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Corruzione per l’esercizio della funzione: la Cassazione

Un caso di corruzione per l’esercizio della funzione che ha coinvolto pubblici ufficiali e imprenditori. In cambio di posti di lavoro e pagamenti preferenziali per i loro parenti, un sottufficiale e un impiegato comunale hanno fornito favori e informazioni a due fratelli. La Corte di Cassazione ha riqualificato il reato da “corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio” a quello meno grave, poiché non è stato provato un atto illecito specifico, ma piuttosto un “asservimento” generale delle loro funzioni pubbliche. Di conseguenza, il reato è stato dichiarato estinto per prescrizione.

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Pubblicato il 30 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Corruzione per l’esercizio della funzione: La Cassazione Riqualifica il Reato e Dichiara la Prescrizione

Una recente sentenza della Corte di Cassazione interviene su un complesso caso di illeciti contro la Pubblica Amministrazione, offrendo chiarimenti cruciali sulla distinzione tra corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e la più grave fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.). La decisione sottolinea come un generico “asservimento” del pubblico ufficiale agli interessi privati, senza la prova di specifici atti illeciti, porti a una diversa qualificazione giuridica con importanti conseguenze, inclusa l’estinzione del reato per prescrizione.

I Fatti del Caso: Un Patto tra Pubblici Ufficiali e Imprenditori

La vicenda vedeva coinvolti un sottufficiale della Guardia di finanza e un impiegato comunale, accusati di aver messo le proprie funzioni a disposizione di due fratelli imprenditori. In cambio, i pubblici ufficiali avrebbero ottenuto l’assunzione di stretti congiunti presso un istituto di vigilanza privata gestito dagli imprenditori, oltre al pagamento preferenziale dei loro stipendi in un periodo in cui l’azienda era in grave difficoltà economica e non pagava gli altri dipendenti.

Secondo l’accusa, i pubblici ufficiali avrebbero fornito informazioni riservate, anticipato l’esito di procedure amministrative (come le interdittive antimafia) e offerto consigli su come comportarsi durante le indagini. Questo rapporto di reciproca disponibilità si sarebbe protratto per anni, creando un vero e proprio “patto corruttivo”.

Le Decisioni dei Giudici di Merito e la corruzione per l’esercizio della funzione

Sia in primo grado che in appello, gli imputati erano stati condannati per il reato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), la cosiddetta “corruzione propria”. I giudici di merito avevano ritenuto che lo stabile asservimento delle funzioni pubbliche agli interessi privati degli imprenditori integrasse la fattispecie più grave, considerando le condotte come palesemente antidoverose.

La Riqualificazione in Cassazione: Il Principio Decisivo

La Corte di Cassazione, accogliendo i ricorsi degli imputati, ha ribaltato la qualificazione giuridica dei fatti. I giudici supremi hanno stabilito che, per configurare il più grave reato di corruzione propria, non è sufficiente dimostrare una generica “messa a disposizione” o un “asservimento” della funzione pubblica. È invece necessario provare che tale asservimento si sia concretizzato nel compimento di uno o più atti specifici e contrari ai doveri d’ufficio.

Nel caso di specie, la Corte ha osservato che, sebbene fosse evidente la disponibilità dei pubblici ufficiali a favorire gli imprenditori, le prove non erano sufficienti a dimostrare con certezza la commissione di atti specificamente illeciti (come la rivelazione di segreti o l’influenza su procedimenti in modo illegittimo). Molte delle condotte, come fornire consigli generici, potevano essere interpretate come un semplice conforto amicale o tecnico, non necessariamente contrario ai doveri d’ufficio.

Di conseguenza, il comportamento è stato ricondotto alla fattispecie meno grave di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.), che punisce la “vendita” della funzione stessa, a prescindere dal compimento di un singolo atto contrario ai doveri.

L’Effetto Immediato: la Prescrizione del Reato

La riqualificazione del reato ha avuto una conseguenza decisiva: l’estinzione per prescrizione. Il reato di corruzione per l’esercizio della funzione, secondo la normativa vigente all’epoca dei fatti (anteriore al 2019), prevedeva un termine di prescrizione più breve rispetto alla corruzione propria. Tenuto conto del tempo trascorso dalla commissione dei fatti (risalenti al 2014 e anni precedenti), la Corte ha constatato che tale termine era ormai spirato, annullando la sentenza di condanna senza rinvio.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su un principio di diritto consolidato: la distinzione tra le due fattispecie di corruzione risiede nella natura dell’atto oggetto del mercimonio. Mentre l’art. 318 c.p. sanziona il pubblico ufficiale che accetta un compenso per un atto che rientra nelle sue competenze (pur inquinando l’imparzialità della sua azione), l’art. 319 c.p. richiede un quid pluris, ovvero che l’atto sia oggettivamente contrario a norme di legge o a doveri specifici dell’ufficio. La Cassazione ha ritenuto che nel processo non fosse emersa con la necessaria nitidezza la prova di questo elemento qualificante. La relazione sinallagmatica tra le utilità percepite (i posti di lavoro per i familiari) e le condotte dei pubblici ufficiali non era chiaramente collegata a un atto contrario ai doveri, ma piuttosto a una generale disponibilità a mettersi al servizio degli interessi privati. Questa situazione, pur essendo penalmente rilevante, rientra nel perimetro della fattispecie meno grave.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce l’importanza di una rigorosa prova del nesso tra la controprestazione e la specifica natura dell’atto del pubblico ufficiale. Per la condanna per il reato di corruzione propria non basta dimostrare un rapporto illecito e continuativo, ma è indispensabile individuare l’atto contrario ai doveri che ne è stato l’oggetto. La decisione ha implicazioni significative per i processi di corruzione, evidenziando come una diversa qualificazione giuridica possa determinare l’esito del giudizio, portando, come in questo caso, alla prescrizione del reato. Resta ferma la condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile, il Ministero dell’economia, poiché l’illiceità penale della condotta, sebbene riqualificata, è stata comunque accertata.

Qual è la differenza tra “corruzione per l’esercizio della funzione” e “corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio”?
La corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) si configura quando un pubblico ufficiale accetta un compenso per compiere un atto del proprio ufficio (un “asservimento” della sua funzione). La corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), più grave, richiede che il compenso sia dato per compiere un atto specificamente illegittimo o illecito.

Perché i reati di corruzione sono stati dichiarati estinti per prescrizione?
La Corte di Cassazione ha riqualificato il reato da quello più grave (art. 319 c.p.) a quello meno grave di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.). Quest’ultimo, secondo la legge applicabile all’epoca dei fatti, aveva un termine di prescrizione più breve. Calcolando il tempo trascorso, comprese le interruzioni e le sospensioni, tale termine era già scaduto prima della sentenza della Cassazione.

Uno stabile “asservimento” della funzione di un pubblico ufficiale a interessi privati integra sempre il reato di corruzione più grave?
No. Secondo la sentenza, uno stabile asservimento della funzione a interessi privati, anche con episodi di atti conformi e non contrari ai doveri, configura il reato di corruzione per l’esercizio della funzione. Per integrare il reato più grave (art. 319 c.p.), è necessario che tale “asservimento” si traduca nel compimento in concreto di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio. La sola generica disponibilità non è sufficiente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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