LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

Corruzione propria: la Cassazione conferma condanna

Un imprenditore è stato condannato in via definitiva per il reato di corruzione propria per aver versato una somma di denaro a un responsabile della polizia municipale al fine di ottenere il rilascio illecito di codici identificativi per attrazioni itineranti. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando che il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, come l’omissione di controlli essenziali e l’agire al di fuori della propria competenza territoriale, integra pienamente questa grave fattispecie di reato.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)
Pubblicato il 15 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Corruzione propria: la Cassazione conferma la condanna per codici illeciti

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i confini del reato di corruzione propria, confermando la condanna di un imprenditore che aveva pagato un pubblico ufficiale per ottenere un vantaggio illecito. La decisione sottolinea come la violazione di specifici doveri d’ufficio, finalizzata a favorire un privato, integri questa grave fattispecie penale, anche quando l’atto rientra in un potere apparentemente discrezionale.

I Fatti del Caso: un accordo per aggirare le regole

La vicenda giudiziaria ha origine dalla condanna, emessa con rito abbreviato e confermata in appello, nei confronti di un imprenditore operante nel settore delle attrazioni itineranti. L’imputato è stato riconosciuto colpevole di aver versato una somma di 624,00 euro al responsabile del Comando di polizia municipale di un Comune. In cambio di questo pagamento, il pubblico ufficiale ha rilasciato dei codici identificativi per le attrazioni, compiendo un atto palesemente contrario ai suoi doveri.

L’irregolarità della procedura era manifesta: il Comune non aveva alcuna competenza territoriale a rilasciare tali codici, poiché la società dell’imprenditore non aveva mai operato nel suo territorio. Inoltre, non era stata effettuata alcuna verifica formale e funzionale sulle attrazioni, in violazione delle norme di sicurezza previste dal D.M. 18 maggio 2007.

Le ragioni del ricorso e la configurazione della corruzione propria

La difesa dell’imprenditore ha presentato ricorso in Cassazione, basandosi su tre motivi principali:

1. Difetto di motivazione sulla consapevolezza che la somma versata fosse destinata a corrompere il funzionario.
2. Inattendibilità delle dichiarazioni del coimputato, che aveva agito da intermediario.
3. Errata qualificazione giuridica del fatto, che a dire della difesa doveva essere inquadrato come corruzione impropria (art. 318 c.p.), sostenendo che l’imprenditore avesse tutti i requisiti per ottenere legalmente i codici.

La Suprema Corte ha respinto tutti i motivi, dichiarando il ricorso inammissibile.

Le Motivazioni della Cassazione

I giudici di legittimità hanno innanzitutto chiarito che il ricorso si limitava a riproporre una diversa lettura dei fatti, compito precluso alla Corte di Cassazione, il cui ruolo è verificare la correttezza logica e giuridica della motivazione della sentenza impugnata, non riesaminare il merito.

Nel merito, la Corte ha ritenuto la sentenza d’appello immune da vizi. Le dichiarazioni dell’intermediario sono state considerate pienamente attendibili e riscontrate da conversazioni telefoniche. L’irregolarità della procedura amministrativa era un’ulteriore prova schiacciante: la somma non poteva essere un semplice costo amministrativo, poiché avrebbe dovuto essere versata direttamente nelle casse del Comune.

Il punto cruciale della decisione riguarda la distinzione tra corruzione propria e impropria. La Cassazione ha richiamato il proprio orientamento consolidato, secondo cui si configura la corruzione propria quando il pubblico ufficiale, violando le regole che disciplinano l’esercizio del suo potere, agisce per realizzare l’interesse del privato corruttore. Nel caso di specie, il funzionario ha violato una pluralità di norme specifiche: la mancata verifica dei requisiti di sicurezza, l’omissione di controlli da parte degli organismi di certificazione e, soprattutto, l’incompetenza territoriale del Comune. Le sue azioni si sono poste in totale antitesi con l’interesse pubblico che era chiamato a tutelare.

Conclusioni

La sentenza in esame riafferma con forza un principio fondamentale: l’esercizio di un potere pubblico, anche se discrezionale, non può mai tradursi in un asservimento all’interesse privato in cambio di un’indebita remunerazione. Quando un pubblico ufficiale viola doveri specifici per favorire un corruttore, il reato configurabile è quello, più grave, di corruzione propria. La decisione serve da monito sulla necessità di trasparenza e legalità nell’azione amministrativa, confermando che l’ordinamento sanziona duramente chi tenta di aggirare le regole attraverso patti illeciti con i pubblici funzionari.

Quando un atto di un pubblico ufficiale si considera ‘contrario ai doveri d’ufficio’ ai fini della corruzione propria?
Si considera tale quando il pubblico ufficiale viola specifiche norme che disciplinano il suo potere e agisce con l’intento di favorire l’interesse privato del corruttore, ponendosi in antitesi con l’interesse pubblico che dovrebbe perseguire. Nel caso specifico, le violazioni includevano la mancata verifica dei requisiti di sicurezza e l’incompetenza territoriale.

Perché il reato non è stato riqualificato come corruzione impropria?
La riqualificazione è stata esclusa perché è stata dimostrata la violazione di una pluralità di norme specifiche da parte del pubblico ufficiale. Il suo comportamento non si è limitato a un generico ‘esercizio delle funzioni’, ma ha integrato un atto palesemente contrario ai doveri d’ufficio, finalizzato a soddisfare l’interesse privato in spregio a quello pubblico.

Quali prove sono state decisive per confermare la condanna?
La condanna si è basata su un quadro probatorio solido, che includeva le dichiarazioni accusatorie e inequivocabili del coimputato (che agiva da intermediario), pienamente riscontrate dalle conversazioni telefoniche in atti, e l’evidente irregolarità dell’intera procedura amministrativa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

Il costo della consulenza legale è di € 150,00.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati