Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 24336 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 24336 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 01/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME nata a Cosenza il 23/07/1966
avverso la sentenza del 24/09/2024 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore della ricorrente, avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME con atto del proprio difensore, impugna la sentenza della Corte di appello di Roma in epigrafe indicata,·che ne ha confermato la condanna per il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318, cod. pen.).
Secondo le concordi sentenze di merito, nella sua qualità di funzionaria in servizio presso il “Punto unico di accesso” (“PUA”), ufficio municipale competente
al rilascio del nulla-osta finalizzato alla successiva iscrizione nel registro anagrafico comunale ed eventualmente al riconoscimento della residenza, ella avrebbe variamente agevolato il cittadino bengalese NOME COGNOME nell’evasione delle pratiche da questi curate per conto di vari interessati, da lui ottenendo in corrispettivo remunerazioni in danaro non dovutele.
2. Il ricorso è sorretto da quattro motivi.
2.1. Con il primo si lamentano violazione di legge e vizi di motivazione nel capo relativo alla ritenuta sussistenza del reato, poiché si sarebbe trattato di donativi di modico valore, ricevuti dall’imputata per attività non contraria ai doveri d’ufficio. Si osserva, in proposito, che:
il codice di comportamento dei dipendenti pubblici (art. 4) fissa in 150 euro la soglia oltre la quale il donativo non può considerarsi di modico valore;
nella presente vicenda non è stato documentato alcun passaggio di denaro; le sentenze di merito hanno valorizzato una sola conversazione intercettata, nella quale l’imputata ha chiesto ad COGNOME di “anticipargli” 50 euro, senza che, peraltro, ciò sia stato riscontrato; in ogni caso, ella ha negato di aver ricevuto importi superiori a tale cifra, altresì spiegando che, in quell’occasione, si era trattato di una semplice richiesta di prestito, secondo l’accezione comune del termine da lei utilizzato;
-dalle conversazioni intercettate emerge come NOME si limitasse a manifestare la volontà di offrirle delle consumazioni al bar;
-la proporzione tra le prestazioni del privato e dell’agente pubblico, che dev’essere valutata in rapporto alla rilevanza dell’atto di quest’ultimo e non in astratto, assume comunque rilevanza sul piano probatorio, quale indice rivelatore dell’inesistenza del sinallagma tra dazione indebita ed attività d’ufficio, necessario per la configurabilità del reato;
l’imputata non aveva alcun potere sull’iscrizione dei soggetti nell’anagrafe del Comune, trattandosi di attività che competeva ad un ufficio diverso da quello presso cui ella prestava servizio;
nel periodo oggetto di contestazione, i contatti tra lei ed NOME si sono ridotti rispetto a quelli relativi al periodo precedente, a riprova del carattere episodico della condotta addebitatale.
2.2. Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 429, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., per la genericità del capo d’imputazione, con la conseguente nullità di tutti gli atti conseguenti all’atto di rinvio a giudizio, censurando altresì l motivazione con la quale la sentenza impugnata ha disatteso la relativa eccezione.
Rileva la difesa:
-che la contestazione fa riferimento indistintamente sia all’art. 318 che all’art. 319, cod. pen., limitandosi al mero richiamo del dato normativo e senza individuare e precisare condotte riferibili all’una o all’altra fattispecie;
-che l’addebito mosso all’imputata riguarda essenzialmente il rilascio di certificati di residenza falsi, attività tuttavia non corrispondente alle reali mansioni svolte da costei nel periodo di tempo ivi indicato, le quali non solo non hanno formato oggetto d’imputazione, ma, ancora prima, neppure d’investigazione, non essendo state ritenute d’interesse dagli inquirenti ed essendo emerse solo nel corso dell’istruttoria dibattimentale;
-che, inoltre, l’imputazione indica una data d’inizio della condotta, 10 gennaio 2019, che non trova riscontro negli atti processuali, se non accedendo ad un patrimonio conoscitivo inutilizzabile, ovvero le conversazioni intercettate tra cittadini bengalesi, avvenute in lingua straniera e non tradotte;
che non è precisamente contestato neppure il prezzo della corruzione, non comprendendosi se si trattasse di 50 o 100 euro ad atto;
-che, da ultimo, la sentenza d’appello ha respinto la relativa doglianza, rilevando che le condotte delittuose oggetto d’addebito sarebbero state circoscritte dal Tribunale: ma – obietta la ricorrente – esse avrebbero dovuto essere ben individuate a priori, con l’imputazione, onde consentire di esercitare un’effettiva difesa.
2.3. Connessa e consequenziale alla doglianza appena esaminata è la successiva, che riguarda la violazione dell’art. 521, cod. proc. pen., per difetto di correlazione tra il fatto oggetto d’imputazione e quello del quale la ricorrente è stata giudicata colpevole.
L’addebito, infatti, riguardava il rilascio di certificati di residenza falsi, attivi che, tuttavia, come si è appurato solo in dibattimento, competeva ad un ufficio diverso da quello dell’imputata; la condanna, invece, è intervenuta con riferimento ad un’indebita attività di agevolazione nell’espletamento delle incombenze prodromiche a quelle certificazioni.
Le sentenze di merito, in sostanza, hanno operato una sovrapposizione tra le funzioni dell’Ufficio demografico, presso il quale la COGNOME aveva operato in un periodo precedente a quello oggetto di contestazione, e quelle del “PUA”, dov’ella effettivamente lavorava. Peraltro, l’imputata non solo non aveva alcun potere certificatorio, ma non sussisteva neppure alcuna automaticità tra gli accertamenti compiuti dal suo ufficio e l’iscrizione nell’anagrafe dei residenti, come si evince dal fatto che alcune delle pratiche da lei curate su richiesta di COGNOME fossero state successivamente bloccate dalla dirigente.
La condanna, dunque, è intervenuta per un fatto nuovo e diverso da quello contestato, i cui elementi non erano deducibili dall’imputazione. In particolare,
l’istruttoria dibattimentale ha smentito l’imputazione nella parte in cui questa ipotizzava la violazione delle disposizioni che regolamentavano l’accesso del pubblico a quegli uffici; per altro verso, tempi, modalità operative e natura delle pratiche curate dal “PUA” non hanno mai formato oggetto di accertamento.
2.4. L’ultima doglianza riguarda la violazione di legge processuale consistita nell’utilizzazione delle conversazioni in lingua straniera e non tradotte, intercettate tra cittadini bengalesi.
La sentenza impugnata ha disatteso la relativa censura, rilevando che quelle conversazioni non fossero state tenute in considerazione dal Tribunale nella sua sentenza. Ma – obietta la difesa – ad esse ha fatto riferimento il Pubblico ministero nel corso dell’escussione dibattimentale sia dell’imputato che dell’ufficiale di polizia giudiziaria che ha curato le indagini, essendo perciò entrate nel patrimonio conoscitivo del giudice. Peraltro, non avendo tale ufficiale di polizia giudiziaria proceduto all’ascolto diretto delle stesse, ed avendo appreso del relativo contenuto soltanto per il tramite di un interprete, egli non avrebbe neppure potuto rendere testimonianza su di esso.
Ha depositato memoria scritta il Procuratore generale, chiedendo di rigettare il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso, con cui si contesta la configurabilità del reato, in ragione della causale sostanzialmente liberale delle elargizioni ricevute dall’imputata, è per lo meno infondato.
La sentenza impugnata spiega, in modo sintetico ma convincente, come si trattasse di favoritismi reiterati e sistematici, giacché non si limita a dare risalto alla conversazione intercettata in cui l’imputata chiede ad COGNOME di “anticiparle” 50 euro, ma evidenzia – richiamando specificamente le relative conversazioni ulteriori – come fosse costei a sollecitare ripetutamente COGNOME a farle avere delle ulteriori pratiche. Ed è proprio tal ultimo aspetto – oltre alla sistematicità delle dazioni, non negata neppure dalla difesa – che conduce ad escludere l’ipotesi del donativo liberale e di modico valore, qualificando piuttosto ciascuna di quelle come un segmento esecutivo di un più ampio patto affaristico, in adempimento del quale l’imputata aveva stabilmente messo a disposizione dell’Hossain le proprie funzioni istituzionali in corrispettivo di una remunerazione per ciascuna prestazione.
Il secondo ed il terzo motivo, con cui si deducono la genericità dell’imputazione ed il difetto di correlazione tra la condotta delittuosa contestata
e quella ritenuta in sentenza, possono essere trattati congiuntamente, sostanzialmente identica essendo la quaestio iuris che vi è sottesa: per entrambi i vizi lamentati, infatti, il parametro di riferimento è rappresentato dall’aver l’imputato avuto la concreta possibilità di esplicare una compiuta difesa.
2.1. Più specificamente, in sede di contestazione, il fatto deve ritenersi enunciato in forma chiara e precisa quando i suoi elementi strutturali e sostanziali siano descritti in modo tale da consentire un completo contraddittorio e il pieno esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato, che viene a conoscenza della contestazione non solo per il tramite del capo d’imputazione, ma anche attraverso gli atti che fanno parte del fascicolo processuale (così, ad esempio, tra moltissime altre conformi, Sez. 3, n. 9314 del 16/11/2023, dep. 2024, P., Rv. 286023).
Analogamente, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. L’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto, pertanto, non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, Sentenza n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205619).
2.2. Se così è, i relativi motivi di ricorso si rivelano manifestamente destituiti di fondamento e, comunque, generici.
Neppure il ricorso, infatti, deduce che l’imputata non sia stata in condizione di esplicare una difesa effettiva e per quali ragioni; per altro verso, è parimenti indiscusso che il giudizio del Tribunale, poi confermato in appello, abbia rappresentato soltanto la precisazione, peraltro in senso restrittivo, di un originario addebito più ampio, come fisiologicamente può accadere a sèguito della completa escussione dibattimentale della prova raccolta in fase d’indagini.
Manifestamente infondato, infine, oltre che non sorretto da un effettivo interesse, è il quarto motivo di ricorso, in tema di inutilizzabilità delle conversazioni intercettate in lingua straniera e non tradotte.
Come rammenta la sentenza impugnata (pag. 8, in fine), quei dialoghi non sono stati utilizzati dal Tribunale, e neppure – deve qui aggiungersi – dai giudici d’appello. Né alcun rilievo può avere la circostanza che ad essi possa aver fatto riferimento il Pubblico ministero nel corso di alcuni esami dibattimentali, a meno
che non si indichi specificamente se ed in quale misura tale impiego abbia influito sul significato attribuito dai giudici ai differenti elementi di prova da essi valorizzati
ai fini del giudizio: indicazione che, nel caso specifico, manca del tutto.
4. Il ricorso, dunque, dev’esser respinto.
Segue obbligatoriamente per legge la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio (art. 616, cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il
10 aprile 2025.