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Corruzione propria: la prova del patto illecito

Un cittadino straniero è stato condannato per corruzione propria per aver dato denaro e altre utilità a un poliziotto dell’ufficio immigrazione in cambio di favori nel rilascio di permessi di soggiorno. La Cassazione ha confermato la condanna, ritenendo provata la correlazione tra le dazioni e l’atto contrario ai doveri d’ufficio e dichiarando inammissibile il ricorso.

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Pubblicato il 17 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Corruzione propria: quando l’accordo illecito è provato

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 34038/2024, offre un’importante analisi sul reato di corruzione propria, chiarendo quali elementi siano necessari per dimostrare l’esistenza di un patto illecito tra il corruttore e il pubblico ufficiale. Il caso in esame riguarda un cittadino straniero condannato per aver corrotto un assistente di Polizia in servizio presso un ufficio immigrazione, al fine di ottenere favori nel rilascio di permessi di soggiorno. Approfondiamo la vicenda e le conclusioni della Suprema Corte.

I fatti del processo

Secondo l’accusa, confermata nei primi due gradi di giudizio, un imprenditore straniero aveva elargito diverse utilità – denaro, cene e altri oggetti di valore – a un assistente capo della Polizia di Stato. In cambio di questi compensi, l’agente avrebbe favorito l’imprenditore e altre persone da lui segnalate, accelerando e garantendo l’esito positivo di pratiche amministrative relative al rilascio di permessi di soggiorno.

La difesa dell’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che non fosse stata adeguatamente provata la “correlazione sinallagmatica”, ovvero il nesso di scambio diretto tra le utilità concesse e la funzione esercitata dal pubblico ufficiale. Secondo il ricorrente, la semplice dazione di un compenso non sarebbe sufficiente a dimostrare l’esistenza di un accordo illecito finalizzato al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio.

La decisione della Cassazione sulla corruzione propria

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando integralmente la condanna. I giudici hanno ritenuto che l’impianto accusatorio fosse solido e che le prove raccolte dimostrassero in modo inequivocabile l’esistenza del reato di corruzione propria.

La Corte ha sottolineato come il giudizio dei giudici di merito fosse stato adeguato e non presentasse vizi di legittimità. La decisione si fonda su una valutazione complessiva delle prove, che, lette in maniera congiunta, hanno permesso di ricostruire l’accordo criminoso tra i due soggetti coinvolti.

Le motivazioni della Suprema Corte

Le motivazioni della sentenza si concentrano sulla prova della correlazione tra le dazioni e l’atto illecito. La Corte ha valorizzato diversi elementi probatori:

1. Le dichiarazioni del coimputato: L’agente di Polizia corrotto ha ammesso i fatti, confermando sia di aver favorito il ricorrente nel rilascio dei permessi di soggiorno (per lui, per i suoi parenti e per terzi), sia di aver ricevuto in cambio denaro e altre utilità. Queste dichiarazioni, auto ed etero accusatorie, hanno costituito un pilastro fondamentale dell’accusa.

2. Le conferme esterne: Le ammissioni dell’agente sono state corroborate da altre prove. Testimonianze di terzi e l’analisi dei contatti telefonici hanno dimostrato la stretta e continua frequentazione tra il corruttore e il corrotto, confermando l’esistenza di un rapporto che andava oltre la mera conoscenza.

3. L’individuazione dell’atto contrario ai doveri d’ufficio: La Corte ha chiarito che l’atto contrario ai doveri d’ufficio non deve necessariamente essere un atto illegittimo in sé, ma può consistere anche nell’assicurare una definizione celere e tempestiva delle pratiche in un contesto di oggettive difficoltà burocratiche. Asservire la propria funzione pubblica agli interessi del privato in cambio di un compenso integra pienamente la fattispecie di corruzione propria.

I giudici hanno concluso che il quadro probatorio era consolidato e che il ricorso non era riuscito a scalfire la coerenza logica della sentenza impugnata, risultando generico e privo della necessaria specificità critica.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale in materia di corruzione propria: per la configurazione del reato è indispensabile dimostrare l’esistenza di un patto illecito, ma tale prova può essere raggiunta anche attraverso un insieme di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti. Le dichiarazioni di un coimputato, se adeguatamente riscontrate da altri elementi esterni, sono sufficienti a fondare un giudizio di colpevolezza. Inoltre, viene confermato che anche il solo “vendere” la propria funzione pubblica per accelerare pratiche che dovrebbero seguire un iter ordinario costituisce un atto contrario ai doveri d’ufficio, rilevante ai fini della configurabilità del reato.

È sufficiente la semplice dazione di denaro a un pubblico ufficiale per configurare la corruzione propria?
No, secondo la sentenza non è sufficiente la mera dazione. È indispensabile provare la “correlazione sinallagmatica”, ossia l’esistenza di un accordo illecito in cui il denaro o l’utilità costituiscono il corrispettivo per il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio da parte del pubblico funzionario.

Come può essere provato l’accordo illecito nella corruzione propria?
L’accordo può essere provato attraverso un insieme di elementi, come le dichiarazioni confessorie del pubblico ufficiale corrotto, testimonianze di terzi e riscontri oggettivi come i contatti telefonici. La valutazione congiunta di questi elementi può fornire un quadro probatorio solido e sufficiente per una condanna.

Accelerare una pratica amministrativa in cambio di denaro è un atto contrario ai doveri d’ufficio?
Sì. La sentenza chiarisce che assicurare una definizione celere e tempestiva di pratiche, mettendo la propria funzione pubblica al servizio dell’interesse privato in cambio di un compenso, integra un atto contrario ai doveri d’ufficio e configura quindi il reato di corruzione propria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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