Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 467 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 467 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 09/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME nato il 17/12/1981 in Bangladesh avverso la sentenza del 17/05/2022 della Corte d’appello di Cagliari
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 17 maggio 2022 la Corte di appello di Cagliari confermava quella pronunciata all’esito di rito abbreviato in data 30 giugno 2020 dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Cagliari di condanna di NOME COGNOME alla pena di anni 5 e mesi 8 di reclusione per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una serie di reati di
corruzione in procedure di protezione internazionale, nelle quali COGNOME svolgeva il ruolo di interprete per conto di cittadini di lingua bengalese nella Commissione territoriale prefettizia (in concorso con altri coimputati, in particolare con NOME COGNOME NOME COGNOME i pubblici ufficiali NOME COGNOME e NOME COGNOME questi ultimi – giudicati separatamente – nei rispettivi ruoli di segretario e funzionario della Commissione, e NOME COGNOME moglie di COGNOME: capo A), e per i plurimi delitti fine di corruzione ex artt. 110, 81 cpv. e 319 cod. pen. elencati nel successivo capo B) dell’imputazione (perché assicurava le necessarie informazioni per l’avvio della pratica, l’indebita anticipazione dell’udienza dinanzi alla Commissione e il buon esito della domanda di protezione, in cambio di “tangenti” costituite da varie somme di denaro – in media 2.500 euro ciascuno corrisposte dai richiedenti asilo, raccolte da Kundu e ripartite fra i sodali pe essere poi trasferite fraudolentemente dalla COGNOME), ordinando altresì nei confronti di COGNOME e COGNOME la confisca di beni e valori fino alla concorrenza di 270.000 euro, oltre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
La Corte condivideva integralmente la ricostruzione probatoria della vicenda corruttiva alla stregua delle acquisite prove: – testimoniali (la denunzia dettagliata, coerente, attendibile, riscontrata nel nucleo essenziale e scevra di alcun intento calunniatorio di NOME COGNOME, presidente dell’ente Bangladesh Associazione di Cagliari, che aveva raccolto le denunzie di molti connazionali segnalandole all’A.G. e le ammissioni di NOME circa l’illecita attività che avrebbe svolto per aiutare i connazionali, rassicurandolo di non avere lasciato traccia; le testimonianze dei numerosi cittadini bengalesi richiedenti asilo, che avevano beneficiato dei favori di COGNOME e NOME, versando ad essi prima dell’udienza la relativa tangente, informazioni, queste, la cui inutilizzabilità eccepita dalla difes ai sensi dell’art. 63 cod. proc. pen. non sarebbe comunque rilevabile in sede di giudizio abbreviato ex art. 438, comma 6 bis, cod. proc. per.); – intercettative (le conversazioni telefoniche e ambientali fra Alessi e COGNOME attinenti ai criteri alle modalità di calendarizzazione e di svolgimento delle audizioni dinanzi alla Commissione, che venivano dagli stessi illegittimamente e sistematicamente alterate cronologicamente e orientate nell’esito con l’ausilio dell’interprete, dietro corresponsione delle pattuite somme di denaro); – le dichiarazioni ampiamente confessorie dei coimputati COGNOME e COGNOME e le parziali ammissioni di colpevolezza dello stesso COGNOME.
La cennata ricostruzione probatoria consentiva l’inquadramento dei fatti in termini di fattispecie associativa, strutturata attraverso l’attenta distribuzione de ruoli e delle funzioni svolte all’interno della Commissione territoriale prefettizia la precisa distribuzione delle quote di spettanza delle tangenti (500 euro per i due funzionari; 2.500 euro per NOME e NOME) e finalizzata alla commissione di una
serie indeterminata di plurimi episodi corruttivi, la cui gravità e reiterazione, insieme con l’assenza di alcun elemento favorevole, rendevano l’imputato immeritevole delle attenuanti generiche.
Quanto alla determinazione in euro 270.000 della somma oggetto di confisca, quale profitto delle corruzioni, il calcolo era basato sulle dichiarazion confessorie dei coimputati, secondo i quali per ogni singola audizione dinanzi alla Commissione COGNOME e NOME percepivano l’importo di 2.500 euro e i due funzionari quello di complessivi 500 euro. Avendo NOME ammesso di avere percepito complessivamente 27.000 euro e dividendo tale importo per la tangente di 250 euro riscossa per ciascuna audizione, si ottiene il numero di 108 episodi corruttivi che, moltiplicati per la tangente percepita da COGNOME e NOME di 2.500 euro per ogni audizione, fornisce il complessivo dato di 270.000 euro, oggetto della misura ablativa applicata per l’intero in via solidale a carico di NOME e COGNOME.
Parimenti corrette erano ritenute dalla Corte territoriale l’applicazione della sanzione della riparazione pecuniaria a favore del Ministero dell’Interno (rapportata tuttavia alla confisca diretta della somma di euro 6.589,02 oggetto di sequestro preventivo) e della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici ufficiali ex art. 317 bis cod. pen.
Il difensore di Kundu ha presentato ricorso per cessazione avverso detta sentenza e ne ha chiesto l’annullamento, censurandone la violazione di legge e il vizio di motivazione per molteplici profili, distintamente articolati in dodici motiv concernenti:
la configurabilità del delitto di corruzione propria, non avendo Kundu, mero ausiliario nell’opera di interprete, il potere istruttorio e decisionale di esclus competenza della Commissione territoriale prefettizia quanto all’adozione dell’eventuale atto favorevole al singolo corruttore, potendo in subordine qualificarsi la vicenda in termini meno gravi di traffico di influenze illecite ex art. 346 bis cod. pen. o di corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 cod. pen. ovvero di corruzione di incaricato di pubblico servizio ex art. 320 cod. pen. (primo, secondo e terzo motivo);
la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione con riferimento alla erronea valutazione delle propalazioni accusatorie di NOME e NOME COGNOME uno dei soggetti paganti (quarto motivo);
l’inutilizzabilità (patologica) delle testimonianze rese dai cittadini bengalesi, che avrebbero dovuto essere sentiti, siccome corruttori, nella veste di indagati a norma dell’art. 63 cod. proc. pen., rilevabile anche in sede di giudizio abbreviato (quinto e sesto motivo);
la manifesta illogicità della motivazione riguardante la pretesa sussistenza della fattispecie associativa (settimo motivo);
l’erronea determinazione del profitto ai fini della confisca per equivalente e l’illegittima applicazione in via solidale a carico di ciascun concorrente nei reati d corruzione (ottavo motivo)
l’illegittima applicazione della sanzione della riparazione pecuniaria, in violazione sia del divieto di bis in idem, se cumulata con la confisca per equivalente, sia della previsione normativa dell’art. 322 quater cod. pen. vigente all’epoca dei fatti (nono motivo);
l’illegittima (costituzionalmente) applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 317 bis cod. pen. (decimo motivo);
l’immotivato diniego delle attenuanti generiche (undicesimo motivo);
-l’immotivata determinazione degli aumenti per la continuazione (dodicesimo motivo).
Il ricorso è stato trattato in forma cartolare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso attinenti al merito della ricostruzione probatoria dell fattispecie associativa e delle specifiche condotte corruttive, in punto di valutazione delle testimonianze rese da NOME COGNOME e dai vari cittadini bengalesi paganti la tangente (quarto, quinto, sesto e settimo motivo), la cui trattazione si prospetta logicamente prioritaria, sono infondati.
2.1 Emerge con chiarezza dal diffuso apparato argomentativo della decisione impugnata come la Corte distrettuale, nel confermare l’apprezzamento già espresso in punto di fatto dal primo giudice, abbia, con congrua e lineare esposizione logica, esaminato e puntualmente disatteso le deduzioni ed i rilievi critici mossi dalle difese in ordine al tema di accusa, sulla base di un complesso di risultanze probatorie sia globalmente che analiticamente vagliate nelle loro rispettive implicazioni.
Giudici di appello hanno condiviso, in fatto, la ricostruzione operata nella prima decisione muovendo dagli obiettivi e convergenti elementi di prova costituiti: – dalla denunzia dettagliata, attendibile, riscontrata nel nucle essenziale e scevra di intenti calunniatori di NOME COGNOME, presidente dell’ente Bangladesh Associazione di Cagliari, che aveva a sua volta raccolto,
indirizzandole all’A.G., sia le segnalazioni di molti cittadini bengalesi richiedent asilo, che avevano beneficiato dei favori di COGNOME e NOME, versando ad essi prima dell’udienza la relativa tangente, sia le ammissioni di COGNOME circa l’illecita e retribuita attività che questi avrebbe svolto per aiutare i connazionali, rassicurandolo di non averne comunque lasciato traccia; – dall’esplicito tenore delle conversazioni telefoniche e ambientali intercettate fra i coimputati COGNOME e COGNOME circa i criteri e le modalità di calendarizzazione e di svolgimento delle audizioni dinanzi alla Commissione territoriale prefettizia, illegittimamente e sistematicamente alterate cronologicamente e orientate nell’esito con l’ausilio dell’interprete dietro corresponsione di somme di denaro da parte dei richiedenti; – dalle dichiarazioni pienamente confessorie degli stessi e dalle pur parziali ammissioni di colpevolezza di COGNOME. Segnatamente, questi, svolgendo il ruolo di interprete di lingua bengalese dinanzi alla Commissione, assicurava ai connazionali richiedenti asilo le necessarie informazioni per l’avvio della pratica, l’anticipazione cronologica dell’udienza e l’eventuale esito favorevole della domanda, in cambio di “tangenti” costituite da somme di denaro corrisposte – in media 3.000 euro – da ciascuno dei richiedenti asilo, raccolte da COGNOME e ripartite fra i sodali nella misura di 2.500 euro per COGNOME e NOME e di 500 euro per i due funzionari.
Orbene, ciò posto in linea di fatto, non rientra nei poteri della Corte di legittimità quello di effettuare una rilettura degli elementi storico-fattuali posti fondamento del motivato apprezzamento svolto nell’impugnata decisione di merito.
E ciò con peculiare riferimento al giudizio di piena attendibilità, intrinseca ed estrinseca, della deposizione testimoniale di NOME COGNOME, presidente dell’ente Bangladesh Associazione di Cagliari, e dagli inequivoci contenuti dei dialoghi captati e dalle dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie dei coimputati COGNOME e COGNOME.
2.2 Sicché appare subvalente la pur fondata eccezione di inutilizzabilità probatoria delle deposizioni testimoniali rese dai vari cittadini bengalesi paganti la tangente.
La tesi difensiva risulta giuridicamente coerente con l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità circa la portata del divieto probatorio di cui all’a 63 cod. proc. pen., per la quale, in tema di giudizio abbreviato, non possono formare oggetto di valutazione gli atti affetti da nullità assoluta e da inutilizzabilità patologica, non essendo prevista alcuna deroga alla rilevabilità di ufficio ed alla insanabilità di tali vizi (da ultimo, Sez. 1, n. 20834 01/03/2023, 0., Rv. 284539, con riferimento a un’analoga fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inutilizzabile erga omnes la deposizione resa dal soggetto
escusso dalla polizia giudiziaria in qualità di persona informata sui fatti, che, invece, avrebbe dovuto essere sentito, sin dall’inizio, in veste di indagato).
Il pur fondato rilievo di inutilizzabilità delle deposizioni testimoniali rese soggetti che rivestivano ormai all’evidenza la posizione di corruttori e che quindi avrebbero dovuto essere sentiti come indagati di quel reato, non è tuttavia in grado di scalfire il pieno dispiegarsi della forza persuasiva del residuo coacervo probatorio suindicato, fra cui assume rilievo la circostanza che COGNOME, come s’evince dalle sue dichiarazioni, aveva lecitamente raccolto e immediatamente rapportato de relato all’A.G., insieme con le ammissioni di responsabilità di COGNOME, le medesime accuse che sarebbero state poi confermate dai connazionali irregolarmente sentiti in veste di testimoni.
2.4 Le suesposte doglianze difensive, in definitiva, tendono a prospettare una ricostruzione alternativa, come tale non consentita in questa sede di legittimità, dei fatti oggetto del tema d’accusa, lasciando inalterata la consistenza delle giustificazioni addotte a sostegno della relativa pronuncia. Orbene, non rientra nei poteri della Corte di legittimità quello di effettuare una rilettura degli elementi storico-fattuali posti a fondamento del motivato apprezzamento svolto nell’impugnata decisione di merito, essendo il relativo sindacato circoscritto alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari aspetti del percorso motivazionale: verifica il cui esito non può che dirsi positivamente raggiunto.
3. In linea di diritto, dalla cennata ricostruzione probatoria della vicenda emergono all’evidenza tutti gli elementi costitutivi del delitto di corruzion propria, la cui configurabilità è viceversa diffusamente contestata dalla difesa del ricorrente, sugli assunti (primo, secondo e terzo motivo di ricorso) che COGNOME, mero ausiliario nell’opera di interprete, non avrebbe avuto alcun potere istruttorio e decisionale, riservato all’esclusiva competenza della Commissione territoriale prefettizia, quanto all’adozione dell’eventuale atto favorevole a singolo corruttore; sicché, in subordine la vicenda poteva qualificarsi in termini meno gravi di traffico di influenze illecite ex art. 346 bis o di corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 ovvero di corruzione di incaricato di pubblico servizio ex art. 320 cod. pen.
Ritiene invero il Collegio che la decisione impugnata si sia uniformata al quadro di principi al riguardo tracciati da questa Suprema Corte. Trattasi di condotte – quelle descritte nell’imputazione e probatoriarnente accertate correttamente qualificate in termini di corruzione propria, per la quale non è determinante il fatto che l’atto contrario ai doveri d’uffic:io sia ricompres nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene e in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto (Sez. 6, n. 20502 del 2/03/2010,COGNOME, Rv. 247373; Sez. 6, n. 23355 del 26/02/2016, COGNOME, Rv. 267060). Orbene, entrambe le sentenze di merito indicano puntualmente che la Commissione territoriale prefettizia – cioè l’ufficio nel quale erano incardinati come pubblici funzionari i coimputati COGNOME e COGNOME si occupava delle pratiche di riconoscimento del diritto alla protezione internazionale e dimostrano inoltre compiutamente come COGNOME potesse esercitare un’ingerenza anche se in via di mero fatto – per effetto del ruolo e del servizio non secondario di interprete di lingua bengalese a lui formalmente attribuiti e delle attività da lui concretamente svolte all’interno del Commissione in collegamento con i due funzionari infedeli -, in palese violazione dei suoi doveri di ufficio e col consapevole contributo concorsuale dei due pubblici ufficiali addetti alla Commissione, mediante la programmata manomissione del calendario delle audizioni dei connazionali bengalesi paganti la tangente e, all’occorrenza, la compiacente traduzione delle loro risposte. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Risulta peraltro infondato il motivo di censura in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, contestandosi la sussistenza di un potere decisionale dell’indagato nel procedimento di definizione delle pratiche d’asilo attivate dai connazionali. Nel caso in esame COGNOME nella qualità di incaricato di pubblico servizio per le sue funzioni di interprete, ha contribuito efficacemente alla
realizzazione di atti contrari ai doveri di ufficio, indipendentemente dalle sue competenze nel procedimento amministrativo in corso e dall’esito favorevole o meno dello stesso. Attraverso la strumentalizzazione della posizione dell’interprete l’esito della pratica d’asilo poteva invero essere anche in parte condizionata dalla qualità e dal contenuto delle risposte fornite dal richiedente nell’incontro con la Commissione, per cui rilevante era l’incidenza della prospettazione ai connazionali, giunti in Italia in una situazione di estrema vulnerabilità e debolezza, della sua disponibilità a contribuire, in concorso con i due funzionari, a un esito favorevole della procedura (cfr., per un’analoga fattispecie in materia di concussione, Sez. 6, n. 33920 del 12/07/2012, Tlili, Rv. 253202, secondo cui l’interprete chiamato a svolgere per conto del Ministero dell’Interno la propria opera presso una Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale è incaricato di pubblico servizio ed in quanto tale commette il reato di concussione qualora, abusando della propria qualità, prospetti ad un richiedente asilo la possibilità, se remunerato, di favorirlo nel corso del colloquio cui la Commissione medesima deve procedere prima di valutare la sua domanda).
Come pure risulta altresì ampiamente giustificata dalle conformi decisioni di merito la circostanza che le somme di denaro promesse o corrisposte a Kundu dai richiedenti asilo venissero ripartite tra i sodali e che il conseguimento di tal risultato economico rappresentasse la causa determinante della loro adesione all’associazione di cui al capo A) e al suo programma criminoso.
Sicché nel caso di specie si rinviene il compimento di una serie di atti contrari ai doveri di ufficio, ciascuno dei quali integra il reato di corruzion propria di cui all’art. 319 cod. pen. (Sez. 6, n. 16098 del 05/02/2020, COGNOME, Rv. 278960; Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018, COGNOME, Rv. 274984; Sez. 6, n. 8211 del 11/02/2016, COGNOME, Rv. 266510).
Immune da vizi deve pertanto ritenersi la sentenza impugnata, laddove ha riconosciuto, in modo conforme a quella di primo grado, il collegamento delle condotte illecite poste in essere da COGNOME con il suo specifico rnunus di interprete e con le pubbliche funzioni rivestite da COGNOME e COGNOME all’interno della Commissione, ritenendo integrati i delitti di cui all’art. 319 cod. pen. a lui ascri in concorso con i due pubblici ufficiali.
Si palesano manifestamente infondate e inammissibili le doglianze attinenti al trattamento sanzionatorio, quanto al diniego delle attenuanti generiche e ai criteri di determinazione degli aumenti per la continuazione (undicesimo e dodicesimo motivo di ricorso).
Per un verso, l’apprezzamento di immeritevolezza delle attenuanti generiche, motivato dalla Corte territoriale col richiamo alla gravità e alla reiterazione di una serie indeterminata di delitti di corruzione, insieme con l’assenza di alcun elemento favorevole, siccome sorretto da congrua giustificazione, risulta insindacabile in sede di controllo di legittimità de sentenza impugnata.
Per altro verso, il tema relativo alla determinazione della pena base per il delitto più grave e dei singoli aumenti per la continuazione non risulta affatto essere stato sottoposto dal ricorrente all’esame della Corte del gravame, bensì sollevato solo – perciò inammissibilmente – con un apposito motivo di ricorso per cassazione.
5. Con il decimo motivo la difesa del ricorrente ha ribadito l’eccezione di incostituzionalità, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, prevista, in caso di condanna per il delitto di cui all’art. 319 cod. pen., dall’art. 317 bis cod. pen. nella versione di cui all’art. 1, comma 75, lettera e), I. n. 190 del 2012, precedente alle modifiche introdotte con l’art. 1, lett. m), I. n. 3 del 2019. Il ricorrente ripropone i d applicativi sollevati da Cass., Sez. 6, ord. n. 37796 del 08/04/2020, Romano, Rv. 280961, quanto alla irragionevolezza di una disciplina applicativa automatica e fissa, in violazione dei principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio: questione peraltro dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232 del 2021.
Ritiene il Collegio che la dedotta questione di costituzionalità sia manifestamente infondata.
Invero, la previsione normativa, legittimamente giustificata dal legislatore con il richiamo ad esigenze di prevenzione speciale per l’allarme generato dai reati commessi nell’ambito delle sfere funzionali, non omette affatto di prendere in considerazione il differente livello di gravità dell’offesa recata al bene giuridic protetto. Per le fattispecie criminose meno gravi si dispone che, “se viene inflitta la reclusione per un tempo non superiore a due anni o se ricorre la circostanza attenuante prevista dall’articolo 323 bis, primo comma, la condanna importa l’interdizione e il divieto temporanei, per una durata non inferiore a cinque anni né superiore a sette anni” (comma 1, secondo periodo) ed altresì che “Quando ricorre la circostanza attenuante prevista dall’articolo 323 bis,, secondo comma, la condanna per i delitti ivi previsti importa le sanzioni accessorie di cui al primo comma del presente articolo per una durata non inferiore a un anno né superiore a cinque anni” (comma 2).
La cennata differenziazione della risposta sanzionatoria, a fronte di condotte criminose oggettivamente diverse per il grado di gravità dela lesione del bene giuridico tutelato, smentisce la tesi dell’automatismo applicativo della pena interdittiva in forza di un’asserita fissità, perpetuità e rigidità della prescrizi normativa.
6.1 Non coglie nel segno la critica difensiva alla motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla concreta determinazione in euro 270.000 del quantum del profitto dei numerosi episodi corruttivi, oggetto della confisca per equivalente (ottavo motivo di ricorso).
Non appare invero manifestamente illogico, né pertanto sindacabile in sede di legittimità, il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale pe pervenire alla indicata soluzione decisoria. Il calcolo della somma oggetto di confisca trova la sua solida base probatoria nelle esplicite ammissioni dei coimputati, i quali hanno riferito che, per ogni singola audizione dinanzi alla Commissione, COGNOME e COGNOME percepivano l’importo di 2.500 euro, mentre i due pubblici funzionari l’importo complessivo di 500 euro. In particolare, avendo NOME confessato di avere percepito complessivamente 27.000 euro, si è diviso tale importo per la somma di 250 euro riscossa dallo stesso a titolo di tangente per ciascuna audizione e si è ottenuto il numero di (almeno) 108 episodi di corruzione che, moltiplicati per la tangente percepita da NOME e NOME di 2.500 euro per ogni audizione, ha fornito il verosimile dato finale di euro 270.000, oggetto della misura ablativa.
6.2 Risulta per contro fondato il medesimo motivo di ricorso nella parte in cui si duole dell’applicazione di tale importo per l’intero, in via solidale, a cari dei concorrenti COGNOME e COGNOME.
Ritiene GLYPH il GLYPH Collegio GLYPH di GLYPH condividere GLYPH il GLYPH più GLYPH recente GLYPH orientamento giurisprudenziale di legittimità, per il quale in tema di corruzione la confisca per equivalente prevista dall’art. 322-ter cod. pen., avendo natura sanzionatoria, può essere disposta indifferentemente nei confronti di ciascuno dei concorrenti nel reato anche per l’intera entità del profitto accertato, senza duplicazioni e nel rispetto della solidarietà interna, solo nel caso in cui la fattispecie concreta e rapporti economici ad essa sottostanti non consentano d’individuare la quota di profitto in concreto conseguita dai singoli concorrenti; sicché, laddove risulti possibile utilizzare un criterio attendibile di riparto, la confisca non p coinvolgere indifferentemente ciascuno dei concorrenti del reato per l’intera entità del profitto accertato, ma va commisurata al grado di partecipazione di ciascun concorrente al profitto (Sez. 6, n. 4727 del 20/01/2021, Russo, Rv. 280596; Sez. 6, n. 33757 del 10/06/2022, Primitivo, Rv. 283828).
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Ne consegue, come lineare e logico corollario, che nel caso di specie appare legittima, alla stregua dei suindicati dati ricostruttivi dell’entità del pro accertato, la suddivisione per la quota della metà dell’importo complessivamente determinato in euro 270.000 a carico solidale di NOME e COGNOME. E in tal senso la sentenza impugnata ben può essere annullata senza rinvio, determinandosi agevolmente nella minore somma di euro 135.000 la somma di denaro oggetto di confisca per equivalente a carico di Kundu.
Parimenti fondata appare la doglianza di cui al nono motivo di ricorso, relativa all’applicazione della riparazione pecuniaria in favore del Ministero dell’Interno (rapportata dalla Corte territoriale, senza alcuna motivazione sul punto, alla confisca diretta della somma di euro 6.589,02 oggetto di sequestro preventivo), che il ricorrente afferma essere stata inflitta in violazione sia de divieto di bis in idem, se cumulata con la confisca per equivalente, sia della previsione normativa dell’art. 322-quater cod. pen. vigente all’epoca dei fatti.
Com’è noto l’art. 323-quater cod. pen. delinea, in caso di condanna per corruzione, una forma di riparazione coattiva, di tipo non risarcitorio, in cui la quantificazione dell’ammontare dovuto a titolo compensativo non è rimessa all’apprezzamento del giudice, né è commisurata ai pregiudizi subiti dall’amministrazione, ma forfettariamente calibrata sui proventi materiali indebitamente ricevuti. Si tratta, dunque, di una “sanzione civile accessoria” che, a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione, consegue “sempre” alla condanna per i reati-presupposto di cui al catalogo dello stesso art. 322quater cod. pen. e si caratterizza per una indubbia connotazione punitiva. Sicché essa non è applicabile in relazione a fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della norma, in quanto soggiace al generale canone di irretroattività di cui all’art. 2, comma quarto, cod. pen. (Sez. 6, n. 16098 del 05/02/2020, COGNOME, Rv. 278960-02; Sez. 6, n. 8959 del 25/01/2023, COGNOME, Rv. 284271).
La sentenza impugnata, viceversa, evidenzia una motivazione meramente apparente (oltre che contraddittoria quanto al riferimento alla somma di euro 6.589,02 oggetto di sequestro preventivo), omettendo ogni considerazione circa la disciplina intertemporale applicabile alle condotte corruttive ascritte ex art. 319 cod. pen. a Kundu, rispetto all’entrata in vigore della legge 27 maggio 2015, n. 69 e alle successive modifiche apportate con legge 9 gennaio 2019, n. 3.
L’art. 322-quater cod. pen., introdotto con legge 27 maggio 2015, n. 69 (disposizione vigente all’epoca dei fatti), prima della modifica di cui alla legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante un più largo campo operativo rispetto all’originaria previsione legislativa, prevedeva che “Con la sentenza di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321 e 322-
bis, è sempre ordinato il pagamento di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno”.
Pertanto, attesa la collocazione cronologica delle accertate vicende corruttive e considerato che la funzione ausiliaria di interprete, svolta da Kundu di volta in volta, in occasione delle audizioni di connazionali bengalesi da parte della Commissione territoriale prefettizia, non ne comportava affatto l’appartenenza all’Amministrazione dell’Interno, l’obbligo riparatorio non avrebbe potuto essere disposto a suo carico dai Giudici di merito, pena la lesione della garanzia costituzionale assicurata dall’art. 2 cod. pen.
Per questa ragione, la disposta riparazione pecuniaria va eliminata e la sentenza impugnata, non residuando spazi di discrezionalità nel giudizio, va annullata senza rinvio anche in ordine a tale aspetto, senza che, però, consegua a tale annullamento alcuna restituzione materiale della somma in questione.
Detta somma, infatti, va comunque computata in compensazione materiale nella confisca per equivalente.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla confisca per equivalente, che ridetermina nella minore somma di euro 135.000 e alla riparazione pecuniaria, che elimina.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso il 09/11/2023