetto del principio di legalità e per mantenere una corretta distinzione tra le diverse forme di corruzione previste dal nostro ordinamento.

Quando si configura il reato di corruzione propria (art. 319 c.p.)?
La corruzione propria si configura quando un pubblico ufficiale riceve denaro o un’altra utilità per compiere uno specifico atto contrario ai doveri del suo ufficio. La semplice promessa di un’interferenza generica non è sufficiente.

Che differenza c’è tra corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.)?
La differenza fondamentale risiede nella natura dell’atto. Nella corruzione propria (più grave), l’accordo riguarda un atto contrario ai doveri d’ufficio. Nella corruzione per l’esercizio della funzione, l’accordo riguarda il compimento di un atto che rientra nelle funzioni del pubblico ufficiale, il cui esercizio viene “comprato” dal privato, anche se l’atto in sé non è illegittimo.

Un coimputato il cui ricorso è inammissibile può beneficiare della decisione favorevole ottenuta da un altro ricorrente?
Sì, in base al principio dell’effetto estensivo dell’impugnazione. Se la decisione favorevole, come la riqualificazione del reato e la conseguente prescrizione, si fonda su motivi non puramente personali, i suoi effetti si estendono anche al coimputato il cui ricorso era stato dichiarato inammissibile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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