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Corruzione e WhatsApp: quando i messaggi sono prova

Un funzionario pubblico, accusato di corruzione per aver favorito il rilascio di visti, ha contestato l’uso delle sue chat WhatsApp come prova. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, stabilendo che i messaggi digitali rientrano nel concetto di “corrispondenza” e possono essere legittimamente sequestrati. La Corte ha inoltre applicato la “prova di resistenza”, ritenendo che le altre prove raccolte, come testimonianze e documenti, fossero sufficienti a sostenere l’accusa di corruzione e WhatsApp anche senza le chat.

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Pubblicato il 25 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Corruzione e WhatsApp: La Cassazione convalida l’uso delle chat come prova

In un’era dominata dalla comunicazione digitale, la questione dell’utilizzabilità processuale dei messaggi scambiati su piattaforme come WhatsApp è sempre più centrale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta un caso di corruzione e WhatsApp, fornendo chiarimenti fondamentali su quando e come le chat private possano diventare prove decisive in un’indagine penale. La decisione analizza il delicato equilibrio tra il diritto alla segretezza della corrispondenza e le esigenze di giustizia, confermando un orientamento ormai consolidato.

I fatti del caso

La vicenda riguarda un funzionario impiegato presso un’Ambasciata italiana all’estero, responsabile dell’ufficio per il rilascio dei visti d’ingresso in Italia. Secondo l’accusa, tra il 2019 e il 2023, il funzionario avrebbe ricevuto denaro e altri vantaggi da un complice per accelerare e favorire le pratiche di visto di cittadini stranieri. A seguito delle indagini, il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto per lui gli arresti domiciliari, misura confermata anche dal Tribunale del riesame.

L’impianto accusatorio si basava su diverse fonti di prova, tra cui spiccavano i messaggi scambiati tramite un’app di messaggistica istantanea (WhatsApp) tra l’indagato e il suo presunto complice. La difesa ha impugnato l’ordinanza del Tribunale del riesame davanti alla Corte di Cassazione, sostenendo l’inutilizzabilità di tali messaggi.

Le questioni legali sollevate

La difesa ha articolato il ricorso su due punti principali:

1. I messaggi come ‘corrispondenza’: Secondo il ricorrente, le chat di WhatsApp costituiscono corrispondenza protetta costituzionalmente. Pertanto, il loro sequestro avrebbe richiesto un decreto specificamente motivato. Il decreto di perquisizione e sequestro, che menzionava genericamente ‘missive’ e ‘mails’, non sarebbe stato sufficiente a legittimare l’acquisizione delle chat.
2. La necessità di un controllo preventivo del giudice: In un secondo momento, la difesa ha aggiunto un nuovo motivo, basato su recenti sentenze europee e nazionali, sostenendo che l’accesso ai dati di un dispositivo informatico richieda il controllo preventivo di un giudice terzo, e non del solo Pubblico Ministero, che è parte del processo.

L’analisi della Cassazione sul caso di corruzione e WhatsApp

La Corte di Cassazione ha respinto integralmente il ricorso, ritenendolo infondato e, in parte, inammissibile. Le motivazioni della Corte offrono spunti cruciali sull’interpretazione delle norme processuali nell’era digitale.

L’interpretazione estensiva del concetto di ‘corrispondenza’

La Corte ha chiarito che il termine ‘corrispondenza’ ha un’accezione ampia. Richiamando sia l’art. 616 del codice penale sia la sentenza n. 170/2023 della Corte Costituzionale, i giudici hanno affermato che in questo concetto rientra ‘ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate’.

Di conseguenza, e-mail, SMS e messaggi WhatsApp sono considerati ‘versioni contemporanee della corrispondenza epistolare e telegrafica’ e rientrano a pieno titolo nella tutela dell’art. 15 della Costituzione. Pertanto, un decreto di sequestro che menziona ‘missive’ e ‘mails’ è da intendersi riferito a qualsiasi forma di comunicazione a distanza, inclusa quella tramite app di messaggistica.

Il superamento della ‘prova di resistenza’

Un punto chiave della sentenza riguarda la cosiddetta ‘prova di resistenza’. La Corte ha osservato che, anche se si fosse voluta considerare illegittima l’acquisizione delle chat, il ricorso non sarebbe stato comunque accolto. L’impianto accusatorio, infatti, non si basava esclusivamente sui messaggi, ma anche su:

* Informazioni testimoniali qualificate
* Accertamenti patrimoniali
* Dati documentali

Il ricorrente, nel suo ricorso, non ha spiegato perché l’esclusione delle chat avrebbe fatto crollare l’intero quadro indiziario. In altre parole, le prove restanti ‘resistevano’ e continuavano a giustificare la misura cautelare. Questo silenzio della difesa ha reso il motivo di ricorso generico e inefficace.

L’inammissibilità del nuovo motivo di ricorso

Infine, la Corte ha dichiarato inammissibile il motivo aggiunto relativo alla necessità di un controllo preventivo del giudice. Tale censura è stata ritenuta ‘nuova ed eccentrica’ rispetto a quella originaria, introducendo una causa di invalidità completamente diversa e violando le regole procedurali che limitano la possibilità di presentare nuovi motivi in Cassazione. Anche per questo punto, la Corte ha ribadito che la difesa non aveva superato l’ostacolo della ‘prova di resistenza’.

Le motivazioni

La Corte ha motivato la sua decisione sulla base di un’interpretazione evolutiva delle norme, adattandole alla realtà tecnologica. Ha stabilito che il concetto di ‘corrispondenza’ non può essere ancorato a strumenti superati, ma deve abbracciare tutte le forme di comunicazione privata a distanza. Inoltre, ha riaffermato l’importanza del principio della ‘prova di resistenza’, un filtro logico che impedisce di annullare provvedimenti basati su un solido quadro probatorio solo per vizi procedurali su un singolo elemento, a meno che questo non sia l’unico e decisivo. Rigettando il ricorso, la Cassazione ha sottolineato che le garanzie difensive non possono essere utilizzate in modo strumentale per ignorare la consistenza complessiva delle prove raccolte.

Le conclusioni

La sentenza consolida un principio fondamentale: le comunicazioni digitali sono a tutti gli effetti ‘corrispondenza’ e sono tutelate, ma possono essere legittimamente acquisite come prova nel rispetto delle procedure. Il caso di corruzione e WhatsApp dimostra che, per contestare l’uso di una prova, non basta invocarne un vizio formale, ma è necessario dimostrare che la sua esclusione sarebbe decisiva per l’esito del giudizio. Un monito per le difese a costruire strategie complete che non si limitino a singoli aspetti procedurali, ma affrontino la totalità del materiale probatorio.

I messaggi WhatsApp possono essere usati come prova in un processo penale?
Sì, la Corte di Cassazione ha stabilito che i messaggi WhatsApp, così come e-mail e SMS, rientrano a pieno titolo nel concetto di “corrispondenza” e possono essere legalmente acquisiti e utilizzati come prova, a condizione che il sequestro sia autorizzato da un decreto di perquisizione e sequestro che ne faccia menzione, anche con termini generici come “missive”.

Cosa succede se una prova viene contestata ma ci sono altre prove a carico dell’indagato?
In questo caso si applica la cosiddetta “prova di resistenza”. La Corte valuta se le altre prove disponibili (come testimonianze, accertamenti patrimoniali, documenti) siano sufficienti a sostenere l’accusa anche senza la prova contestata. Se il quadro indiziario “resiste”, l’eventuale illegittimità della singola prova non è decisiva per annullare il provvedimento.

È necessario l’intervento preventivo di un giudice per sequestrare i dati di uno smartphone?
La difesa ha sollevato questa questione basandosi su una direttiva UE, ma la Corte ha dichiarato il motivo inammissibile perché sollevato per la prima volta in Cassazione. Pertanto, la sentenza non entra nel merito di questa specifica questione, ma la rigetta per ragioni procedurali, sottolineando inoltre che anche in questo caso valeva la “prova di resistenza”.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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