Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 33843 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 33843 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE, nato a Roma il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 10/03/2025 del Tribunale di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO generale NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME è indagato per il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319, cod. pen.).
Nella sua qualità, dapprima, di funzionario addetto e, poi, di responsabile dell’ufficio presso l’Ambasciata italiana a Dhaka, in Bangladesh, competente per il rilascio dei visti d’ingresso in Italia, avrebbe ricevuto denaro ed altre utilità dal coindagato COGNOME, tra il 2019 ed il 2023, al fine di seguire, accelerare e favorire le pratiche di rilascio dei visti in favore di cittadini bengalesi da costui segnalatigli.
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, con ordinanza dello scorso gennaio, gli ha applicato gli arresti domiciliari.
Il Tribunale di Roma, con l’ordinanza in epigrafe indicata, ha respinto la sua richiesta di riesame, confermando l’applicazione di quella misura cautelare.
Avverso quest’ultima decisione egli ricorre con atto del proprio difensore, deducendo l’inutilizzabilità dei GLYPH messaggi scambiati tramite l’applicativo “whatsapp”, sequestrati dagli inquirenti e valorizzati ai fini del quadro indiziario.
Deduce il ricorrente che detti messaggi costituiscono corrispondenza e che, pertanto, si sarebbero potuti sequestrare solo in forza di un decreto del Pubblico ministero o di un provvedimento del giudice, specificamente motivati anche con riferimento alla necessità di acquisire tali comunicazioni, in pregiudizio di un diritto di libertà oggetto di protezione costituzionale. Il riferimento a “missive” e “mails”, contenuto nel decreto di perquisizione e sequestro emesso, nel caso specifico, dal Pubblico ministero, non sarebbe sufficiente, dovendo intendersi limitato, in assenza dell’anzidetta motivazione specifica, a quel tipo di comunicazioni ormai divenute documento storico, secondo la distinzione operata dalla sentenza n. 170 del 2023 della Corte costituzionale.
Quindi, conclude il ricorso, dovendo ritenersi inutilizzabile tale materiale probatorio, verrebbe meno il ravvisato quadro di gravità indiziaria.
Il difensore ha depositato motivi nuovi, richiamando quanto di recente statuito da Sez. 6, n. 13585 del 01/04/2025, Campanile, Rv. 287867, ovvero che l’accesso ai dati contenuti in un dispositivo informatico a fini di indagine penale richiede, secondo la Direttiva UE 2016/680, come interpretata dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre 2024, in causa C-548/21, il controllo preventivo di un giudice o di un organo amministrativo indipendente: i quali, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, devono essere terzi rispetto all’organo richiedente l’accesso, con l’effetto che tale funzione non può essere esercitata dal Pubblico ministero, avendo lo stesso, a prescindere dal suo statuto di autonomia, natura di parte processuale.
Nello specifico, invece, un provvedimento del giudice manca, né potrebbe reputarsi soddisfacente – come invece prospetta tale decisione in via alternativa il controllo successivo operato dal Tribunale del riesame, richiedendo la Corte di giustizia che detta verifica sia preventiva. Inoltre, nel caso di specie, il Tribunale del riesame, per le ragioni esplicitate in ricorso, avrebbe di fatto omesso il dovuto controllo di legittimità sull’operato del Pubblico ministero.
Ha depositato requisitoria scritta il AVV_NOTAIO generale, chiedendo di rigettare il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il motivo di ricorso, se non addirittura inammissibile, in quanto sostanzialmente reiterativo del corrispondente motivo di riesame senza un confronto critico con la motivazione resa dal Tribunale per disattenderlo, è comunque infondato.
L’ordinanza impugnata spiega razionalmente come il decreto di perquisizione e sequestro emesso dal Pubblico ministero, avendo espressamente menzionato “missive” e “mails”, intendesse riferirsi a qualsiasi forma di corrispondenza, anche di natura digitale, non emergendo dal provvedimento, neppure implicitamente, alcuna ragione plausibile per escludere dal relativo ambito forme comunicative diversamente denominate, ma comunque rientranti nel genus della “corrispondenza”, secondo la definizione che ne dà lo stesso legislatore penale all’art. 616, cod. pen., ricomprendendovi «quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica, ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza».
In questo senso, del resto, soccorre la stessa sentenza n. 170 del 2023 della Corte costituzionale, sulla quale il ricorrente fonda la propria doglianza. Nella relativa motivazione, infatti, è detto esplicitamente che lo scambio di messaggi elettronici e-mail, sms, whatsapp e simili – rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti dell’art. 15, Cost., dal momento che «quello di “corrispondenza” è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», a prescindere «dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero». Pertanto – prosegue la Corte costituzionale «posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione whatsapp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi» e costituendo «versioni contemporanee della corrispondenza epistolare e telegrafica». E, ad ulteriore conforto, i giudici delle leggi richiamano anche la conforme giurisprudenza della Corte EDU, che senza incertezze riconduce sotto il cono di protezione dell’art. 8, CEDU, in cui pure si fa riferimento alla «corrispondenza» tout court, i messaggi di posta elettronica (Grande camera, sentenza 5 settembre 2017, Barbulescu c. Romania, 72; Sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, Copland c. Regno Unito, 41), gli sms (Sezione
quinta, sentenza 17 dicembre 2020, NOME c. Norvegia, 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet (Grande Camera, sentenza Barbulescu, cit., 74).
Per altro verso, l’ordinanza impugnata rileva come il compendio investigativo non consista esclusivamente nei messaggi whatsapp, bensì annoveri anche qualificate informazioni testimoniali, accertamenti patrimoniali e dati documentali, tali da giustificare un quadro di gravità indiziaria pur in assenza di quel comunicazioni, perciò sostenendo che l’eccezione dell’indagato comunque non supererebbe la necessaria “prova di resistenza”: e, sul punto, il ricorso rimane de tutto in silenzio.
Inammissibile, poi, è il motivo aggiunto, in tema di necessità del controllo preventivo di un giudice per l’accesso ai dati contenuti in un dispositivo informatic ai fini di un’indagine penale.
In primo luogo, infatti, tale censura risulta nuova ed eccentrica rispetto quella dedotta con il ricorso, prospettando una causa d’invalidità del medesimo dato probatorio ma per motivi completamente differenti e, perciò, incontrando lo sbarramento previsto dall’art. 585, comma 4, cod. proc. pen..
In ogni caso, però, con valenza assorbente anche rispetto a tale argomento, va osservato che, pure sotto il diverso aspetto in esame, rimane valida la considerazione sopra rassegnata in ordine alla c.d. “prova di resistenza”, poiché la difesa non spiega per quale ragione l’eventuale vizio dell’atto, con la conseguente esclusione dei risultati probatori in tesi invalidi od inutilizzabili, determinerebb venir meno del quadro di gravità indiziaria. Di qui, dunque, la genericità della doglianza.
L’impugnazione, in conclusione, dev’esser respinta, con conseguente condanna del proponente a sopportarne le spese (art. 616, cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 10 luglio 2025.