Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 31857 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 31857 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME BrunoCOGNOME nato a Lodè il 05/07/1968
COGNOMENOMECOGNOME nato a Napoli il 28/04/1969
COGNOMENOMECOGNOME nato a Napoli il 21/09/1972
COGNOME NOMECOGNOME nato a Giugliano in Campania il 19/09/1954
avverso la sentenza del 25/01/2024 della Corte d’appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME
COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;
udito l’avv. NOME COGNOME per l’Avvocatura generale dello Stato, in difesa della parte civile Ministero dell’economia e delle finanze, che si è associato alla richiesta del Procuratore generale, depositando conclusioni scritte e nota spese; uditi i seguenti difensori per i ricorrenti per ciascuno rispettivamente indicati, che hanno chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi, ribadendone i motivi:
avv. NOME COGNOME per COGNOME e, in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME;
avv. NOME COGNOME COGNOME
avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli ha confermato la condanna dei fratelli NOME ed NOME COGNOME, di NOME COGNOME e di NOME COGNOME per il delitto di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio.
Ha dichiarato estinto per prescrizione, invece, il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio, per il quale in primo grado avevano riportato condanna i fratelli COGNOME e COGNOME
Secondo i giudici di merito, COGNOME, sottufficiale della Guardia di finanza in servizio presso il G.i.c.o. – N.p.t. di Napoli, e COGNOME, impiegato comunale ma che aveva prestato servizio anche presso la Prefettura di Napoli ed in altri uffici amministrativi sul territorio, hanno messo a disposizione dei COGNOME le loro funzioni, in particolare rivelando loro in varie occasioni notizie riservate apprese grazie al loro ruolo istituzionale; in cambio, hanno ottenuto l’assunzione di loro stretti congiunti alle dipendenze dell’istituto di vigilanza privata “RAGIONE_SOCIALE di cui NOME COGNOME era amministratore unico e suo fratello era socio, nonché il pagamento degli stipendi in favore di quei familiari, pur nel periodo in cui la società, ormai decotta, si avviava al fallimento ed aveva interrotto il versamento delle retribuzioni agli altri dipendenti.
Avverso tale decisione ricorrono tutti gli imputati, con separati atti dei rispettivi difensori.
Il ricorso proposto nell’interesse di Corosu si compone di sette motivi.
2.1. Il primo consiste nella violazione della legge processuale, per avere la sentenza utilizzato a carico dell’imputato le dichiarazioni rese in fase d’indagini preliminari dal coimputato NOME COGNOME ed acquisite a norma dell’art. 513, comma 1, cod. proc. pen., senza il consenso dell’imputato: dichiarazioni dalle quali la Corte d’appello avrebbe tratto la prova di alcune delle condotte del Corosu ritenute espressive del patto corruttivo (ovvero l’anticipazione al COGNOME dell’esito favorevole della procedura finalizzata all’applicazione della c.d. “interdittiva antimafia” alla sua società e la rivelazione di voci calunniose circolanti in Prefettura nei suoi confronti).
La motivazione con la quale la sentenza impugnata ha respinto il relativo motivo d’appello sarebbe – si sostiene – del tutto inconferente.
2.2. Il secondo motivo denuncia violazione di legge e vizi di motivazione in ordine al ritenuto dovere di astensione del ricorrente dal partecipare all’attività
istruttoria per la “interdittiva antimafia” nei confronti dei COGNOME, in ragione de risalente rapporto di amicizia e di reciproca disponibilità tra loro intercorrente.
Obietta il ricorso: che la sentenza non riconduce tale dovere ad alcuna disposizione normativa specifica, fondandolo solamente sui principi di cui all’art. 97, Cost., i quali, però, si riferiscono all’organizzazione degli uffici; che tal specifica attività d’ufficio non costituiva oggetto nemmeno dell’imputazione; che il ricorrente non ha alcun rapporto di parentela con i COGNOME né con soggetti titolari di funzioni amministrative di rilievo nelle loro imprese; che l’attività da lui svolt nell’àmbito di tale procedura è consistita nella semplice raccolta di dati e documenti ed è stata svolta sotto la vigilanza ed il controllo dei suoi superiori, i quali non hanno rilevato alcuna anomalia; che, su tutti questi aspetti, la sentenza sostanzialmente omette di motivare.
2.3. La terza e la quarta doglianza possono essere trattate congiuntamente, afferendo entrambe all’episodio in cui Corosu, aderendo ad un invito formulatogli da NOME COGNOME aveva raggiunto quest’ultimo presso un hotel per parlare con lui.
Secondo il Tribunale, il sol fatto dell’aver prontamente aderito a tale invito sarebbe stato rappresentativo dell’asservinnento della sua funzione verso quegli imprenditori. In realtà – conn’era stato dedotto con l’appello – Corosu si sarebbe recato all’appuntamento esclusivamente per un interesse proprio, quello, cioè, di sollecitare l’interlocutore a pagare gli stipendi ai suoi fratelli, dipendenti dell società di costui: ciò che si evincerebbe chiaramente dalle successive conversazioni telefoniche intercettate tra il ricorrente e suo fratello.
La Corte d’appello, dal suo canto, ha ritenuto di dover assegnare rilevanza all’oggetto di quel colloquio, che ha individuato – senza che di ciò vi fosse traccia nella sentenza appellata – nella comunicazione, da parte del Corosu a COGNOME, dell’esistenza di un provvedimento di archiviazione nei confronti di quest’ultimo, nonché delle ragioni per cui questi avesse ricevuto una convocazione presso la locale Procura della Repubblica: ciò, però, costituirebbe il prodotto del palese travisamento di un dialogo intercettato tra il ricorrente ed il proprio fratello (la cu trascrizione la difesa allega al ricorso), nel quale costoro effettivamente parlano di un decreto di archiviazione, ma riguardante lo stesso Corosu.
2.4. Con il quinto motivo, si deduce l’illogicità della motivazione, nella parte in cui la controprestazione dell’asservimento del ricorrente è stata individuata esclusivamente nel trattamento di favore riservato ai suoi fratelli rispetto agli altri dipendenti dell’istituto di vigilanza dei COGNOME, con espunzione, quindi, dal patto corruttivo – diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale – dell’assunzione di quei familiari.
Tuttavia, la circostanza per cui tutti gli altri dipendenti, a differenza dei fratel del Corosu, non avessero ricevuto le retribuzioni loro spettanti risulterebbe del tutto indimostrata, non avendo mai formato oggetto d’indagine; per contro, risulta documentato che anche i fratelli del ricorrente si siano insinuati nel passivo fallimentare della società, in quanto creditori di retribuzioni non percepite. Peraltro, su tali aspetti, la difesa aveva richiesto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’audizione dei curatori fallimentari, che la Corte d’appello ha negato.
Inoltre, stando alla ricostruzione della sentenza impugnata, i fratelli del ricorrente avrebbero regolarmente percepito gli stipendi fino alla mensilità di giugno del 2014, sicché la controprestazione della sua disponibilità in favore dei COGNOME e le sue sollecitazioni a costoro affinché ottemperassero al patto sarebbero successive. Risulterebbe del tutto illogico, però, che egli si fosse “messo a disposizione” di costoro già un anno prima – in occasione, cioè, della procedura relativa alla “interdittiva antimafia” – senza chiedere alcuna contropartita, mentre avesse stretto l’accordo corruttivo in un momento in cui la società degli ipotetici corruttori versava in una situazione di dissesto finanziario ed anche questi ultimi non avevano, perciò, alcun interesse a garantire il pagamento degli stipendi ai dipendenti.
2.5. Il sesto motivo di ricorso consiste nella violazione dell’art. 319 cod. pen., per avere la sentenza affermato che integra il delitto di corruzione “propria” lo stabile asservimento del pubblico ufficiale agli interessi del privato, che si traduca nel sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri d’ufficio, ancorché non predefiniti né specificamente individuabili ex post.
Replica la difesa, con citazione di precedenti di legittimità:
l’atto contrario ai doveri d’ufficio oggetto del patto corruttivo dev’essere specificamente individuato o individuabile, ricadendosi altrimenti nella più tenue fattispecie della corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 cod. pen.);
per essere contrario ai doveri d’ufficio, l’atto dell’agente pubblico dev’essere illecito od illegittimo, non essendo sufficiente il generico riferimento ai doveri d’imparzialità e correttezza;
-nessuna norma specifica imponeva a COGNOME di astenersi dall’attività, peraltro soltanto materiale, compiuta nell’àmbito della procedura relativa alla “interdittiva antimafia”;
-nessuna disposizione normativa il ricorrente ha violato per aver semplicemente dato dei consigli ad NOME COGNOME allorché questi era stato chiamato a rendere sommarie informazioni in Procura, peraltro rispetto a fatti da lui stesso denunciati e che non interessavano in alcun modo l’ufficio del ricorrente;
i fatti risalgono al 2014 e, comunque, sono anteriori alla legge n. 3 del 2019: pertanto, il reato di cui all’art. 318 cod. pen., in ragione della pena allora per esso prevista, era soggetto ad un termine di prescrizione massimo di sette anni e sei mesi, essendosi perciò estinto prima della sentenza impugnata.
2.6. L’ultima censura riguarda l’apparenza della motivazione con cui è stato respinto il motivo d’appello funzionale al riconoscimento dell’attenuante della particolare tenuità del fatto, a norma dell’art. 323 -bis, primo comma, cod. pen..
La sentenza ha rassegnato una motivazione complessiva in relazione a tutte le circostanze attenuanti prospettate con il gravame (anche quelle, cioè, di cui agli artt. 62, n. 4, e 62 -bis, cod. pen.), facendo leva sulla gravità della condotta, senza tuttavia sorreggere tale sua valutazione con circostanze diverse dalla tipologia del reato e senza confrontarsi con quelle dedotte dalla difesa appellante, in particolare quella per cui l’asserita utilità del patto corruttivo sarebbe consistita nell’ottenimento, per i propri fratelli, di quanto loro legittimamente dovuto.
2.7. Il difensore ha depositato un motivo aggiunto, deducendo che, espunte le suddette prove inutilizzabili o travisate, il compendio probatorio residuo non sarebbe idoneo a superare la c.d. “prova di resistenza” ai fini del giudizio di colpevolezza.
Il ricorso di NOME COGNOME consiste di diciassette motivi, a loro volta articolati nei seguenti termini.
3.1. I primi due riguardano l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni conversazioni, essendo state queste originariamente disposte per un reato di bancarotta fraudolenta, del tutto privo di una connessione qualificata con quelli di corruzione oggetto di contestazione, nonché essendo state successivamente disposte per questi ultimi sulla base di un quadro indiziario non obiettivamente riconducibile a tali fattispecie di reato né, comunque, oggetto della necessaria verifica di consistenza da parte del Giudice per le indagini preliminari (si citano, a sostegno, Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 277395, ed altri precedenti di legittimità).
3.2. Il terzo ed il quarto motivo denunciano violazione di legge e vizi di motivazione relativamente al giudizio di colpevolezza per la corruzione del Corosu (capo A dell’imputazione), nonché, in subordine, con riferimento al mancato rilevamento dell’intervenuta prescrizione di tale reato.
3.2.1. Anzitutto si rappresenta l’assenza del necessario nesso sinallagmatico tra l’ipotizzato asservimento del pubblico ufficiale e le utilità corrispostegli. La stessa sentenza, in un suo passaggio, parla di «non immediata e diretta correlazione» tra i servigi prestati dal COGNOME ai COGNOME ed i favori resi da questi ultimi ai fratelli di lui; inoltre, considerati gli accertati rapporti amicali da te
esistenti tra costoro (in sentenza si legge di un «legame consolidato e di affetto fraterno»), sarebbe stato necessario verificare se l’utilità data o promessa all’agente pubblico non fosse riconducibile a tali rapporti personali anziché ad un patto illecito.
La sentenza impugnata, invece, non indicherebbe alcun elemento da cui poter ragionevolmente inferire una relazione di corrispettività tra le condotte asseritannente antidoverose del Corosu e l’assunzione od il pagamento degli stipendi in favore dei propri fratelli da parte dei COGNOME, adombrando, piuttosto, una condotta induttiva del primo verso questi ultimi ed una sua aspettativa di riconoscenza da parte degli stessi. Né potrebbe essere sufficiente, a sostegno dell’accusa, la sola prova della corresponsione di un’utilità non dovuta, tanto più allorquando, come nel caso specifico, beneficiario non ne sia il funzionario pubblico ma un terzo.
3.2.2. Rileva, poi, la difesa che, qualora il beneficiario diretto del prezzo della corruzione sia un terzo, l’utilità ritratta dall’agente pubblico ha una natura esclusivamente non patrimoniale. Da ciò consegue, nello specifico, che essa potrebbe considerarsi maturata, per Corosu, al momento dell’assunzione dei propri fratelli, ma non già all’atto dei pagamenti ipoteticamente “preferenziali” dei relativi stipendi, trattandosi di prestazioni alle quali costoro avevano diritto e non, quindi, di utilità indebitamente conseguite.
Ne deriva, allora, che il reato, a differenza di quanto ritenuto dai giudici d’appello, non si sarebbe consumato nel 2014, bensì al momento di quelle assunzioni, ovvero nel 2007, risultando perciò prescritto prima della sentenza impugnata.
3.2.3. Non risulterebbe comprovato, inoltre, che i soli dipendenti de “RAGIONE_SOCIALE” ad aver percepito gli stipendi in prossimità del fallimento della società fossero stati i fratelli di Corosu: l’ufficiale della Guardia di finanza che ha coordinato le indagini, testimoniando in dibattimento, ha riferito di non aver compiuto specifiche indagini sul punto e di avere dedotto la circostanza soltanto dalle intercettazioni di conversazioni.
Ma – evidenzia la difesa – da queste ultime emergerebbe che anche il dipendente COGNOME stesse percependo gli emolumenti e che, comunque, pure agli altri venisse versata una paga, benché solo parziale e minima. Inoltre, la sentenza non spiega perché uno dei fratelli di Corosu, nel corso di un dialogo intercettato con quest’ultimo, riferendo che essi avrebbero in passato percepito «200 euro fuori mano», intendesse riferirsi a compensi ulteriori rispetto a quelli degli altri dipendenti e non, invece, come da costoro testimoniato, ad anticipi sugli stipendi.
3.2.4. In ragione, dunque, dell’assenza di una relazione di corrispettività tra i servigi erogati da Corosu ai COGNOME e l’assunzione, da parte di questi ultimi, dei
SUOI fratelli, nonché considerando le sollecitazioni ripetute ed insistenti del primo verso i secondi affinché pagassero gli stipendi a quei suoi congiunti, conclude la difesa che i fatti andrebbero inquadrati nella diversa fattispecie della istigazione alla corruzione, a norma dell’art. 322, quarto comma, cod. pen..
3.3. Il quinto ed il sesto motivo di ricorso deducono violazione di legge e vizi di motivazione nella parte in cui è stata negata la riqualificazione dei fatti, al più, come corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318, cod. pen.).
La sentenza impugnata ha dato rilievo decisivo al ravvisato asservimento della funzione, da parte del Corosu, all’interesse dei COGNOME. Ma – rileva la difesa, con richiami di giurisprudenza – tale finalità non consente di ritenere integrata la corruzione c.d. “propria” qualora, ciò nonostante, l’atto compiuto realizzi ugualmente l’interesse pubblico e non sia stato violato dal funzionario alcun dovere specifico: e, nel caso in esame, l’ufficiale che ha coordinato le indagini strumentali alla “interdittiva antimafia” nei confronti dei COGNOME ha testimoniato di non aver rilevato alcuna violazione da parte del Corosu; il quale, peraltro, si è limitato ad un’attività di semplice acquisizione ed analisi documentale, che, come tale, è priva di profili discrezionali.
3.4. I motivi dal settimo al nono riguardano il diverso delitto di corruzione che il ricorrente avrebbe commesso in concorso con suo fratello e con NOME COGNOME, rubricato al capo B) dell’imputazione.
3.4.1. In proposito, il ricorso lamenta anzitutto la contraddittorietà della motivazione, incerta nel delimitare il patto corruttivo ai COGNOME ed a COGNOME oppure estenderlo ad un terzo funzionario della Prefettura di Napoli, rimasto ignoto, attraverso il quale COGNOME si sarebbe procurato le notizie ed i documenti riservati poi comunicati ai suoi coinnputati.
Peraltro – si rileva – di questo ipotetico terzo funzionario della Prefettura non solo è rimasta ignota l’identità, ma non è stata nemmeno accertata la condotta; mentre, per quel che riguarda COGNOME, questi non era un dipendente della Prefettura, perciò difettando il requisito, essenziale per la configurabilità della corruzione “propria”, rappresentato dalla riferibilità degli atti o comportamenti oggetto di mercimonio all’ufficio cui il pubblico funzionario appartenga, così da poter quegli esercitare un’ingerenza, sia pure soltanto di fatto.
3.4.2. La difesa ricorrente, poi, oltre a rilevare, anche in questo caso, il mancato accertamento dell’eventuale corresponsione degli stipendi anche ad altri dipendenti dell’istituto di vigilanza, rappresenta che non risulta accertato quando il figlio del COGNOME abbia percepito l’ultima retribuzione e che, dunque, arbitrariamente la sentenza impugnata ha esteso il momento consumativo del reato all’ottobre del 2014, per il sol fatto che, dalle conversazioni tra padre e figlio,
sarebbe emerso che a quest’ultimo non fosse stato pagato lo stipendio relativo a quel mese.
3.5. Con il decimo e l’undicesimo motivo, il ricorrente si duole della mancata riqualificazione dei fatti di cui al capo B) nel delitto di traffico d’influenze illeci norma dell’art. 346-bis, cod. pen..
Richiamata la giurisprudenza di questa Corte sui criteri differenziali tra le due figure di reato, il ricorso rileva come la sentenza impugnata non indicherebbe alcuna condotta adesiva dell’ignoto terzo funzionario di Prefettura al patto corruttivo, né la destinazione a quest’ultimo anche soltanto di una parte del prezzo del reato, essendosi perciò in presenza, semmai, di un’utilità corrisposta a Guarino per la sua opera di mediazione verso tale terzo.
E, così riqualificato il fatto, il reato sarebbe da tempo estinto per prescrizione.
3.6. Il dodicesimo ed il tredicesinno motivo di ricorso consistono nella violazione di legge e nel vizio della motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata ha dichiarato prescritto il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio (anch’esso contestato al capo B dell’imputazione), anziché pronunciare per esso sentenza di proscioglinnento immediato.
Secondo la stessa sentenza, la consegna ai COGNOME dell’esposto nei loro confronti, che COGNOME era riuscito a procurarsi in Prefettura, avrebbe rappresentato un’iniziativa esclusiva di quest’ultimo, mentre, perché tale reato possa essere addebitato all’extraneus, non è sufficiente che questi si limiti a ricevere la notizia, ma è necessario che istighi, solleciti, induca il pubblico ufficiale a rivelare quanto invece dovrebbe rimanere segreto.
Peraltro, il ricorrente si è limitato ad apprendere la notizia dal proprio fratello NOME, mentre nelle sue conversazioni con COGNOME non si rinviene alcun cenno all’anzidetto esposto.
Infine, la motivazione della sentenza si presenterebbe contraddittoria, nel momento in cui afferma che COGNOME avrebbe indotto il terzo pubblico ufficiale ignoto a passargli l’esposto in esecuzione di un accordo criminoso con i fratelli COGNOME, ma poi ascrive ad un’iniziativa personale del primo la consegna del documento a costoro.
3.7. Il quattordicesimo ed il quindicesimo motivo riguardano la determinazione della pena e consistono:
nell’omessa motivazione sul motivo d’appello con cui se ne chiedeva il contenimento nel minimo edittale;
nell’applicazione della diminuzione per il riconoscimento di attenuanti generiche, peraltro non nel massimo, alla sola pena-base per la violazione più grave e non anche agli aumenti applicati per gli altri reati ritenuti in continuazione,
benché tali attenuanti siano state giustificate da ragioni soggettive, ovvero dal comportamento collaborativo dell’imputato.
3.8. Il sedicesimo motivo lamenta l’omissione della motivazione sul motivo d’appello riguardante il riconoscimento dell’attenuante della collaborazione, a norma dell’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., nonostante la stessa sentenza abbia dato atto di tale contegno processuale collaborativo.
3.9. L’ultima censura consiste nel difetto di motivazione riguardo alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, invece ravvisabile – secondo la difesa per la modestia, se non addirittura l’assenza, dei corrispettivi della corruzione e dei danni prodotti alla pubblica amministrazione.
Il ricorso di NOME COGNOME è sorretto da due motivi.
4.1. Il primo consiste nella violazione dell’art. 513 cod. proc. pen., per la ritenuta utilizzabilità ai fini della decisione delle dichiarazioni rese in fase d’indagi preliminari da suo fratello NOMECOGNOME in quanto acquisite dal Tribunale mediante lettura senza il suo consenso.
Le ragioni della doglianza sono quelle già esaminate trattando del primo motivo del ricorso del coimputato COGNOME tra cui la non pertinenza della giurisprudenza richiamata dai giudici d’appello per rigettare il relativo motivo di gravame.
4.2. Con il secondo, sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’art. 319 cod. pen., il ricorrente si duole sostanzialmente del giudizio di colpevolezza emesso nei suoi confronti in relazione ad entrambe le vicende corruttive oggetto d’addebito.
4.2.1. Quanto a quella in concorso con Corosu, egli deduce:
che l’unico incontro accertato tra loro è quello in cui egli era stato convocato presso gli uffici della Guardia di finanza come persona informata sui fatti, in relazione ad alcune denunce da lui stesso presentate;
che i fratelli del Corosu hanno dichiarato di non aver ottenuto il pagamento degli stipendi ma solo alcuni acconti, tant’è che poi hanno chiesto l’ammissione al passivo fallimentare della società;
che gli ufficiali superiori del Corosu, nel corso delle loro testimonianze dibattimentali, hanno escluso irregolarità da parte di costui nell’esercizio dell’attività d’indagine riguardante la “interdittiva antimafia” delle imprese amministrate da lui e da suo fratello;
che, secondo la sentenza impugnata, la sua difesa avrebbe trascurato le conversazioni intercettate: le quali, però, attestano solamente le lagnanze e le sollecitazioni del Corosu per il mancato pagamento degli stipendi ai propri fratelli, non anche la corrispettività tra il pagamento medesimo ed i favori da costui resi ad esso ricorrente ed a suo fratello;
– che, dunque, manca la prova del sinallagma tra l’ipotetico atto contrario ai doveri d’ufficio e l’utilità data o promessa all’agente pubblico, che invece rappresenta elemento peculiare e distintivo della corruzione “propria”, non configurabile, invece, in presenza di una generica disponibilità a favorire l’extraneus.
4.2.2. Riguardo, invece, alla “vicenda Guarino”, si rileva:
che, dalle conversazioni intercettate tra COGNOME e suo figlio, emerge il mancato pagamento a quest’ultimo degli stipendi: sicché mancherebbero la controprestazione del patto corruttivo e l’utilità per il pubblico funzionario;
che i fatti oggetto dell’esposto di cui hanno avuto notizia da COGNOME erano di pubblico dominio, tanto che già due mesi prima, nel corso di un interrogatorio alla polizia giudiziaria, al ricorrente erano state formulate domande su di essi;
che non vi è alcun riscontro obiettivo dell’ipotizzato incontro in cui COGNOME avrebbe consegnato al ricorrente quell’esposto.
COGNOME, infine, con il proprio ricorso rassegna tre doglianze.
5.1. La prima consiste nell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal coimputato NOME COGNOME, acquisite a norma dell’art. 513, cod. proc. pen.: le ragioni sono le stesse già esaminate trattando dell’analogo motivo proposto da altri ricorrenti.
5.2. La seconda attinge la configurabilità dei reati addebitatigli.
5.2.1. Quanto alla corruzione, egli contesta, anzitutto, di aver conseguito un’indebita remunerazione.
L’assunzione di suo figlio presso “RAGIONE_SOCIALE“, infatti, non avrebbe rappresentato un indebito favore nei suoi confronti, poiché di fatto era stata imposta dagli uffici del Consiglio regionale, dove la società prestava il proprio servizio, che avevano chiesto alla stessa di assorbire i dipendenti della precedente ditta appaltatrice. La sentenza rileva che tale “travaso” di personale non era automatico, in quanto soltanto in sèguito avrebbe formato oggetto di una specifica clausola contrattuale, ma, a tal fine, valorizza le dichiarazioni di NOME COGNOME, invece inutilizzabili.
Per altro verso, il ricorrente deduce che il pagamento degli stipendi suo figlio comunque non l’ha ottenuto e che la relativa promessa, quand’anche effettuata, ma irrealizzabile, non sarebbe sufficiente ad integrare una corruzione.
Inoltre, COGNOME rappresenta come fosse privo di qualsiasi potere all’interno dell’organizzazione della Prefettura di Napoli, essendo egli null’altro che un impiegato comunale distaccato presso la stessa soltanto dal 1981 al 1983, e non frequentando assiduamente quegli uffici, secondo quanto confermato dal teste
COGNOME (ovvero il funzionario che aveva protocollato l’esposto contro i COGNOME), il quale ha riferito di non averlo incontrarlo in Prefettura almeno dal 2006.
5.2.2. Riguardo, invece, alla rivelazione di segreto d’ufficio, il ricorso esclude la configurabilità del reato, in quanto la notizia rivelata sarebbe stata già nota ai destinatari. Si indicano, in proposito, una conversazione intercettata tra i fratelli COGNOME e le testimonianze di un funzionario regionale e di una guardia giurata, dalle quali si evincerebbe che i fatti oggetto dell’esposto fossero già conosciuti all’interno di quel contesto.
5.3. L’ultimo motivo di ricorso consiste nell’omessa riqualificazione del fatto come traffico d’influenze illecite (art. 346-bis, cod. pen.).
COGNOME si sarebbe limitato a prospettare ai COGNOME la possibilità della propria mediazione illecita presso ignoti funzionari della Prefettura, senza tuttavia assumerne effettivamente l’impegno, rimanendo in realtà inoperoso e, in questo modo, sostanzialmente ingannando costoro.
Peraltro, tale reato deve intendersi consumato al momento della promessa o dazione, che, nel caso specifico, consistendo nell’assunzione del figlio del ricorrente, deve collocarsi nell’anno 2006: con l’effetto che il reato è ormai prescritto.
5.4. La difesa di COGNOME ha presentato un motivo aggiunto, con cui sottolinea che, escluse le dichiarazioni inutilizzabili di NOME COGNOME, il compendio probatorio residuo non è idoneo a superare la c.d. “prova di resistenza” ai fini del giudizio di colpevolezza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Ricorso Corosu.
1.1. Il primo motivo, in tema di utilizzabilità a fini di prova delle dichiarazioni predibattimentali dei coimputati, è inammissibile, per difetto di specificità.
Non v’è dubbio che, avendo i fratelli COGNOME rifiutato di sottoporsi all’esame dibattimentale, le dichiarazioni da essi rese nel corso degli interrogatori sostenuti nella fase delle indagini preliminari non potessero essere utilizzate come prove nei confronti dei loro coimputati senza il consenso di questi ultimi.
In questo senso, il disposto dell’art. 513, comma 1, cod. proc. pen., è perspicuo, tanto quanto è eccentrica la motivazione con la quale la Corte d’appello ha disatteso la relativa eccezione difensiva, avendo quei giudici richiamato giurisprudenza riguardante il tema dell’omesso avviso di cui all’art. 64, comma 3, stesso codice, che però rileva ai diversi fini della veste processuale che il dichiarante assume nel successivo processo e delle relative conseguenze in tema di prova. Un profilo, questo, che tuttavia non interessa nel caso specifico, dal
momento che, quale che sia detta veste, le dichiarazioni di un tale soggetto, qualora esso si sottragga all’esame dibattimentale, non possono essere utilizzate nei confronti degli imputati senza il loro consenso: a norma del predetto art. 513, qualora si tratti di coimputato od imputato di reato collegato (a meno che si tratti di dichiarazioni rese in sede d’incidente probatorio); e salvo che ricorrano le circostanze di cui all’art. 500, comma 4, cod. proc. pen., nel caso in cui, invece, il soggetto venga escusso come testimone “assistito”, a norma dell’art. 197 – bis, stesso codice.
La difesa, tuttavia, sebbene abbia correttamente individuato la regula iuris e censurato la motivazione della sentenza d’appello sul punto, si è fermata a tale rilievo, senza spiegare, cioè, né in ricorso né nel successivo motivo aggiunto come invece era tenuta a fare (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, COGNOME, Rv. 243416) – per quale ragione, una volta espunte le dichiarazioni inutilizzabili, il residuo compendio probatorio non sarebbe stato in grado di giustificare una pronuncia di colpevolezza a carico del Corosu, considerando l’ampiezza e la varietà di esso e l’indiscutibile valenza dimostrativa, in particolare, delle sue conversazioni intercettate.
1.2. I motivi dal secondo al sesto possono essere trattati congiuntamente, riguardando, sotto diversi e specifici profili della condotta contestata, il tema qualificante e decisivo dell’impugnazione: quello, vale a dire, della qualificazione giuridica di tale condotta come corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio oppure per l’esercizio della funzione, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 319 o 318, cod. pen.. Non v’è dubbio, infatti, non ponendolo in discussione neppure la sua difesa, che Corosu avesse asservito il proprio ruolo di sottufficiale della Guardia di finanza agli interessi dei fratelli COGNOME, cui era legato da risalente amicizia, ottenendo da costoro in contropartita l’assunzione dei propri fratelli presso le loro aziende o, quanto meno, un trattamento economico ingiustificatamente privilegiato rispetto agli altri dipendenti delle stesse.
Quel che non emerge con la necessaria nitidezza dalla motivazione della sentenza impugnata, invece, è se tale disponibilità dell’imputato si sia tradotta nel compimento – anche – di atti contrari ai propri doveri d’ufficio, così integrando il più grave reato di corruzione c.d. “propria”. Vero è, infatti, come osservato dai giudici d’appello, che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d’ufficio che di a conformi o non contrari a tali doveri, configura un unico reato di cui all’art. 319, cod. pen., in cui è assorbita la meno grave fattispecie di cui al precedente art. 318 (Sez. 6, n. 16781 del 21/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 281089, ribadita, tra altre, da Sez. 6, n. 1245 del 08/06/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285886); ciò non di meno, perché questo si verifichi, occorre pur sempre che la “presa in carico”
dell’interesse del privato corruttore si traduca nel compimento in concreto di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, non essendo sufficiente la semplice intenzione del pubblico agente di comportarsi in tal modo e la relativa disponibilità a farlo ove se ne presentino la necessità o l’occasione (vds. Sez. 6, n. 14027 del 13/02/2024, Greco, Rv. 286373).
1.2.1. Tanto premesso, i comportamenti antidoverosi del ricorrente specificamente individuati dai giudici di merito sarebbero consistiti nell’aver egli prontamente raggiunto presso un albergo Salvatore COGNOME, su sollecitazione dello stesso, nel pomeriggio del 22 luglio 2014, e nell’avergli rivelato, nell’occasione, dell’esistenza di “manovre” in atto in Prefettura in danno delle sue società, nonché nell’averlo rassicurato in vista di un’imminente convocazione presso la Guardia di finanza per rendere informazioni, dandogli altresì le istruzioni su come eventualmente rispondere, ed avergli, ancora, dato notizia dell’emissione di un provvedimento di archiviazione nei suoi confronti. Inoltre, a Corosu si fa carico di non essersi astenuto dal prendere parte alle indagini per l’applicazione dell’interdittiva antimafia alle imprese dei fratelli COGNOME.
Ebbene, quanto alla pronta risposta del ricorrente alla “convocazione” presso l’hotel, va osservato:
che essa può ragionevolmente reputarsi sintomatica di una pregiudiziale ed incondizionata disponibilità di costui a farsi carico delle necessità dei COGNOME, ma che quest’ultima, se è sufficiente per integrare una corruzione per l’esercizio della funzione, non basta perché possa ravvisarsi la fattispecie della corruzione “propria”, ai sensi del citato art. 319;
che, secondo quanto si legge in entrambe le sentenze di merito, della rivelazione delle “manovre” in atto in Prefettura verso le proprie aziende fa parola soltanto NOME COGNOME nelle sue dichiarazioni predibattimentali, che però come si è osservato nel paragrafo precedente – non sono utilizzabili come prova erga alios;
che non è dato di sapere in cosa siano consistiti le rassicurazioni ed i suggerimenti per le risposte da rendere alla polizia giudiziaria in occasione dell’imminente assunzione d’informazioni, emergendo la circostanza soltanto da un colloquio intercettato tra lo stesso COGNOME e suo fratello, nel quale il ricorrente comunque spiega che si trattava di un procedimento in cui COGNOME «non è lui implicato», che «non era niente di particolare», che egli lo aveva «tranquillizzato» e che gli aveva spiegato «come rispondere eventualmente» (pag. 91, sent. Tribunale): dati, questi, tuttavia perfettamente compatibili anche con l’ipotesi di un conforto soltanto di tipo tecnico, reso a titolosemplicemente amicale e, pertanto, legittimo;
che, infine, la notizia dell’intervenuta emissione di un provvedimento di archiviazione nei confronti del COGNOME costituisce il prodotto di un chiaro travisamento del dato probatorio compiuto dalla Corte d’appello, di cui, peraltro, si trae logica conferma dall’assenza di qualsiasi riferimento ad esso nella sentenza di primo grado; in effetti, leggendo per l’intero la trascrizione del relativo passo del colloquio (allegata al ricorso, e quindi suscettibile di disamina da parte di questa Corte), emerge nitidamente che il provvedimento di archiviazione aveva riguardato lo stesso COGNOME e non i COGNOME.
1.2.2. Rimane, dunque, da valutare la mancata astensione del ricorrente dalla partecipazione alle indagini finalizzate all’applicazione della interdittiva antimafia.
A ragionare per astratto, un tale dovere di astensione sarebbe stato ipotizzabile, e non sulla base dei soli principi di cui all’art. 97, Cost., valorizzati proposito dai Giudici del merito (potendosi perciò prescindere dalla disamina del tema riguardante la possibilità che il parametro di antidoverosità della condotta dell’agente pubblico possa essere rappresentato anche soltanto da quei precetti generali). È sufficiente richiamare, sul punto:
-l’art. 1348 del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (“Codice dell’ordinamento militare”), che impone ai militari di conformare il proprio comportamento nei confronti delle istituzioni democratiche “a principi di scrupolosa fedeltà alla Costituzione repubblicana”, e quindi al dovere d’imparzialità, di cui quello di astensione costituisce una delle tipiche forme di manifestazione;
-l’art. 722, d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (“Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare”), che impone al militare di «osservare scrupolosamente le norme in materia di tutela del segreto» e, in particolare, di «evitare la divulgazione di notizie attinenti al servizio che, anche se insignificanti, possono costituire materiale informativo», doveri che implicano di necessità un obbligo di astensione da attività istituzionali in conflitto d’interessi, anche soltanto potenziale;
-l’art. 7, d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 (“Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”), secondo cui “il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero (…) in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza”: norma, questa, che, sebbene non dettata specificamente per il personale militare, è applicabile anche ad esso, in ragione di quanto disposto dagli artt. 1, comma 2, e 2, comnna 2, dello stesso d.P.R., a tenore dei quali le norme contenute in quel testo normativo costituiscono principi di comportamento per le restanti categorie
di personale di cui all’art. 3, d.lgs. n. 165 del 2001 (tra cui, appunto, il personale militare), in quanto compatibili con le disposizioni dei rispettivi ordinamenti, e possono essere integrate e specificate – ma evidentemente non derogate – dai codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni ai sensi dell’art. 54, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 165 .
Vi sono, però, nello specifico, due aspetti che impediscono di giungere ad un giudizio di colpevolezza.
Il primo è di natura formale, poiché, a leggere attentamente l’imputazione, la partecipazione a quell’attività investigativa è stata contestata al Corosu non in quanto tale ed in contrasto con un suo obbligo di astensione, ma soltanto quale contegno funzionale alla rivelazione ai COGNOME di informazioni sui relativi esiti.
Il secondo, invece, attiene alla ricostruzione dei fatti operata in sentenza, da cui non emerge con certezza non soltanto se egli abbia effettivamente veicolato dette informazioni a quegli imprenditori (dato, questo, comunque non decisivo ai fini della sussistenza del reato, essendo sufficiente l’assunzione, da parte sua, di un serio ed effettivo impegno in tal senso), ma neppure – ed è quel che invece conta – quale sia stata l’attività istituzionale da lui effettivamente svolta o comunque, a lui delegata dai suoi superiori: vale a dire, in particolare, se si sia trattato di compiti puramente ricognitivi, di raccolta di dati formati aliunde, senza alcuna selezione od elaborazione degli stessi, e perciò di un’attività insuscettibile di condizionamento per effetto della sua comunanza d’interessi con i COGNOME e non tale, di conseguenza, da imporgli senza meno di astenersi.
1.2.3. Oltre che dalle specifiche condotte sin qui esaminate, la natura antidoverosa dell’attività compiuta dal COGNOME in favore dei COGNOME nella sua
qualità istituzionale è stata dedotta dalla Corte d’appello dal contenuto delle conversazioni intercettate tra lo stesso ricorrente ed i propri fratelli, nelle qual effettivamente il primo, a più riprese, afferma di aver «rischiato grosso grosso» per i suoi attuali coimputati, di essersi «messo in gioco» per loro, di averli “salvati”, e di aver rischiato di mettere «a spasso» la propria famiglia ed altre espressioni consimili, evocando violazioni fiscali da costoro compiute ma non accertate e spiegando di non poterne parlare per telefono (vds., più ampiamente, pagg. da 57 a 112, sent. Tribunale, e pag. 15, sentenza d’appello).
Si tratta, tuttavia, di affermazioni non soltanto rese da COGNOME in un contesto di acuta conflittualità ed in una condizione emotiva di profondo risentimento, ma soprattutto dai contenuti estremamente generici, che, in quanto tali, non permettono in alcun modo di ravvisare l’esistenza del sinallagma tra la “confessata” attività d’ufficio infedele ed una qualsiasi forma di remunerazione per la stessa, indispensabile per poter configurare una corruzione “propria”, ex art. 319 cod. pen..
1.2.4. Sulla base delle considerazioni che precedono, la condotta tenuta dal ricorrente dev’essere, dunque, riqualificata come delitto di corruzione per l’esercizio della funzione, previsto e punito dall’art. 318, cod. pen.: dal quale, tuttavia, quegli dev’essere prosciolto, trattandosi di reato estintosi per prescrizione.
I fatti, invero, risalgono al più tardi a settembre del 2014 ed essendo la prescrizione un istituto di diritto sostanziale (Corte cost., sentenza n. 393 del 23 novembre 2006), deve aversi riguardo alla più favorevole disciplina in vigore a quel momento.
Pertanto, in relazione alla misura della pena edittale, allora pari nel massimo a sei anni di reclusione, il termine di prescrizione è di sei anni, prorogato, per effetto di successive interruzioni, a sette anni e sei mesi, a decorrere dalla data di commissione del reato. Considerando, inoltre, che il relativo decorso, secondo quanto si legge nella sentenza impugnata, è rimasto sospeso – ai sensi dell’art. 159, comma 1, n. 3), cod. pen. – per un anno, cinque mesi e ventiquattro giorni complessivi, detto termine è spirato, al più tardi, nel settembre del 2023 e, dunque, già prima della pronuncia della sentenza impugnata, avvenuta il 25 gennaio 2024.
1.3. Nei confronti del Corosu, in conclusione, la sentenza impugnata dev’essere annullata senza rinvio, per l’intervenuta prescrizione del reato.
Rimane, di conseguenza, assorbita, perché all’evidenza priva di qualsiasi rilevanza, l’ultima sua doglianza, in tema di mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 323-bis, primo comma, cod. pen..
2. Ricorso COGNOME.
2.1. I primi due motivi, in tema di inutilizzabilità dei risultati de intercettazioni, non possono essere ammessi, non essendo stati proposti con l’atto d’appello ed implicando non soltanto delle valutazioni di stretto diritto, ma anche pregiudiziali accertamenti in fatto, preclusi in questa sede.
2.2. Quanto ai motivi dal terzo al sesto, con i quali si censura la qualificazione giuridica come corruzione “propria” dei fatti addebitati al COGNOME in concorso con COGNOME al capo A) dell’imputazione, valgano le considerazioni già rassegnate per quest’ultimo nel precedente paragrafo e che conducono ad una riqualificazione degli stessi come corruzione per l’esercizio della funzione (art. 321, rif. art. 318, cod. pen.) ed alla conseguente declaratoria di estinzione del reato per prescrizione (anche laddove questo si ritenga consumato nel 2014, come correttamente ha fatto la sentenza impugnata: in effetti, dalle conversazioni intercettate emerge che anche in quel periodo, in cui la società dei COGNOMEEmilio era ormai decotta, i fratelli di Corosu siano stati tra i dipendenti comunque destinatari di un trattamento privilegiato ed altresì che, ancora in quel momento temporale, non fosse venuta meno la disponibilità di Corosu aiutare quegli imprenditori).
Restano solo da aggiungere un paio di considerazioni.
La prima consiste nel fatto che, rispetto a quanto s’è visto per Corosu, la piattaforma probatoria relativa a NOME COGNOME si arricchisce delle sue dichiarazioni, contro di lui pienamente utilizzabili (art. 511, comma 2, cod. proc. pen.). E da tali dichiarazioni – come pure si è detto trattando della posizione di quel concorrente – emergerebbe una delle condotte antidoverose di quest’ultimo enucleate dai giudici d’appello, ovvero la rivelazione delle “manovre” in atto in Prefettura verso le aziende del COGNOME.
Tuttavia – al di là della possibilità o meno di una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto per i singoli coautori, nel caso, come questo, di un differente quadro probatorio utilizzabile per ciascuno di essi – è sufficiente osservare che, dall’esposizione dei fatti contenuta in sentenza, non è possibile comunque apprezzare quella relazione sinallagmatica tra atto antidoveroso e remunerazione del pubblico agente, necessaria per la configurabilità del delitto di cui al citato art. 319.
Per altro verso, diversamente da quanto ipotizzato in via alternativa con il ricorso, deve escludersi che al COGNOME possa ascriversi semplicemente un’istigazione alla corruzione, ai sensi dell’art. 322, quarto comma, cod. pen.: da un canto, infatti, l’assunto difensivo muove dal presupposto di una condotta più o meno condizionante tenuta dal COGNOME verso quegli imprenditori, che però non trova riscontro nella ricostruzione degli accadimenti compiuta in sentenza, non sindacabile in questa sede; dall’altro, l’istigazione alla corruzione presuppone che
l’utilità chiesta o sollecitata al privato dal pubblico ufficiale non venga da quest’ultimo conseguita, mentre, nel caso specifico, Corosu ha ottenuto la contropartita pretesa o, comunque, una utilità economicamente apprezzabile, quale il trattamento economico privilegiato riservato ai propri fratelli.
2.3. A conclusioni analoghe deve pervenirsi in relazione ai fatti commessi dal COGNOME in concorso con suo fratello NOME ed il pubblico funzionario COGNOME, rubricati al capo B) ed oggetto dei motivi di ricorso dal settimo all’undicesimo.
2.3.1. La sentenza impugnata, con particolare riferimento all’unico fatto contrario ai doveri istituzionali specificamente addebitato a COGNOME e posto a fondamento della sua condanna, vale a dire la consegna ad NOME COGNOME della copia di un esposto pervenuto in Prefettura nei confronti delle aziende di costui e di suo fratello, non è stata in grado neppure di ricostruire con precisione cosa sia realmente accaduto, indicando il pubblico ufficiale corrotto nello stesso COGNOME o, in alternativa, in un terzo funzionario della Prefettura rimasto ignoto, che a costui avrebbe passato le informazioni e la copia dell’esposto da lui poi girati a COGNOME.
Dimentica, però, la Corte d’appello di rilevare che, nel caso in cui si fosse verificata quella che essa definisce una «triangolazione» con l’ignoto pubblico ufficiale terzo, quest’ultimo non risulta aver ricevuto alcuna remunerazione, invece indispensabile per potersene ravvisare l’avvenuta corruzione (indipendentemente dall’accertamento della sua identità, questo sì, non necessario). Certo, in linea puramente teorica, la remunerazione per il funzionario terzo potrebbe essere integrata anche da un vantaggio direttamente attribuito ad un soggetto diverso da lui (in questo caso, al COGNOME ed a suo figlio), qualora possa comunque rilevarsi un interesse del primo a tale prestazione, ancorché indiretto e mediato. Ma una tale eventualità, obiettivamente meno probabile e consueta, avrebbe dovuto essere compiutamente illustrata con una puntuale spiegazione, che invece manca del tutto nella motivazione della sentenza impugnata.
2.3.2. In realtà, da quest’ultima emergono, piuttosto, elementi sufficienti per circoscrivere il rapporto corruttivo tra COGNOME e i COGNOME, laddove si consideri, per un verso, che, in tema di corruzione, è sufficiente che l’atto oggetto del mercimonio rientri nella sfera anche solo d’influenza dell’ufficio cui appartiene il soggetto corrotto, di modo che, in relazione ad esso, questi possa esercitare una qualche forma di ingerenza, sia pur di mero fatto (così, tra molte altre, Sez. 6, n. 1245 del 2023, dep. 2024, COGNOME, cit.; Sez. 6, n. 17973 del 22/01/2019, COGNOME, Rv. 275935; Sez. 6, n. 23355 del 26/02/2016, D., Rv. 267060); e, per l’altro, che risulta ampiamente illustrato in sentenza come COGNOME, al di là del suo inquadramento formale in un diverso ufficio, avesse concreta possibilità di operare di fatto all’interno degli uffici della Prefettura di Napoli, al punto da essere stato
oggetto di un espresso richiamo, per tale sua attività, da parte dei vertici di quell’istituzione (vds. pag. 9, sent. appello, e pagg. 121 ss., sent. Tribunale).
Ma, anche nel caso del COGNOME, la Corte d’appello non riesce ad definire con la necessaria puntualità l’esistenza di una relazione sinallagmatica tra la consegna di tale esposto, la rivelazione dei relativi contenuti ai COGNOME o la comunicazione a questi di altre notizie riservate e, dall’altro lato, le prestazioni economiche di favore da costoro rese ai figli di quel funzionario, descrivendo, in realtà, un contesto di reciproca disponibilità, sviluppatosi lungo un arco temporale di vari anni e rappresentativo, piuttosto, di uno stabile asservimento di quel pubblico funzionario agli interessi di tali imprenditori e da questi ultimi genericamente ricompensato con le varie “attenzioni” riservate, nel tempo, verso suo figlio.
2.3.3. Anche il rapporto intercorso tra i fratelli COGNOME e COGNOME, dunque, dev’essere inquadrato all’interno della fattispecie della corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318, cod. pen.). Ed anche tale reato, poiché sostanzialmente coevo a quello compiuto dal ricorrente in concorso con Corosu, dev’essere dichiarato estinto per prescrizione, maturata già al momento della pronuncia della sentenza d’appello.
Quest’ultima, di conseguenza, dev’essere annullata senza rinvio.
2.4. In ragione di tanto, rimangono privi di qualsiasi rilevanza i motivi di ricorso che vanno dal quattordicesimo al diciassettesimo, riguardando essi il trattamento sanzionatorio. Sugli stessi, dunque, non v’è motivo di soffermarsi.
2.5. Conservano rilevanza, invece, ma vanno dichiarate inammissibili, le doglianze riguardanti il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio, rassegnate con i dodicesimo ed il tredicesimo motivo d’impugnazione.
Dal relativo addebito, il ricorrente, suo fratello NOME e COGNOME sono stati prosciolti in appello, in ragione della sopraggiunta estinzione del reato per prescrizione. Il ricorso, però, invoca la censura della relativa sentenza, deducendo l’esistenza degli estremi per una pronuncia assolutoria nel merito, sul presupposto, essenzialmente, della già avvenuta diffusione della notizia della presentazione dell’esposto contro le aziende dei COGNOME, loro rivelata dal COGNOME.
Si tratta, tuttavia, di un assunto manifestamente infondato.
In presenza di una causa di estinzione del reato, com’è noto, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione, a norma dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato o la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione da effettuare appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione ictu ocu/i, che a quello di “apprezzamento” e sia, quindi, incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento.
Pertanto, al di fuori di tale ipotesi, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi motivazione della sentenza impugnata, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, COGNOME, Rv. 244275).
Nel caso di specie, una siffatta evidenza immediata di non colpevolezza è ben lungi dal poter essere rilevata, costituendo una semplice ipotesi difensiva indimostrata quella per cui la questione di cui all’esposto fosse di pubblico dominio, ma soprattutto essendo indiscusso che non fosse nota l’avvenuta presentazione in Prefettura di un formale esposto, della quale i COGNOME hanno appreso soltanto da COGNOME (circostanza confermata dallo stesso NOME COGNOME durante la fase delle indagini in sede d’interrogatorio, perfettamente utilizzabile contra se, oltre che nitidamente risultante dalle conversazioni degli imputati oggetto d’intercettazione: vds. pag. 16 s., sent.).
3. Ricorso COGNOMENOMECOGNOME
3.1. Per il primo motivo proposto da questo imputato con il suo ricorso, con cui egli lamenta l’inutilizzabilità nei suoi confronti delle dichiarazio predibattimentali rese da suo fratello NOME, valgano le considerazioni già rassegnate per l’analoga doglianza proposta dal coimputato COGNOME (retro, § 1.1).
A prescindere dal fatto che – stando alla sintesi dei motivi d’appello contenuta nella sentenza impugnata e non censurata dal ricorso – tale doglianza non risulta essere stata proposta in appello, non potendo quindi ciò avvenire per la prima volta in questa sede (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.), è sufficiente osservare che il ricorso si limita a dedurre il vizio, ma tace completamente sulle eventuali ricadute di esso ai fini della decisione (c.d. “prova di resistenza”). E, ove si consideri che il ricorrente ha reso interrogatorio in fase d’indagini, ammettendo circostanze a lui sfavorevoli e rilevanti (pagg. 9, 16 s., sent.), ma soprattutto laddove si leggano le nitide conversazioni intercettate tra tutti i protagonisti dei fatti di causa, risultano evidenti la carenza di specificità del motivo di ricorso e, quindi, la sua inammissibilità.
3.2. Il secondo motivo di ricorso, con cui si contesta la configurabilità della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, non pone questioni problematiche ulteriori rispetto a quelle esaminate trattando dei precedenti ricorsi, oltre alle quali vengono rassegnate essenzialmente inammissibili censure di merito, poiché attinenti alla rilevanza di circostanze di fatto emerse in istruttoria o alla valutazione di risultanze probatorie compiuta in sentenza.
Anche per questo ricorrente, dunque, gli indiscutibili rapporti corruttivi con COGNOME e COGNOME vanno ricondotti nel perimetro segnato dall’art. 318 cod. pen.,
con conseguente estinzione del reato per prescrizione. Ed anche per lui, allora, la sentenza impugnata dev’essere annullata senza rinvio in parte qua.
3.3. Non così, invece, per quel che riguarda il delitto di cui all’art. 326, doc. pen., contestato al COGNOME in concorso con il proprio fratello NOME e con COGNOME e dichiarato estinto per prescrizione già dai giudici d’appello.
Per tale capo della decisione, è sufficiente rinviare a quanto già rilevato trattando dell’analogo motivo proposto da suo fratello (retro, § 2.5), dovendo anche il suo ricorso essere dichiarato inammissibile in relazione ad esso.
4. Ricorso Guarino.
4.1. Pure questo imputato si duole, anzitutto, dell’utilizzazione a suo carico delle dichiarazioni predibattimentali di NOME COGNOME, in quanto avvenuta in violazione dell’art. 513, cod. proc. pen.. Ed anche per lui è sufficiente richiamare quanto già osservato per COGNOME e per NOME COGNOME (§§ 1.1 e 3.1.): ovvero la completa elusione della “prova di resistenza”. Prova, questa, veppiù necessaria in questo caso, in cui le conversazioni del ricorrente intercettate si presentano di solare eloquenza ed obiettivamente tali da offrire da sole la dimostrazione del patto corruttivo che lo legava ai COGNOME: aspetto sul quale, in effetti, il ricorso tace.
4.2. Quanto, poi, al delitto di corruzione, il ricorrente ne contesta la configurabilità sotto un duplice profilo, ovvero: a) l’inesistenza, per lui, di una remunerazione, in quanto l’assunzione del figlio alle dipendenze dei COGNOME sarebbe stata imposta dal Consiglio regionale e la promessa di pagamento degli stipendi sarebbe stata irrealizzabile, considerando la stato di decozione di quelle imprese; b) l’estraneità delle condotte oggetto d’addebito alle funzioni, ai poteri e comunque ai compiti ricollegabili al ruolo istituzionale da lui ricoperto.
Si tratta, in realtà, di censure di puro fatto ed essenzialmente ripetitive di valutazioni probatorie già disattese in sentenza con motivazione ampiamente persuasiva, con cui si dà conto, anzitutto, di come l’assunzione del figlio del COGNOME non sarebbe stata affatto obbligata per i COGNOME (pag. 24; per la verità, la sentenza – pagg. 9, 16 – valorizza in proposito anche le dichiarazioni di NOME COGNOME, secondo cui il fratello NOME gli aveva riferito che detta assunzione fosse stata, anzi, strumentale proprio ad ottenere i servigi del COGNOME: ma – come si è già detto – si tratta di affermazioni inutilizzabili verso quest’ultimo, in quant rese soltanto nella fase investigativa).
Quanto, poi, alla “irrealizzabilità” della promessa di pagamento degli stipendi, premesso che essa potrebbe incidere sulla configurabilità di un patto corruttivo soltanto qualora si presentasse espressiva della mancanza di serietà del relativo impegno, tuttavia nel caso specifico non prospettata neppure dalla difesa, va osservato che questa costituisce una pura asserzione difensiva, emergendo con
chiarezza, piuttosto, come i COGNOME disponessero di capacità economiche sufficienti a garantire, almeno ad alcuni dipendenti privilegiati, il pagamento delle retribuzioni: sul punto, risultano eloquenti, saldandosi tra loro, le conversazioni intercettate tra COGNOME ed i suoi fratelli, ampiamente riportate nella sentenza di primo grado (pagg. 57 – 112) e più sinteticamente richiamate da quella d’appello. Peraltro, è agevole rilevare, a conferma, che, se risulta incontroverso che il figlio di COGNOME non avesse ricevuto lo stipendio di ottobre 2014 (vds. pag. 130, sent. Tribunale, e pag. 9, sent. appello), non altrettanto può dirsi per quelli relativi ai mesi precedenti, in cui comunque la società già versava in condizioni economiche assai critiche.
Infine, sulle effettive capacità d’ingerenza del Guarino negli uffici della Prefettura, è sufficiente richiamare quanto già osservato sul punto, trattando del ricorso di NOME COGNOME (retro, § 2.3.2).
Piuttosto, anche per COGNOME non possono che rilevare le considerazioni già rassegnate per i suoi correi, emergendo limpidamente dalle sue conversazioni intercettate la stabile “messa a disposizione” per le necessità dei COGNOME, la sua pretesa, in corrispettivo, di un trattamento di favore del proprio figlio rispetto agli altri dipendenti di costoro, come pure la consegna dell’esposto da lui effettuata agli stessi. Ma, come già s’è detto per gli altri, ciò che invece non si rinviene nella decisione impugnata è una persuasiva dimostrazione della relazione sinallagmatica tra specifici comportamenti infedeli del ricorrente ed i favori riconosciuti dai fratell COGNOME a suo figlio, con la conseguenza della riqualificazione della sua condotta in quella di corruzione per l’esercizio della funzione e di una pronuncia di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per l’intervenuta prescrizione di tale reato.
4.3. Anche COGNOME infine, ha impugnato la sentenza d’appello nella parte in cui ne ha disposto il proscioglimento per estinzione del reato, anziché l’assoluzione, con riferimento al delitto di cui all’art. 326, cod. pen., contestatogli al capo B) della rubrica.
Ed anche per lui è sufficiente richiamare quanto già rilevato nell’esaminare l’analoga doglianza proposta da NOME COGNOME (retro, § 2.5).
5. Conclusioni.
Sulla base delle considerazioni che precedono, riqualificati gli episodi corruttivi come fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione, la sentenza impugnata dev’essere annullata senza rinvio per i relativi capi, per tutti gli imputati, perché i reato è estinto per prescrizione.
Dei ricorsi dei fratelli COGNOME e di COGNOME, invece, debbono essere dichiarati inammissibili i motivi riguardanti il proscioglimento dal reato di cui all’art. 326 cod.
pen., per manifesta infondatezza, e quelli attinenti al trattamento sanzionatorio, per sopravvenuta irrilevanza.
Risultando comunque accertata la penale illiceità delle condotte corruttive, sebbene diversamente qualificate, va confermata la condanna di COGNOME e dei fratelli COGNOME al risarcimento dei danni in favore della parte civile Ministero dell’economia e delle finanze, con il conseguente obbligo di tenere indenne la stessa dalle spese del presente giudizio, liquidate come da pedissequo dispositivo.
Non altrettanto dicasi per COGNOME non risultando costituita la parte civile anche nei suoi confronti.
P.Q.M.
Riqualificati i fatti ai sensi dell’art. 318, cod. pen., annulla senza rinvio l sentenza impugnata nei confronti di tutti i ricorrenti perché i reati sono estinti per prescrizione.
Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi di COGNOME Salvatore, COGNOME NOME e COGNOME Nicola.
Condanna, inoltre, COGNOME COGNOME, COGNOME Salvatore e COGNOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Ministero dell’economia e delle finanze, che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 18 aprile 2025.