Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 35687 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 35687 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/04/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Monza il 03/10/1953;
NOMECOGNOME nato a Trezzo sull’Adda il 06/03/1958;
NOMECOGNOME nato a Milano il 18/12/1967;
RAGIONE_SOCIALE
avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 20/06/2023;
visti gli atti e la sentenza impugnata; esaminati i motivi dei ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
sentite le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto: relativamente alla posizione di COGNOME COGNOME la declaratoria di estinzione dei reati con conferma delle statuizioni civili e l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in ordine all’affermazione della solidarietà del risarcimento e per il sequestro; che i ricorsi proposti nell’interesse di NOME COGNOME e
NOME vengano dichiarati inammissibili; che il ricorso proposto nell’interesse di RAGIONE_SOCIALE venga rigettato;
sentito il difensore della Parte civile Comune di Milano, Avvocato NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi degli imputati, depositando conclusioni scritte e nota spese;
sentiti i difensori degli imputati, Avvocati NOME COGNOME per COGNOME NOME, NOME COGNOME anche in sostituzione di NOME COGNOME per NOME COGNOME, NOME COGNOME, per COGNOME NOMECOGNOME che hanno insistito per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi;
sentito il difensore di RAGIONE_SOCIALE, Avvocato NOME COGNOME anche in sostituzione dell’Avvocato NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Milano, con sentenza del 20 giugno 2023 (motivazione depositata il successivo 12 settembre), in riforma di quella di primo grado impugnata dalla Parte civile Comune di Milano, dagli imputati ora ricorrenti nonché dalla RAGIONE_SOCIALE, ha: a) dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME in relazione al reato di cui al capo V dell’imputazione (corruzione per l’esercizio della funzione) e nei confronti di NOME in relazione al reato sub capo U – limitatamente alle ipotesi di cui alle lettere A e B – (corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio) per essere i reati estinti per prescrizione, rideterminando in anni quattro di reclusione la pena nei confronti di quest’ultimo imputato in relazione alla residua ipotesi di cui alla lettera C di tale capo; b) revocato la confisca di euro 6.500 nei confronti di COGNOME; c) rideterminato la pena nei confronti di NOME in anni quattro di reclusione, previa applicazione delle già concesse attenuanti generiche nella massima estensione, in relazione all’imputazione di cui al capo W, in essa assorbito il reato sub capo X (due contestazioni di concussione); d) confermato nel resto la sentenza impugnata con le conseguenti statuizioni civili, anche in relaziona alla affermazione di responsabilità di RAGIONE_SOCIALE condannata alla sanzione di 100 quote da 300 euro ciascuna, oltre alla confisca del profitto per euro 115.000, in relazione all’illecito amministrativo dipendente da reato di cui al capo Y1 (reati
presupposti i capi F1, U e V, fatti di corruzione attiva, propria e per l’esercizio della funzione, commessi da COGNOME COGNOME direttore generale della società, giudicato separatamente).
In particolare, la penale responsabilità è stata affermata a carico di: COGNOME nella sua qualità di ingegnere, dirigente del Comune di Milano incaricato della direzione del settore tecnico che si occupava di edilizia patrimoniale e demaniale e incaricato della direzione del servizio edilizia scolastica, nonchè direttore del settore che aveva predisposto il progetto che avrebbe realizzato l’opera e componente della “commissione anomalie”; NOME COGNOME quale architetto del Comune di Milano facente parte della direzione centrale opere pubbliche e centrale unica appalti, responsabile dell’unità/servizio sociale progetti e inserito nel gruppo per la valutazione delle offerte anomale come esperto dell’analisi tecnica delle anomalie; NOME, titolare di posizione organizzativa presso la Direzione centrale settore tecnico scuole e strutture sociali del Comune di Milano e direttore dei lavori dell’appalto 69 aggiudicato alla società RAGIONE_SOCIALE
Avverso detta sentenza gli imputati COGNOME RAGIONE_SOCIALE nonché la RAGIONE_SOCIALE a mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto ricorsi nei quali deducono.
Lotumolo NOME dieci motivi.
4.1. Con il primo motivo si censura la sentenza di appello per violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla ritenuta infondatezza dell’eccezione di incompetenza per territorio del Tribunale di Milano, nonostante la sussistenza di connessione oggettiva con fattispecie “attraente” di competenza del Tribunale di Monza in virtù dell’astratta configurabilità della continuazione tra le analoghe, ma distinte, fattispecie di reato, risultando irrilevanti le scelte processuali del Pubblico ministero in ordine alle contestazioni operate nei confronti degli imputati.
4.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al rigetto dell’eccezione in ordine alla mancata messa a disposizione dell’indagato in sede di art. 415 bis cod. proc. pen. degli atti completi delle indagini, ragione per la quale si era richiesto il differimento dell’interrogatorio, differimento in modo illegittimo negato dal Pubblico
ministero, il che ha comportato nullità dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare e degli atti conseguenti.
4.3. Nel terzo motivo, il ricorrente eccepisce violazione di legge processuale (artt. 195, 502 e 507 cod. proc. pen.), in relazione al rigetto dell’eccezione di nullità relativa all’ordinanza del Tribunale che aveva respinto l’istanza di audizione di NOME COGNOME ai sensi dell’art. 195 cod. proc. pen.; ciò in quanto, a fronte dell’espressa richiesta formulata dalla difesa all’esordio del controesame del teste NOME COGNOME (all’udienza del 22 ottobre 2020) di sentire ex art. 195 cod. proc. pen. “tutti i testi di riferimento delle dichiarazioni dell’attuale dichiarante” (il COGNOME appunto), tra cui COGNOME, il Tribunale respingeva l’istanza rilevando che costui si trovava in precarie condizioni di salute e comunque si sarebbe verosimilmente avvalso della facoltà di non rispondere; motivazione illogica e illegittima atteso che nel caso in cui il teste si trovi in condizioni di salute tali da renderne impossibile l’esame in aula di udienza è predisposto il meccanismo di cui all’art. 502 cod. proc. pen. (esame a domicilio), deducendosi conseguentemente che – poiché la Corte territoriale non aveva proceduto a rinnovazione dell’istruzione dibattimentale disponendo l’esame del teste indicato – le dichiarazioni di COGNOME rese de relato sono inutilizzabili.
4.4. Il quarto motivo eccepisce nullità delle sentenze di merito per “violazione delle norme che governano l’utilizzo della prova orale”. E ciò in relazione all’esame di COGNOME (testimone assistito) e del maresciallo COGNOME (operante). In particolare, con riguardo a quest’ultimo si eccepisce che il Tribunale, nonostante all’esordio dell’esame avesse precisato che le valutazioni del teste non sarebbero state utilizzate, le ha invece ampiamente inserite nella motivazione, unitamente a riferimenti a dichiarazioni acquisite da altre persone.
4.4.1. Per quanto riguarda l’esame del teste assistito COGNOME, si deduce: a) difetto di genuinità, autonomia genetica e indipendenza delle dichiarazioni rese dal predetto che, tra l’altro, ha avuto modo, prima di deporre, di rileggere gli atti processuali, tra cui le intercettazioni, il che ha determinato la illegittim “preparazione” del testimone, resa evidente dal tenore delle risposte fornite in sede di controesame della difesa; b) illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta attendibilità di COGNOMEin ragione, tra l’altro, dell’evidente interesse de predetto ad accusare l’imputato per sminuire la propria responsabilità e a non rendere conto della sua consistente disponibilità di denaro e valori, chiaramente
eccedente il profitto dei reati per i quali è stata ritenuta la penale responsabilità dello stesso) e alla rilevanza probatoria dei riscontri indicati dai Giudici di merito (non potendo questi essere rappresentati da quanto riferito da COGNOME e COGNOME, poiché costoro hanno riportato solo quanto appreso dallo stesso COGNOME); c) mancanza di vaglio critico sul contenuto delle intercettazioni, che non sono state dai Giudici di merito sottoposte ad una effettiva verifica logica, avendo la Corte territoriale affermato in modo generico la correttezza delle valutazioni effettuate in merito dal Tribunale, senza specificare con riferimento alle singole imputazioni quali intercettazioni siano effettivamente rilevanti e non avendo assolto all’onere di confutare le censure difensive secondo cui non si poteva dedurre che gli interlocutori avessero raccontato la verità e che non avessero distorto, volutamente o meno, la verità; d) difetto di validità, quali elemento di riscontro a quanto riferito da COGNOME,: 1) delle dichiarazioni di COGNOME che nel corso della sua deposizione ha “affermato che non riusciva a distinguere i ricordi da quanto appreso dalla lettura degli atti processuali”; 2) del riferimento a quanto dichiarato da COGNOME e COGNOME in ordine ai quali si è operato l’illegittima inversione dell’onere probatorio, avendo per di più la Corte territoriale errato nel qualificare il primo come “assolto” mentre in realtà la sua posizione è stata archiviata.
4.5. In relazione alla mancata assoluzione nel merito per il capo E (corruzione) si eccepisce con il quinto motivo illogicità della motivazione della sentenza impugnata (peraltro contrastante con quanto argomentato in quella di primo grado) in ordine alla ritenuta sussistenza della corruzione, per la quale lo stesso COGNOME aveva affermato che il regalo del tablet all’imputato non aveva intenti corruttivi e comunque difetta la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato
4.6. In riferimento al capo P1 (turbativa d’asta) – anch’esso dichiarato prescritto – si eccepisce con il sesto motivo vizio di motivazione (denunciata come apparente) consistente nella mera riproduzione delle trascrizioni telefoniche e delle deposizioni dibattimentali, non rielaborate né sottoposte a valutazione critica, evidenziandosi altresì che il concorrente nel reato (COGNOME) era stato assolto con sentenza definitiva e non comprendendosi dunque come l’imputato possa da solo aver turbato l’asta
4.7. In ordine al capo V (corruzione per l’esercizio della funzione, per la quale è stata dichiarata la prescrizione) si deduce con il settimo motivo
violazione di legge e vizio della motivazione in riferimento all’affermazione di responsabilità fondata sulle dichiarazioni di COGNOME per le quali non si rinvengono riscontri.
4.8. Sempre in riferimento al capo V si eccepisce con l’ottavo motivo che la prescrizione del reato è maturata prima della pronuncia della sentenza di primo grado (di tal che dovevano essere in ogni caso revocate le statuizioni civili).
4.9. Nel nono motivo si deduce violazione di legge in relazione alla condanna civile per il capo V, in riferimento: a) alla richiesta esclusione della solidarietà, in ordine alla quale i Giudici di merito hanno errato nel ritenere la stessa operante, essendo stato nel presente procedimento condannato solo COGNOME e non avendo comunque la Corte di appello preso in esame la doglianza formulata; b) alla quantificazione del danno, atteso che per esso la Parte civile, Comune di Milano, risultava ristorata dai concorrenti nei reati giudicati separatamente.
4.10. Infine, con il decimo motivo si deduce omessa pronuncia della Corte di appello in ordine alla richiesta di revoca della confisca dei beni sequestrati all’appellante, atteso che da un lato per tale provvedimento è necessaria la condanna e, dall’altro, nelle indagini preliminari il sequestro delle monete è stato revocato.
Nell’interesse di NOME sono stati dedotti sette motivi.
5.1. Il primo motivo censura la sentenza di appello per violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla ritenuta attendibilità del correo COGNOME NOME e alla sussistenza di idonei riscontri alle dichiarazioni del predetto; eccezione formulata nei motivi di appello ma disattesa dalla Corte territoriale con affermazioni di natura “tautologica” che non hanno rilevato l’insufficienza logica delle propalazioni del dichiarante e l’insufficienza e contraddittorietà di quanto riferito da COGNOME e COGNOME erroneamente valutati come riscontri idonei a affermare la penale responsabilità
5.2. Il secondo, quarto e sesto motivo – tra loro correlati – riguardano il capo U (corruzione propria), sia in riferimento alle ipotesi A e B (per le quali la sentenza di appello ha dichiarato l’intervenuta prescrizione) che per quella sub lettera C, in ordine alla quale invece è stata confermata la condanna. Al riguardo, il ricorrente deduce vizio di motivazione della sentenza di appello in
ordine alla confermata responsabilità penale dell’imputato in quanto essa si fonda su mere “ipotesi” (formulate dal teste COGNOME) e nell’assenza di elementi idonei a dimostrare l’effettiva dazione delle somme in contestazione (euro 2.500 per ognuna di esse) non essendo sufficienti a tal fine le sole affermazioni del COGNOME che peraltro aveva un concreto interesse ad accusare NOME per “proteggere” altri pubblici funzionari (COGNOME e COGNOME). Inoltre, si eccepisce che, in modo apodittico, la Corte di appello ha ritenuto che le somme di denaro sequestrate presso l’abitazione del ricorrente avessero illecita provenienza, atteso che il predetto aveva un rilevante stipendio (circa 4.500 euro al mese), la di lui moglie lavorava e la famiglia godeva di ulteriori fonti di reddito e beni.
5.3. In relazione al capo di imputazione sub E (per la quale la sentenza di primo grado ha dichiarato la prescrizione), con il terzo motivo si deduce illogicità della motivazione della sentenza di appello che ha confermato la sussistenza della responsabilità dell’imputato (sia pur ai soli fini civili) in quanto non è emerso alcun elemento dal quale dedurre che il regalo dell’/pad, di valore contenuto, potesse essere relativo ad una condotta corruttiva.
5.4. In relazione al capo Fl si eccepisce l’illogicità della motivazione delle sentenze di merito che hanno ritenuto dimostrata la corruzione sulla base delle fatture relative ai lavori effettuati da una ditta presso l’abitazione della figlia de ricorrente e che sono stati ritenuti fatturati dalla RAGIONE_SOCIALE, mentre in realtà tali lavori sono stati svolti da una ditta (RAGIONE_SOCIALE) autonomamente individuata dall’imputato e pagati, non dalla RAGIONE_SOCIALE, ma dalla proprietaria dell’immobile locato alla figlia di NOME
5.5. Infine, viene dedotto vizio di motivazione della sentenza di appello in ordine: a) alla mancata concessione delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza – e non di sola equivalenza – rispetto all’aggravante; b) alla mancata concessione della circostanza ex art. 323 bis cod. pen.
NOME NOME ha formulato quattro motivi.
6.1. Con il primo motivo, si eccepisce la nullità della sentenza per omessa notifica del decreto di fissazione dell’udienza preliminare e del decreto che dispone il giudizio alla RAGIONE_SOCIALE, ritenuta erroneamente dalla Corte di appello mero danneggiato e non anche persona offesa del reato di concussione,
qualifica che alla stessa deve essere riconosciuta sulla base del capo di imputazione e di quanto emerso nel giudizio.
6.2. Nel secondo, articolato motivo si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni accusatorie di COGNOME nei confronti del ricorrente e all’assenza di idonei elementi di riscontro alle stesse. Ciò, in particolare, in ordine ai seguenti aspetti:
6.2.1. premesso che in relazione all’appalto n. 69 (nel cui ambito è contestata la concussione a carico dell’imputato) si è verificata la fattispecie di corruzione che vede come concorrente anche COGNOME Piero, titolare della ditta RAGIONE_SOCIALE, si rileva l’illogicità e contraddittorietà manifeste delle argomentazioni utilizzate per confermare la condanna e ciò in relazione: 1) al ruolo di COGNOME (che non aveva una funzione all’interno di SIVA e che non può essere stato “concusso”, non avendo pagato con soldi propri la “tangente” per un appalto che non era il suo); 2) alle contraddittorie dichiarazioni di questi circa i suoi rapporti con COGNOME – per aiutare il quale avrebbe “rinunciato” a un subappalto, per il quale a suo favore era previsto addirittura il 15% del valore dei lavori, misura pari al triplo dell’oggetto della presunta concussione – e con COGNOME, presso il quale avrebbe “interceduto” in favore della SIVA; 3) alla mancata precisazione di quali sarebbero state le “minacce” poste in essere dal ricorrente; 4) alla vicenda della consegna dell’orologio Rolex, erroneamente ritenuta “assorbita” nel capo W, mentre per essa (capo X) che è comunque relativa ad appalto diverso da quello n. 69, il ricorrente avrebbe dovuto essere assolto; 5) alla contraddittorietà tra le dichiarazioni rese COGNOME, COGNOME e COGNOME circa il ruolo di COGNOME in ordine all’orologio; Corte di Cassazione – copia non ufficiale
6.2.2. in relazione alla valenza quali “riscontri” attribuita alle dichiarazioni rese dai “soci occulti” di COGNOME, COGNOME e COGNOME, e di COGNOME, si evidenzia che esse sono tra loro contraddittorie, che quelle, de relato e la cui fonte diretta è sempre COGNOME, di COGNOME e COGNOME, sentiti ex art. 197 bis cod. proc. pen., sono state valutate come fossero dirette e provenienti da testimoni disinteressati; in ogni caso da esse non emerge alcun elemento che possa far ritenere dimostrata una condotta costrittiva, avendo Russo riferito che a fronte della somma COGNOME avrebbe “aiutato” la COGNOME nell’ottenimento e nella gestione dell’appalto, e avendo Russo dubitato che la somma di denaro in oggetto fosse effettivamente destinata al ricorrente e non anche trattenuta dal COGNOME; si evidenzia altresì la contraddittorietà tra quanto riferito dal COGNOME in ordine
all’acquisto e la finalizzazione dell’orologio (oggetto del capo Z) e le dichiarazioni di COGNOME e COGNOME il che rafforza la conclusione circa la inattendibilità di COGNOME, e si mette in rilievo che quanto riferito da COGNOME (che non può comunque essere qualificato “teste disinteressato”) è anch’esso de relato, cioè appreso sempre da COGNOME, non avendo egli mai parlato con COGNOME di tali questioni. In ogni caso COGNOME non è credibile, avendo questi sostenuto di aver concluso un accordo con COGNOME avente come valore il 15% dell’appalto a fronte della pretesa tangente del 5% (peraltro l’intervento di COGNOME come “direttore tecnico” non era legittimo in ragione della struttura dell’appalto);
6.2.3. si contesta altresì che le dichiarazioni del COGNOME siano state corroborate da “riscontri tecnici”, in quanto la documentazione bancaria indicata dalla Corte di appello non dimostra affatto la dazione delle somme ad Ascione; anzi l’esame di detta documentazione (e in particolare le “tempistiche” della liquidazione dei Sal e anche le somme negli stessi contenute) evidenzia l’illogicità di quanto sostenuto da COGNOME;
6.2.4. si eccepisce poi che dalle conversazioni tra COGNOME, COGNOME e COGNOME non emerge affatto la sussistenza della condotta concussiva. Peraltro la prima conversazione (25 novembre 2014) non dimostra alcunchè perché entrambi gli interlocutori (COGNOME e COGNOME) sapevano perfettamente che la conversazione era registrata e dunque si tratta di dichiarazioni non genuine né rilevanti; le altre due conversazioni – intercorse il 26 novembre 2014 e il 13 gennaio 2015 tra COGNOME e COGNOME – non evidenziano alcun atteggiamento intimidatorio da parte di quest’ultimo, trasparendo un rapporto confidenziale e amichevole tra i due nell’ambito del quale COGNOME non mostra alcun timore o soggezione; peraltro in dette conversazioni COGNOME non introduce alcun riferimento al denaro asseritamente versato ad Ascione;
6.2.5. si deduce ancora contraddittorietà della motivazione in ordine al ritenuto riscontro alle dichiarazioni di COGNOME rappresentato dalla intercettazione della conversazione tra questi e COGNOME il 27 ottobre 2011, evidenziando che del tutto irragionevole è ricavare dal contenuto della stessa (nella quale tra l’altro di faceva riferimento alla richiesta del DURC) elementi a carico di COGNOME, perché egli non poteva richiedere tale documento, e comunque anche da essa non emerge alcuna condotta costrittiva.
6.3. Nel terzo motivo si eccepisce, in subordine, l’erronea qualificazione giuridica del fatto in termini di concussione. Al riguardo si evidenzia,
riprendendo i rilievi già riportati, che – pur dando credito a quanto riferito da COGNOME – non è comunque emersa la sussistenza di condotte minacciose e costrittive da parte di COGNOME nei confronti di COGNOME che peraltro non era il titolare della impresa asseritamente concussa, ma una sorta di intermediario della pretesa concussiva, né l’imputazione a carico di COGNOME è compatibile con l’accertata esistenza delle condotte corruttive, riferite al medesimo appalto, a carico di COGNOME e COGNOME, in concorso con COGNOME, giudicato separatamente.
6.4. Nel sesto motivo, infine, si deduce violazione di legge in relazione all’affermazione di penale responsabilità del ricorrente in ordine al reato di concussione di cui al capo X; sul punto si evidenzia la contraddittorietà e illogicità delle argomentazioni della sentenza impugnata in riferimento: alla “causale” della presunta dazione dell’orologio (non si comprende se relativo all’appalto 69 o 23) e al ruolo di COGNOME (diverso nei due appalti); all’epoca in cui esso sarebbe stato consegnato; alla natura “nuova o usata del bene”; evidenziando altresì che il titolare e l’addetto della gioielleria ove esso sarebbe stato acquistato da COGNOME che poi l’avrebbe consegnato ad COGNOME hanno negato il fatto, che COGNOME ha potuto fornire alcuna prova concreta di tale acquisto, né l’oggetto è stato rinvenuto nel corso della perquisizione domiciliare a carico dell’imputato. A fronte di tali lacune si sarebbe dovuto procedere ad assolvere COGNOME dall’imputazione sub X, e non anche ritenere la stessa “assorbita” nel capo NOME
La RAGIONE_SOCIALE ha dedotto un unico motivo, declinato come violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata che ha ritenuto corretta l’ordinanza del Tribunale che ha respinto la richiesta della società di acquisire, ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. il modello di organizzazione, gestione e controllo dell’ente e non ha accolto l’istanza proposta in appello per la rinnovazione dell’istruzione finalizzata all’acquisizione di detto modello.
7.1. Sul punto si rileva che, da un lato, l’acquisizione dello stesso è elemento decisivo per escludere la responsabilità della RAGIONE_SOCIALE, avendo il Tribunale motivato circa la sussistenza di tutti i presupposti per l’attenuante ex art. 12, comma 2, lettera b) d.lgs. n. 231 (e in caso di idoneo modello la responsabilità sarebbe dunque venuta meno) e, dall’altro lato, avendo i primi Giudici disposto ex officio l’acquisizione del modello di altra società.
8. Con ordinanza emessa da questa Sezione all’udienza del 21 giugno 2024 (n. 932 del 2024) si è proceduto alla correzione dell’errore materiale presente nel dispositivo letto alla odierna udienza, nel quale la RAGIONE_SOCIALE il cui ricorso è stato rigettato, non era stata condannata al pagamento delle spese processuali, statuizione nel giudizio di Cassazione obbligatoria per legge e la cui omissione va quindi necessariamente emendata (Sez. 1, n. 48189 del 23/10/2013, Abate, Rv. 257320 – 01).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE è infondato.
1.1. Per quanto attiene alla dedotta violazione dell’art. 507 cod. proc. pen., va rilevato che «la mancata assunzione di una prova decisiva, quale motivo d’impugnazione ex art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione ai sensi dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., sicché il motivo non potrà essere validamente articolato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione» (Sez. 2, n. 884 del 22/11/2023 – dep. 2024, COGNOME, Rv. 285722 – 01) e che «l’esercizio del potere del giudice di assunzione di nuove prove a norma dell’art. 507 cod. proc. pen, sorretto da motivazione insufficiente non determina inutilizzabilità o invalidità, in quanto l’ordinamento processuale non prevede specifiche sanzioni» (Sez. 3, n. 16673 del 30/10/2017 – dep. 2018, Carta, Rv. 272817 01).
1.2. In ogni caso, la sentenza impugnata chiarisce che nel dibattimento di primo grado l’ente ha prodotto il modello organizzativo adottato dopo la commissione dei reati da parte dell’apicale COGNOME (valutato ai fini dell’applicazione dell’indicata circostanza attenuante ex art. 12 d.lgs. n. 231/2001), mentre l’ulteriore richiesta che aveva ad oggetto un diverso modello – in ipotesi precedente alla commissione dei reati presupposto e che, secondo la prospettazione difensiva, avrebbe dovuto portare all’assoluzione dell’ente non era rilevante a norma dell’art. 507 cod. proc. pen. difettando i caratteri di “novità” e “decisività” della prova richiesta (pag. 186 s.).
1.3. Rileva il Collegio che tale motivazione risulta adeguata, quantomeno in riferimento al profilo della necessaria “decisività” dell’integrazione probatoria, dal momento che il reato presupposto è stato commesso da soggetto in posizione apicale e in questi casi ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. c d.lgs. cit. per l’esenzione di responsabilità dell’ente è necessario “che le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione”, profilo, questo non dedotto in alcun modo dal ricorrente.
1.4. Per quanto poi concerne la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria, finalizzata all’acquisizione del modello asseritamente esistente ante delicto, è vero che la pronuncia di appello non fornisce un’autonoma argomentazione per il rigetto, ma essa è implicita nelle precedenti valutazioni in quanto «il rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità» (Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020 – dep. 2021, G., Rv. 280589 – 01).
Al rigetto del ricorso consegue, come per legge, la condanna dell’ente al pagamento delle spese processuali.
2. Il ricorso di COGNOME COGNOME è infondato.
2.1. Il primo motivo nel quale si eccepisce il difetto di competenza per territorio del Tribunale di Milano è infondato. A prescindere dalla sua “sinteticità”, che impedisce di comprendere appieno gli estremi della questione (ricavabili dalla sentenza impugnata: pag. 23/25), va rilevato che i giudici di merito hanno respinto l’eccezione di incompetenza territoriale a favore del Tribunale di Monza sollevata in riferimento alla connessione della resiudicanda con il delitto di cui al capo O – corruzione aggravata – per il quale è stata disposta la trasmissione degli atti a Monza. In particolare. la Corte territoriale ha – in modo non illogico – escluso che tra tale reato e le altre imputazioni ascritte a Lotumulo fosse ravvisabile il nesso di cui all’art. 12, comma 3, cod. proc. pen., dal momento che non risulta decisivo il fatto che tutti i reati contestati al predetto (oltre a quello sub O, altre due corruzioni – capi E e V e due turbative d’asta – capo Pi – ) fossero relativi alla medesima gara d’appalto, atteso che questa comprendeva cinque appalti che avevano riguardato diversi imprenditori e diversi pubblici ufficiali e considerato che non
avendo il Pubblico ministero contestato la continuazione, questa non era ravvisabile dal Tribunale nella fase iniziale del processo, cioè nell’esame delle questioni preliminari e sulla base del solo capo di imputazione.
2.1.1. Né risulta perspicuo il riferimento del ricorrente a Sez. 3, n. 29519 del 10/05/2019, COGNOME, Rv. 276592 – 01, secondo cui «ai fini della sussistenza di un’ipotesi di continuazione idonea a determinare lo spostamento della competenza per connessione ex art. 12, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., è sufficiente l’astratta configurabilità – sulla base di elementi plausibili del vincolo della medesimezza del disegno criminoso tra i reati contestati, essendo rimessa alla sentenza ogni valutazione circa l’effettiva esistenza di detto vincolo; conseguentemente, rispetto alla decisione sulla competenza, è irrilevante l’eventuale mancata contestazione della continuazione nei capi d’imputazione enunciati nel decreto che dispone il giudizio (Sez. 1, n. 17458 del 30/01/2018 – dep. 18/04/2018, Confl. comp. in proc. COGNOME, Rv. 273129)».
In quel caso, infatti, il giudice aveva ritenuto sussistente il vincolo della continuazione – evidentemente emergente dagli atti del fascicolo del dibattimento – la cui esistenza il ricorrente afferma in modo apodittico senza indicare concreti elementi che la possano dimostrare.
2.2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso nel quale si contesta la violazione dell’art. 415 bis cod. proc. pen. La Corte di appello ha rigettato l’eccezione rilevando, da un lato, che l’indagato si sarebbe dovuto comunque presentare all’interrogatorio, magari facendo rilevare la mancata ostensione di tutti gli atti delle indagini e non anche chiedere un differimento a soli due giorni dalla data fissata per l’incombente, e, dall’altro lato, che COGNOME era comunque a conoscenza di detti atti, che gli erano stati resi disponibili in esito all’applicazione della misura cautelare.
A prescindere da detta motivazione, è comunque pacifico che l’omesso deposito di atti dell’indagine preliminare, contestualmente alla notifica dell’avviso di conclusione di cui all’art. 415 bis cod. proc. pen., non comporta la nullità della successiva richiesta di rinvio a giudizio e del conseguente decreto che dispone il giudizio, ma, eventualmente, può determinare l’inutilizzabilità degli atti non depositati (così, ex multis, Sez. 2, n. 5408 del 20/10/2020 -dep. 2021, Possente, Rv. 280646 – 01); profilo, questo, non dedotto dal ricorrente.
2.3. Il terzo motivo è anch’esso infondato. Dalla pronuncia di appello emerge che l’imputato più che dolersi del mancato esame del COGNOME (ipoteticamente in violazione dell’art. 195 cod. proc. pen.) volesse ottenere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 comma 3 cod. proc. pen., rinnovazione respinta con motivazione non illogica. Sotto altro aspetto, la sentenza impugnata (pag. 28 s.) dà conto che altri mezzi istruttori (e in particolare la deposizione dell’operante COGNOME) “consentivano di ricostruire perfettamente il rapporto tra COGNOME e NOME COGNOME, all’epoca dei fatti direttore generale della RAGIONE_SOCIALE, società che si era aggiudicata numerosi appalti dal Comune di Milano”, di tal che non emerge neppure la effettiva rilevanza decisiva dell’eventuale esame del COGNOME.
2.4. Infondato è pure il quarto motivo del ricorso, relativo agli esami del teste operante, COGNOME, e di COGNOME, imputato di reati connessi per i quali aveva “patteggiato”.
2.4.1. Per quanto riguarda il teste COGNOME, le doglianze del ricorrente, oltre ad essere generiche, non si confrontano adeguatamente con le argomentazioni della sentenza impugnata che ha richiamato l’orientamento di legittimità secondo cui «in linea con la declinazione ermeneutica tracciata dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 36747 del 28/05/2003 (Torcasio e altro, Rv. 225466), l’art. 195, comma 4, cod. proc. pen. vieta la testimonianza dell’operante di polizia sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b), mentre gli «altri casi,» per i quali l’art. 195, comma 4, cod. proc. pen. ne legittima la deposizione, si riferiscono alle ipotesi in cui dichiarazioni di contenuto narrativo siano state rese da terzi e percepite dall’operante «al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime», in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un «dialogo tra teste e ufficiale o agente di p.g., ciascuno nella propria qualità» (frasi pronunciate dalla persona offesa o da altri soggetti presenti al fatto, nell’immediatezza dell’episodio criminoso; dichiarazioni percepite nel corso di attività investigative tipiche – quali perquisizioni, accertamenti su luoghi – o atipiche – quali appostamenti, pedinamenti, ecc.) (Sez. 1, n.15760 del 20/01/2017, Rv. 269574, Sez. 1, n. 41090 del 04/07/2012, Rv. 253374); non ravvisandosi – in siffatte ipotesi – il concreto rischio di elusione delle garanzie processuali e costituzionali (Sez. 5, n.39800 del 09/06/2017 Rv. 270880)» (da
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ultimo, Sez. 5, n. 40892 del 28/09/2022, Castellino). Inoltre, questa Corte ha già avuto modo di precisare che nell’ambito della deposizione resa dall’appartenente alla polizia giudiziaria che ha coordinato o comunque partecipato alle indagini non viola il divieto di testimonianza indiretta previsto dall’art. 195, comma quarto, cod. proc. pen. la deposizione di ufficiale o agente di polizia giudiziaria che riferisca non in merito a dichiarazioni di terzi, ma sulle attività di indagine svolte da altri ufficiali o agenti nello stesso contesto investigativo (così, Sez. 3, n. 6116 del 14/01/2016, COGNOME, Rv. 266284 01).
2.5. Anche le censure mosse alle dichiarazioni rese da COGNOME non colgono nel segno. L’eccezione relativa al fatto che questi sarebbe arrivato all’esame “preparato” avendo riletto gli atti delle indagini risulta del tutto generica e non tiene conto della circostanza (affermata dallo stesso ricorrente) che la lettura degli atti di indagine da parte del COGNOME è dipesa dalla circostanza che il predetto è stato sottoposto a misura cautelare il che ha determinato la discovery degli elementi indiziari a carico. Inoltre, tutti i rilievi critici – indicati come moti appello e ora reiterati nel ricorso – sono stati ampiamente esaminati e superati dalla sentenza impugnata con motivazione niente affatto illogica (pag. 44 ss.) ove si evidenzia, tra l’altro, che “la chiamata di correità, resa dopo l’arresto, è intervenuta dopo che le intercettazioni telefoniche e le altre attività di indagine, durate ben 15 mesi, avevano già disvelato i fatti illeciti in contestazione ed è stata poi riscontrata anche dai successivi esiti investigativi compiuti dopo l’arresto di COGNOME“. Inoltre, si dà atto che “il Tribunale escludeva l’autonomia delle dichiarazioni di COGNOME, COGNOME e COGNOME quando questi riferivano solo quello che avevano appreso da COGNOME, proprio per evitare la circolarità della prova” (pag. 46). Le doglianze in sede di legittimità risultano dunque meramente reiterative e palesemente infondate. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Infondato è altresì il profilo relativo alle intercettazioni di conversazioni. Anche in questo caso, il ricorrente reitera le doglianze oggetto dell’appello ma sul punto la sentenza impugnata ha fornito adeguata risposta (pag. 39 ss.), evidenziando che dalle intercettazioni è emersa la sussistenza di una sorta di “cartello” di Pubblici ufficiali corrotti, nel cui ambito rivestono ruolo centrale COGNOME e COGNOME, con specifica indicazione dei ruoli e degli accordi illeciti dei predetti. Inoltre, i Giudici di merito hanno fatto buon governo del principio secondo cui «il contenuto di intercettazioni telefoniche captate fra terzi, dalle
quali emergano elementi di accusa nei confronti dell’indagato, può costituire fonte diretta di prova della sua colpevolezza senza necessità di riscontro ai sensi dell’art. 192 comma terzo, cod. proc. pen., fatto salvo l’obbligo del giudice di valutare il significato delle conversazioni intercettate secondo criteri di linearità logica» (Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, COGNOME, Rv. 268414 – 01). La Corte territoriale precisa, infatti, che il Tribunale ha esaminato il contenuto di intercettazioni alle quali non aveva partecipato l’imputato ma nelle quali gli interlocutori avevano parlato di lui, quale indizio da valutare ai sensi dell’art. 192 comma 2 cod. proc. pen., correttamente considerandolo unitamente agli altri, consistenti, elementi a carico (attività di PG, riferita dal COGNOME, dichiarazioni di COGNOME, sequestro di documentazione). Anche sui residui profili evidenziati dal ricorrente, la Corte territoriale ha fornita adeguata risposta, chiarendo, appunto, di non avere attribuito valenza alle dichiarazioni rese da COGNOME COGNOME e COGNOME quando basate solo su quanto appreso da COGNOME, e escludendo in riferimento agli altri due testi intenti calunniatori di COGNOME per coprire i predetti (pag. 43). Infine, risulta non rilevante la circostanza che COGNOME fosse stato eventualmente archiviato e non “assolto”.
2.5. Le doglianze relative all’affermazione di responsabilità per il capo E in ordine al quale è stata dichiarata la prescrizione – non possono essere accolte. La sentenza (pag. 47 ss.) argomenta in modo non illogico in ordine: al rinvenimento presso l’imputato del tablet Ipad, del valore di 400 euro, acquistato e consegnato al RAGIONE_SOCIALE da COGNOME; alla circostanza che, nonostante quest’ultimo avesse dichiarato che si trattava di “regalo che in quello specifico momento non era finalizzato a nulla”, nondimeno le indagini condotte dalla Guardia di Finanza avevano dimostrato il fatto corruttivo (in quanto in corrispondenza con la consegna del device, RAGIONE_SOCIALE aveva dato al Volpi precise indicazioni necessarie per giustificare i ribassi d’asta effettuati dalla società di Volpi). Si tratta di motivazione congrua che, a fronte della declaratoria di intervenuta estinzione del reato per prescrizione, non consente di rilevare l’evidenza dell’innocenza dell’imputato a norma del secondo comma dell’art. 129 cod. proc. pen.
2.5.1. Peraltro, rileva questa Corte che per i reati di cui al capo E (ascritti oltre che al Lomutolo anche all’imputato NOMECOGNOME il Tribunale, pur avendo dichiarato la prescrizione, ha nondimeno disposto condanna agli effetti civili. Trattasi di statuizione che contrasta con il preciso disposto dell’art. 578 cod.
proc. pen. che consente di affermare la condanna dell’imputato per gli effetti civili solo nel caso in cui la causa estintiva del reato (prescrizione o amnistia) intervenga dopo la pronuncia della sentenza di primo grado; e ciò, si è chiarito, anche ove essa sia di assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto ed intervenga impugnazione della parte civile al fine di chiedere al giudice dell’impugnazione di affermare la responsabilità dell’imputato, sia pure incidentalmente e ai soli fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno, ancorché in mancanza di una precedente statuizione sul punto, ferma restando, nel caso di appello della sola parte civile, l’intangibilità delle statuizioni penali (così, Sez. 3, n. 3083 del 18/10/2016 – dep. 2017, COGNOME, Rv. 268894 – 01). Nel caso di specie, invece, il Tribunale ha dato atto a pag. 51 della prescrizione dei reati intervenuta il 3 febbraio 2020 e quindi in data antecedente alla sentenza di primo grado che è del 20 maggio 2021. Pertanto, le statuizioni civili relative a detto capo vanno revocate eliminando la somma di 400 euro posta a carico di ciascuno dei predetti imputati.
2.6. Infondato è il sesto motivo del ricorso, relativo alla declaratoria di prescrizione per il reato di turbativa d’asta sub capo P1. La sentenza di appello (pag. 51 ss.) motiva ampiamente in ordine alla condotta fraudolenta posta in essere da COGNOME per favorire la ditta del Naccari (al fine di evitare che lo stesso potesse intraprendere iniziative giudiziarie sulle giustificazioni presentate da COGNOME per l’offerta al massimo ribasso, oggetto dell’imputazione sub E).
2.6.1. Inoltre, l’assoluzione del COGNOME (di cui peraltro il ricorrente si limita a indicare l’esito senza produrre la relativa sentenza) di per sé non si pone in rapporto di incompatibilità logico giuridica con l’accertamento della responsabilità del Pubblico ufficiale, «dovendosi intendere il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili non in termini di mero contrasto di principio tra le decisioni, bensì con riferimento ad un’oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui esse si fondano» (Sez. 6, n. 16477 del 15/02/2022, Frisullo: fattispecie relativa a reato di turbata libertà degli incanti, in cui la Cor ha ritenuto immune da censure il rigetto dell’istanza di revisione avanzata dall’istigatore, condannato in sede di giudizio abbreviato, in relazione alla assoluzione “perché il fatto non sussiste” pronunciata, in esito a giudizio ordinario, in favore dei soggetti istigati).
2.7. Il settimo motivo – relativo alla imputazione di cui al capo V anch’essa dichiarata prescritta – è infondato.
Anche per detta contestazione – avente ad oggetto due distinte dazioni di denaro per 3.500 euro a COGNOME, RUP in quella procedura, da parte del COGNOME in riferimento alla firma e rilascio da parte di quest’ultimo dei certificati di pagamento degli stati di avanzamento dei lavori (SAL) già approvati nell’ambito di un appalto del Comune di Milano per interventi finalizzati all’ottenimento del certificato di idoneità statica di edifici scolastici – la Corte di appello (pag. 61 ss.) fornisce adeguata motivazione in merito alla responsabilità dell’imputato; ciò in base alle dichiarazioni – ritenute attendibili – del coimputato COGNOME che ha riferito che la somma – da lui indicata in due tranches di 3.500 euro l’una – era stata espressamente richiesta dal ricorrente e che lui aveva accettato la richiesta “in ragione del ruolo rivestito dall’imputato e della necessità di non indispettirlo”; dazioni confermate da quanto riferito da COGNOME Angelo (dipendente del Comune subordinato a Lotumolo e “socio occulto” di COGNOME) che però ha parlato di 3.000 euro, e da COGNOME (anch’egli dipendente del Comune di Milano, subordinato di NOME COGNOME altro ricorrente, e altro “socio occulto” di COGNOME) che ricordava due dazioni ciascuna di 1.000/1.500 euro; dichiarazioni ritenute nel loro nucleo essenziale convergenti e idonee a corroborare la chiamata di correità di COGNOME. Ad esse si aggiungono le risultanze degli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza dai quali è emerso come nelle due occasioni l’imputato avesse emesso il SAL a diversa distanza di tempo dal via libera dato dal direttore dei lavori (COGNOME). Le censure del ricorrente risultano quindi generiche e non idonee a dimostrare – a fronte della dichiarata prescrizione – lacune motivazionali tali da infirmare l’affermazione di penale responsabilità ai sensi dell’art. 129, secondo comma, cod. proc. pen. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.8. Manifestamente infondato è l’ottavo motivo, con il quale si è eccepito che la prescrizione per il reato sub capo V sarebbe intervenuta prima della sentenza di primo grado. I fatti oggetto di questo capo sono contestati come commessi nel settembre del 2014 e nell’agosto 2015. Alla data della sentenza di primo grado (20 maggio 2021) nessuno dei due era quindi prescritto (il termine di sette anni e sei mesi applicabile ratione temporis commissi delicti è decorso solo nelle more del giudizio di appello).
2.9. Il nono motivo – relativo alle questioni civili – è infondato. In effetti sentenza impugnata non si occupa delle questioni civili, limitandosi a
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confermare sul punto la decisione del Tribunale. La sentenza di primo grado ha disposto la condanna solidale al risarcimento del danno patrimoniale a favore del Comune di Milano a carico degli imputati condannati (oltre a COGNOME, NOME e COGNOME) per la misura di complessivi euro 38.054,30, mentre il ricorrente è stato individualmente condannato alla somma di 6.500 euro a titolo di danno morale (sentenza di primo grado, pag. 60). Quest’ultima statuizione è insindacabile in sede di legittimità (peraltro la somma è stata ridotta del 50% in ragione del ravvisato deficit di controllo da parte del Comune, e dunque di un “concorso di colpa” della persona offesa). Per quanto concerne la “solidarietà” della condanna tale profilo dovrà essere esaminato dal giudice civile (trattandosi di condanna generica) che valuterà per quali fatti – in ragione della commissione in concorso – essa potrà concretamente operare.
2.10. Infine, va rigettato il decimo motivo. La confisca per equivalente a carico del ricorrente, disposta in primo grado per la somma di euro 6.500, è stata revocata dalla Corte di appello (evidentemente sulla base del principio secondo cui «in tema di confisca “per equivalente”, trova applicazione, per la natura di diritto sostanziale dell’istituto, il principio di irretroattività delle no penali sfavorevoli al reo, sicché risulta preclusa l’applicabilità della previsione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., relativa alla confisca in caso di estinzione del reato per prescrizione»: tra le altre, v. Sez. 2, n. 17354 dell’08/03/2023, COGNOME, Rv. 284529 – 01). Sempre in primo grado è stata disposta nei confronti di COGNOME la confisca dei “beni sequestrati” e pertanto se non era stato disposto il sequestro non opera neppure la confisca. Inoltre, la confisca “diretta” ha natura di misura di sicurezza e ove disposta sulla base di condanna intervenuta in primo grado resiste alla prescrizione «a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio» (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, COGNOME, Rv. 264434 – 01): e in merito nulla deduce il ricorrente.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è parzialmente fondato.
3.1. Il primo motivo, relativo alle dichiarazioni accusatorie rese da COGNOME, è infondato. Anche per l’appello di COGNOME la Corte territoriale, dopo aver premesso che il motivo sul punto risulta “aspecifico”, entra però nel merito dello
stesso (riprendendo anche argomentazioni già indicate per COGNOME) e motiva in modo adeguato sia in ordine all’attendibilità di COGNOME (pag. 75 ss.) sia per quanto concerne i riscontri alle stesse (rappresentati dalle intercettazioni telefoniche, dalle operazioni svolte dalla Polizia giudiziaria dal sequestro di documentazione presso l’imputato).
3.2. Il secondo, quarto e sesto motivo, con i quali si eccepisce l’infondatezza dell’affermazione di responsabilità per le tre ipotesi di cui al capo U dell’imputazione (quelle sub A e B dichiarate estinte per prescrizione), sono infondati nel merito.
La Corte territoriale (pag. 95 ss.) dà conto delle dichiarazioni rese dal COGNOME che ha riferito di tre dazioni all’COGNOME per rispettivamente 2.500, 2.500 e 8.500 euro, funzionali ad ottenere l’aggiudicazione di lavori pubblici; dichiarazioni riscontrate dalle conversazioni intercettate e da quanto riferito dai già citati “soci occulti” del COGNOME, COGNOME e COGNOME, dai quali elementi – a loro volta corroborati dalle attività di indagine sulle quali ha deposto il Mezzotero (pedinamenti, OCP e sequestro di documentazione) – emerge che l’imputato aveva “aggiustato le giustificazioni”. Viene anche precisato che “Innocenti aveva escogitato un ingegnoso sistema che consisteva nel richiedere giustificazioni per poi offrirsi di aiutare la RAGIONE_SOCIALE a compilare tali giustificazion delle offerte anomale al massimo ribasso” (pag. 100 ss.). Per quanto riguarda il sequestro del denaro, la sentenza impugnata non illogicamente ne ha dedotto l’illecita provenienza (quale prezzo della corruzione) attesa l’entità delle somme rinvenute (in due occasioni, dapprima 22.000 e poi 16.000 euro) e per le modalità di custodia e confezionamento (in diverse buste bianche).
3.2.1. Peraltro, risulta errata la qualificazione giuridica dei fatti quali “corruzione propria”. Invero, la sentenza impugnata non ha indicato quale sarebbe l’atto contrario ai doveri di ufficio; il capo di imputazione indica trattarsi di “assegnazione di appalti avvenuta con violazione dei principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione e con l’inosservanza delle norme procedimentali relative ai criteri di scelta dei contraenti”. A sua volta, la sentenza di primo grado ha ritenuto corretta la qualificazione in termini di corruzione propria “essendo stato individuato l’atto contrario (violazione del principio di imparzialità rappresentato dall’ausilio nella redazione di giustificazioni dell’impresa che avrebbe dovuto vincere i singoli appalti in base agli accordi)”.
3.2.2. trattasi di motivazione non adeguata. Ritiene infatti il Collegio di dovere ribadire il principio già accolto da questa Sezione (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 – dep. 2020, Bolla, Rv. 279555 – 05), secondo cui in tema di corruzione la mera accettazione da parte del pubblico agente di un’indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale – e dunque la violazione del generale principio di imparzialità – non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l’esercizio dell’attività sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l’interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l’esercizio della funzione (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 – dep. 2020, Bolla Rv. 279555 – 05).
Tale conclusione deriva dalla circostanza che la fattispecie di corruzione propria richiede, per espressa previsione del legislatore, la presenza di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio e ciò vale a distinguerla dalla meno grave figura della “corruzione per l’esercizio della funzione”, nella quale detto elemento non è contemplato. La opposta tesi giurisprudenziale accolta dalla sentenza impugnata ha, invece, l’effetto di praticamente azzerare in relazione all’esercizio di potere discrezionale lo spazio applicativo della fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. (come modificata dal legislatore del 2012), atteso che considerare atto contrario ai doveri di ufficio la mera “strumentalizzazione” o “distorsione” dell’esercizio del potere discrezionale stesso, derivante dalla circostanza che il pubblico ufficiale è stato remunerato dal corruttore e ne “ha preso in carica l’interesse”, senza operare una adeguata ponderazione degli interessi coinvolti nella decisione di sua spettanza, significa che sussiste sempre la corruzione propria, anche se l’atto in cui si sostanzia tale esercizio non è in sé contra legem.
In tal modo si verifica una, non consentita, espansione dell’ambito applicativo del reato ex art. 319 cod. pen. che non risulta in sintonia con il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penale. Con la sentenza n. 98 del 28 aprile – 14 maggio 2021, la Corte costituzionale ha infatti ribadito che sono le norme incriminatrici – non già la loro successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – a dover «fornire al consociato
un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore». Il Giudice delle leggi ha aggiunto che «il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale».
3.2.3. Poiché dalle motivazioni delle sentenze di merito non emerge la individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio, posto in essere da NOME quale pretium sceleris, si impone la riqualificazione del fatto contestato ai sensi dell’art. 318 cod. pen. Risalendo l’ipotesi sub C al settembre 2015, il reato residuo risulta prescritto. Pertanto, nei confronti di NOME la sentenza va annullata senza rinvio per estinzione del reato a lui ascritto, con conferma delle statuizioni civili.
3.3. Infondato è il terzo motivo, relativo al capo E. La Corte di appello (pag. 86 ss.) fa presente che nel corso di una perquisizione domiciliare a carico dell’imputato venne rinvenuto l’Ipad consegnato dal COGNOME, precisando per quale motivo questo non può (come la simmetrica dazione a COGNOME) essere considerata mera “regalia”. In modo non illogico la sentenza impugnata rileva che la dazione del device anche in base alle conversazioni intercettate e riferite dal COGNOME – si pone come controprestazione per i precedenti “consigli” dati da COGNOME all’imprenditore circa le “giustificazioni” per le anomalie derivanti dall’offerta al massimo ribasso.
3.3.1. Peraltro, come già indicato in riferimento alla medesima imputazione ascritta a COGNOME (v. retro, par. 2.5.1.), devono essere revocate le statuizioni civili relative a detta imputazione (risarcimento a favore del Comune di Milano per la somma di 400 euro), poste dal Tribunale a carico di NOME nonostante la prescrizione del reato fosse maturata in data precedente alla pronuncia della relativa sentenza di primo grado.
3.4. Infondato è anche il motivo proposto in relazione al capo F1. Con esso vengono dedotte questioni di fatto, in ordine alle quali la sentenza impugnata (pag. 89 ss.) ha fornito adeguata motivazione. Peraltro, dubbia appare la rilevanza del motivo atteso che la sentenza di primo grado ha ritenuto il capo F1 assorbito nella contestazione sub U (le cui ipotesi A e B sono state dichiarate
prescritte in appello e la residua ipotesi C è stata dichiarata prescritta – previa riqualificazione ai sensi dell’art. 318 cod. pen. – nella presente sentenza).
3.5. Infine, l’ultimo motivo di ricorso – relativo al rigetto delle richieste d considerare le circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto alle aggravanti e di riconoscere l’ulteriore attenuante ex art. 323-bis cod. pen. risulta assorbito in virtù della declaratoria di prescrizione adottata da questa Corte, non residuando più una pena sulla quale potrebbe spiegare effetti l’eventuale accoglimento dello stesso.
Parzialmente fondato è il ricorso proposto da NOMECOGNOME
4.1. Il primo motivo – con il quale l’imputato si duole della mancata citazione di una persona offesa – è manifestamente infondato. Invero, «la nullità derivante dall’omessa citazione della persona offesa ex art. 178 cod. proc. pen. non può essere eccepita dall’imputato, poiché egli manca di interesse all’osservanza della disposizione violata, il cui unico scopo è quello di consentire l’eventuale costituzione di parte civile al destinatario della citazione» (in tal senso, ex multis, Sez. 2, n. 51556 del 04/12/2019, COGNOME Rv. 277812 – 01 che in motivazione ha evidenziato che l’imputato ha sempre la facoltà di citare la persona offesa come testimone).
4.2. Infondato è il secondo motivo, con il quale si eccepisce vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni accusatorie di COGNOME nei confronti del ricorrente e all’assenza di idonei elementi di riscontro alle stesse.
Con esso il ricorrente intende sovrapporre alla – non illogica – ricostruzione dei fatti operata dalla sentenza di appello (pag. 104 ss.) una versione alternativa degli accadimenti, sminuendo e parcellizzando i plurimi elementi di riscontro (dichiarazioni di COGNOME, COGNOME, COGNOME; conversazioni registrate con COGNOME; documentazione varia) alle dichiarazioni di COGNOME, in sé giudicate dai giudici di merito attendibili. In particolare, si evidenzia che il teste COGNOME ha riferito in ordine alla genesi e sviluppo di quanto riferito da COGNOME che si trovava in stato di custodia cautelare per altri fatti e quindi ha disvelato fatti non noti agli inquirenti (pag. 106 ss.); la Corte territoriale esamina poi il contenuto intrinseco delle dichiarazioni accusatorie di COGNOME in dibattimento (pag. 111 ss.), in particolare in ordine all’appalto n. 69 aggiudicato alla Siva di Asnaghi. E ciò in riferimento: alla posizione di Ascione, pag. 115 s.; al contratto
con la Siva nel quale egli aveva il ruolo di direttore dei lavori, pag. 117; alle “richieste concussive” da parte di COGNOME, pag. 118 ss.: in particolare riferisce che COGNOME gli ha detto che “per non avere problemi sull’appalto, rallentamenti, eccetera eccetera, problemi di gestione dei SAL, per non avere blocchi, per non avere ritardi, sarebbe il caso, magari, di avere una contropartita”: pag. 119, aggiungendo che nei corridoi del Comune di Milano COGNOME era chiamato “Mister 5%. Tariffa fissa, sia che l’appalto sia al massimo ribasso sia che l’appalto sia alla media … “. Quindi la Corte territoriale prende in rassegna i “riscontri in senso tecnico” (pag. 131 ss.) che tra l’altro documentano le modalità di acquisizione della “provvista” (“fatturazioni da parte del subappaltatore che fattura e poi riporta il contante che noi inseriamo in busta e portiamo direttamente in Comune”: così Volpi, pag. 135) necessaria per pagare in contante Ascione a mano a mano che venivano firmati i SAL; le intercettazioni ambientali, rectius registrazioni effettuate direttamente da COGNOME, delle conversazioni con COGNOME (pag. 137 ss.); le dichiarazioni dei “soci occulti” di COGNOME, COGNOME e COGNOME, e di COGNOME (titolare della Siva) (pag. 145 ss.); venendo anche escluso che potesse ipotizzarsi una sorta di “frode” orchestrata da COGNOME per lucrare dei soldi asseritamente necessari per pagare COGNOME (pag. 159).
In definitiva, la motivazione della sentenza di appello non risulta illogica e ha in modo congruo confutato le doglianze dell’imputato che ora vengono riproposte nei motivi di ricorso.
4.3. Fondato è, invece, il terzo motivo relativo alla qualificazione giuridica dei fatti.
La sentenza di appello ha ritenuto configurabile la concussione in quanto la consegna dell’orologio Rolex (capo X, ritenuto “assorbito”) e del denaro (capo W) “era funzionale a evitare alla Siva strumentali rallentamenti dei lavori nella gestione dell’appalto 69/2011, rallentamenti che il direttore dei lavori poteva artatamente creare e che COGNOME aveva già percepito in passato, quando era un semplice dipendente della ditta che si era aggiudicata i lavori dell’appalto 23/2009″ (pag. 130). Viene poi precisato che la natura costrittiva delle pretese del ricorrente trova riscontro anche nella reazione alle stesse di COGNOME che, diversamente da quanto accaduto nei rapporti con COGNOME e NOME (qualificati in termini di corruzione), decise di registrare le conversazioni “in quanto temeva ostacoli all’esecuzione dell’appalto
artatamente sollevati dall’Ascione nonostante il pagamento delle somme richieste in sede dì aggiudicazione … il problema era che sull’appalto di Ascione c’erano sempre delle problematiche inesistenti che ci piovevano addosso senza alcun motivo, sembrava quasi che volesse mettere apposta i bastoni tra le ruote, nonostante ci fosse appunto questa dazione, però era sempre un continuo contestare, volere mettere i punti sulle “i”, ritardare sui SAL, andare a giustificare determinati lavori in sede di SAL e non in sede di esecuzione …” (così COGNOME: sentenza di appello pag. 139). Ulteriore elemento a favore della natura concussiva della condotta del ricorrente viene tratto dal contenuto delle conversazioni registrate (pag. 140 ss.), in particolare le due intercorse tra COGNOME e COGNOME ed avvenute a cavallo tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, una in un ristorante e l’altra all’interno della vettura di Volpi. La sentenza impugnata dà conto che, nella seconda conversazione, COGNOME dice all’interlocutore che c’è un nuovo collaudatore particolarmente pignolo che lui proverà a convincere della correttezza dell’esecuzione dei lavori. Peraltro, sul punto viene evidenziato (pag. 145) che “COGNOME e COGNOME hanno certamente un rapporto confidenziale, ma questo non tranquillizza affatto COGNOME il quale – anzi – lo teme perché, memore delle pretese avanzate nel corso dell’appalto 23/2009, conosce bene le dinamiche comportamentali del pubblico ufficiale, segnatamente alla serialità con cui frappone ostacoli all’esecuzione dei lavori appaltati, circostanza che effettivamente inizia a verificarsi nell’autunno del 2015. La condotta di Ascione diventa effettivamente ostruzionistica proprio in prossimità del pagamento del Sal di maggiore importo, pari a più del doppio della soglia minima prevista dal contratto”. Pertanto – argomenta la sentenza impugnata – COGNOME temeva le condotte ostruzionistiche di Ascione, e questo “metus” esclude la configurabilità della corruzione.
4.3.1. Peraltro, tale ricostruzione dei fatti risulta in qualche modo contraddetta da quanto riferito da COGNOME – anch’egli dipendente del Comune e che aveva ricevuto le confidenze di Volpi, di cui era “socio occulto” – secondo il quale questi gli aveva riferito che COGNOME “ci avrebbe agevolato in qualche modo sull’appalto, però questa cifra andava corrisposta” (pag. 147). A sua volta, COGNOME NOME, titolare della Siva che non aveva voluto trattare direttamente con COGNOME delegando la faccenda a Volpi, dichiara che quest’ultimo gli disse che “il direttore dei lavori aveva chiesto un importo per cercare di evitare … di, o per lo meno, di non mettere i bastoni tra
le ruote durante l’esecuzione dell’appalto … mi disse che aveva avuto la richiesta di un pagamento da parte del direttore dei lavori … che questa richiesta era per evitare che ci venissero messi i bastoni tra le ruote durante l’esecuzione dei lavori” (pag. 152-153).
4.3.2. La motivazione della Corte territoriale non risulta idonea a dimostrare in modo adeguato la sussistenza del delitto di cui all’art. 317 cod. pen. Questa Sezione (sent. n. 25694 dell’11/01/2011, COGNOME, Rv. 250467 01) ha già avuto modo di precisare che non integra la fattispecie di concussione la condotta di semplice richiesta di denaro o altre utilità da parte del pubblico ufficiale in presenza di situazioni di mera pressione ambientale, senza però che questi abbia posto in essere atti di costrizione o d’induzione, non potendosi fare applicazione analogica della norma incriminatrice, imperniata inequivocabilmente sullo stato di soggezione della vittima provocato dalla condotta del pubblico ufficiale. (Nella specie, la S.C. annullato la sentenza della Corte di Appello che aveva qualificato come concussione, piuttosto che corruzione, la mera richiesta di denaro o di altra utilità da parte del soggetto passivo, in forza di una generalizzata e notoria prassi in tal senso invalsa in un determinato settore della P.A.).
In ordine alla distinzione tra concussione e induzione indebita si è poi fatto presente come «in tema di concussione di cui all’art. 317 cod. pen., così come modificato dall’art. 1, comma 75 della legge n. 190 del 2012, la costrizione consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciatogli; ne consegue che non è sufficiente ad integrare il delitto in esame qualsiasi forma di condizionamento, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare una coercizione psicologica cogente in capo al soggetto passivo» (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264278 – 01).
In merito poi alla distinzione tra il reato di corruzione e le due fattispecie, finitime, di concussione e induzione indebita, questa Sezione (Sez. 6, n. 50065 del 22/09/2015, COGNOME, Rv. 265750 – 01) ha posto il principio in base al quale «il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere
utilità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeci richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre “l’extraneus”, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la “par condicio contractualis” ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva ritenuto sussistente il reato previsto dall’art. 319 quater cod. pen. con riguardo alla condotta di due dipendenti della Agenzia delle Entrate che, abusando della loro qualità di verificatori, avevano, nel corso di una verifica fiscale presso un esercizio commerciale, dapprima prospettato al titolare l’applicazione di significative sanzioni economiche e, successivamente, sempre nell’ambito di una situazione di squilibrio tra le parti, lo avevano indotto a farsi promettere e consegnare una somma di denaro per omettere la trasmissione delle segnalazioni relative alla irregolarità riscontrare alle competenti autorità)».
4.3.3. Alla luce di tali principi – che in questa sede vanno ribaditi – non risulta chiarito, in primo luogo, se il rapporto intercorso tra le parti (il pubblic ufficiale COGNOME e il privato COGNOME, quale fiduciario del titolare dell’impresa interessata all’appalto) possa essere qualificato in termini di sostanziale e effettiva disparità di posizione o invece se i due si siano collocati su un piano di parità (così come avvenuto nei rapporti dello stesso COGNOME con gli altri pubblici ufficiali coinvolti: COGNOME e COGNOME), con la conseguenza che, in questo secondo caso, i fatti andrebbero configurati quale corruzione ex art. 318 cod. pen. Laddove invece si dovesse accertare la situazione di squilibrio tra i soggetti, dovrebbe poi verificarsi se dal compendio probatorio emerge una condotta costrittiva da parte del pubblico ufficiale (sussistendo allora la concussione) ovvero una induzione finalizzata a ottenere, da parte di COGNOME, il danaro e, da parte di COGNOME, un indebito vantaggio per la società che rappresentava.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata ad altra Sezione della Corte milanese per un nuovo giudizio su tali profili.
4.4. Il quarto motivo – nel quale si denuncia la pronunzia di “assorbimento” del capo X all’interno del capo W, effettuata dal Tribunale e giudicata corretta dalla sentenza impugnata – è infondato. In primo luogo, si tratta di aspetto che
risente dell’annullamento con rinvio del relativo capo, di tal che allo stato appare non rilevante. Più in generale, difetta un concreto interesse
dell’imputato a impugnare detta statuizione. Infatti, la pena applicata per il capo
W è stata contenuta nel minimo edittale della fattispecie di cui all’art. 317 cod.
pen. (pena base, anni sei, ridotta a quattro per effetto dell’art. 62 bis cod.
pen.); pertanto, assorbimento o meno, il capo X non ha prodotto alcun effetto in tema di commisurazione della pena e neppure in ordine alle statuizioni civili
nelle quali non vi è alcun riferimento a detto episodio e che, dunque, non potrà
spiegare effetti nel giudizio di rinvio, quale che sarà l’esito dello stesso.
5. Infine, gli imputati COGNOME e COGNOME vanno condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla Parte civile, Comune di
Milano, liquidate come da dispositivo.
P. Q. M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.
Riqualificato il fatto di cui al capo U), ipotesi C), ai sensi dell’art. 318 cod. pen., dichiara non doversi procedere nei confronti di NOME per intervenuta prescrizione.
Revoca le statuizioni civili riferite al capo E) nei confronti di COGNOME NOME e NOMECOGNOME eliminando la somma di euro 400 posta a carico di ciascuno; conferma nel resto le statuizioni civili nei confronti di entrambi. Rigetta nel resto i loro ricorsi.
Rigetta il ricorso di RAGIONE_SOCIALE che condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna COGNOME e COGNOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla Parte civile Comune di Milano che liquida in complessivi euro 3.686, oltre accessori di legge.
Così deciso il 10 aprile 2024
Il Consigliere estensqre
Il Presidente