Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 23473 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 23473 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 19/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
NOME nata a Napoli il 24/12/1976
NOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 24/11/1958
NOME NOMECOGNOME nato a Ostuni il 3/2/1966
COGNOME NOMECOGNOME nato a Moncalieri il 19/10/1976
NOMECOGNOME nato a Napoli il 23/6/1953
COGNOME NOME, nato a Salerno il 14/9/1944
COGNOME NOMECOGNOME nato a Bollate il 3/7/1974
avverso la sentenza del 29/9/2023 della Corte di appello di Napoli visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che concluso chiedendo di: annullare con rinvio la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente al mancato riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 in relazione al capo D1) e all’aumento per la
continuazione in relazione a tale reato e rigettare il ricorso nel resto; di rigett ricorso di NOME COGNOME di dichiarare inammissibili i ricorsi di NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME; uditi l’Avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME e NOME COGNOME, e dell’Avv. NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME, l’Avv. NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME, l’Avv. NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi dei rispettivi assistiti.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 29 settembre 2023 la Corte di appello di Napoli – per ciò che rileva in questa sede – in parziale riforma di quella di condanna in primo grado, ha: esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 80 T.U. Stup. contestata sub capo Z), rideterminato la pena a carico di NOME COGNOME e di NOME COGNOME rispettivamente in anni sette e mesi quattro di reclusione e in anni tredici e mesi due di reclusione per il delitto di cui all’art. 74 d.P.R. 309/1990 e per episodi di reato ex art. 73 T.U. Stup.; rideterminato la pena inflitta a NOME COGNOME in anni undici e mesi otto di reclusione e a NOME COGNOME in anni dieci di reclusione per le medesime anzidette imputazioni; confermato le condanne a carico di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME per plurimi episodi di reato ex art.73 T.U. Stup..
Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per casazione i difensori degli imputati.
NOME COGNOME ritenuta responsabile per i reati di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/90 e per un reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/90, tramite l’Avv. NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i motivi di seguito indicati.
3.1. Con il primo motivo del ricorso, la ricorrente ha dedotto l’inosservanza della legge processuale per la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale condannato l’imputata per il reato di cui all’art. 74 d.P.R. n 309/90 (capo I) in relazione ad una presunta condotta di stabile acquirente di stupefacente dal sodalizio, diversa da quella di ricezione, custodia, amministrazione e investimento dei proventi illeciti dell’associazione, contestata nel capo di incolpazione ed affermata dal Tribunale. Rilevato, in senso concorde alle obiezioni difensive, il deficit probatorio circa le attività di ricezione, custodia, amministrazione e investimento dei proventi illeciti dell’associazione, la Corte
territoriale non avrebbe potuto ritenere integrato il reato associativo sul diverso presupposto fattuale della costante disponibilità all’acquisto, manifestata dal duo COGNOME NOME – NOMECOGNOME Ciò non solo perché il fatto storico non era affatto descritto in questi termini nel capo d’accusa ma anche perché la tesi della stabilità del rapporto di fornitura, fondante la decisione ricorsa, era stata addirittura esclusa dal Tribunale, secondo cui NOME COGNOME e NOME COGNOME solo in alcune occasioni avevano acquistato droga dai fratelli COGNOME. Lo stesso Giudice delle leggi ha affermato che una cosa è il mutamento del dato storico su cui si basa l’accusa, legato alle risultanze probatorie (mutamento che l’imputato non sarebbe tenuto ad antivedere per adeguare ad esso le proprie), altra cosa è la sussunzione del dato storico sub specie iuris, ossia il suo inquadramento sotto l’uno o l’altro titolo di reato: tema sul quale l’imputato potrebbe invece interloquire subito nell’esercizio del suo diritto di difesa.
3.2. Con il secondo motivo la difesa ha dedotto violazione di legge e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere la Corte di appello riconosciuto la responsabilità dell’imputata per la partecipazione al reato associativo di cui al capo I) sulla base dell’assunto per cui gli acquisti d sostanza stupefacente dai fratelli NOME e NOME COGNOME (di cui la ricorrente è sorella), effettuati dall’imputata e dal di lei coniuge NOME COGNOME, configuravano una consapevole e volontaria attuazione del programma criminoso dell’organizzazione, non ricorrendo, per contro, ad avviso del difensore, né un’attività riconducibile al genus della somministrazione, né elementi probatori comprovanti una stabilità degli acquisti. Precisato, poi, che nel modello partecipativo strutturato sul rapporto di stabile fornitura l’affectio societatis non rappresenta l’espressione di una volontà adesiva esternata al momento dell’ingresso in società, quanto piuttosto un fatto in divenire, cioè una condizione che, ancorché non sussistente al momento dei primi scambi di droga, viene a maturare con il tempo, quando per la stabilità e la continuità del rapporto, per le modalità dell’erogazione, per la rilevanza quantitativa ed economica delle stesse e per l’indispensabilità dell’apporto il soggetto estraneo, acquirente o fornitore che sia, diventa essenziale per l’associazione, che, in assenza della condotta incriminata vedrebbe compromessa la sua stessa esistenza o quantomeno destabilizzato il suo ordinario modus operandi, la ricorrente ha dedotto che risulta irragionevole la constatazione per cui ella, così come il suo coniuge, si era avvalsa consapevolmente e continuamente delle risorse della dell’organizzazione: l’associazione non mette a disposizione proprie risorse a chi è ad essa estraneo; per converso chi è intraneo, perché strutturalmente inserito nell’associazione non può al tempo stesso essere estraneo alla stessa per divertirvi parte in ragione della stabilità della fornitura.
3.3. Con il terzo motivo la ricorrente ha dedotto violazione di legge e vizi della motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità per il reato ex art. 73 d.P.R. cit. (capo Z), non essendovi alcun passaggio argomentativo che consentirebbe di desumere l’oggetto della cessione nel tipo e nel quantum, sicché non risulterebbe comprensibile sulla base di quali elementi, quand’anche indiziari, la Corte territoriale abbia potuto ritenere la ricorrente cessionaria di u quantitativo tale da integrare la condotta di detenzione a fini di spaccio.
3.4. Con il quarto motivo si deducono vizi della motivazione in relazione all’entità della diminuzione della pena applicata per effetto delle circostanze attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio in concreto irrogato con riguardo agli aumenti di pena disposti a titolo di continuazione. La decisione sarebbe iniqua, avendo il Giudice di primo grado riconosciuto a NOME COGNOME le circostanze attenuanti generiche, attribuendo ad esse una vis tale da bilanciare in termini di equivalenza un’aggravante qualificata come quella della recidiva a lui contestata. Non si comprenderebbe, quindi, perché sia stata al contempo ritenuta equa la diminuente riconosciuta alla ricorrente in misura non piena, ove si consideri che ella, diversamente da COGNOME, non era stata attinta dall’ulteriore contestazione del reato di spaccio di cui al capo D1). La difesa aveva chiesto di valorizzare non solo lo stato di incensuratezza ma anche l’assenza di una personalità particolarmente incline a delinquere e la complessiva minore gravità dei reati, in cui la ricorrente era risultata coinvolta rispetto quelli contestati a tutto e ciascuno degli altri imputati di cui all’odier procedimento, a cui il Tribunale indistintamente aveva riconosciuto il beneficio delle attenuanti generiche. Gli aumenti a titolo di continuazione, poi, sono stati determinati in considerazione dell’appartenenza della sostanza alla categoria delle cosiddette droghe pesanti, ma solo durante la perquisizione del 3 maggio 2008 presso l’abitazione di COGNOME e COGNOME erano stati rinvenuti 11 grammi di mannite, tipica sostanza da taglio per la cocaina. Il sequestro, però, era occorso a distanza di un anno e mezzo circa dal momento di commissione del reato di cui al capo Z), commesso il 30 dicembre 2006, per il quale la ricorrente ha riportato condanna, cosicché la circostanza che in occasione del sequestro fosse stata trovata mannite non poteva legittimare l’ulteriore conclusione che i reati di spaccio commessi un anno e mezzo prima concernessero cocaina. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
L’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME, ritenuto responsabile del delitto associativo di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/90 e di due reati fine, ha dedotto i motivi di seguito indicati.
4.1. Con il primo motivo del ricorso, il ricorrente ha dedotto l’inosservanza della legge processuale per la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., per avere
la Corte territoriale condannato l’imputato per il reato di cui all’art. 74 d.P.R. n 309/90 (capo I) in relazione ad una presunta condotta di stabile acquirente di stupefacente dal sodalizio, diversa da quella di ricezione, custodia, amministrazione e investimento dei proventi illeciti dell’associazione, contestata nel capo di incolpazione ed affermata dal Tribunale. Rilevato, in senso concorde alle obiezioni difensive, il deficit probatorio circa le attività di ricezione, custodia, amministrazione e investimento dei proventi illeciti dell’associazione, la Corte territoriale non avrebbe potuto ritenere integrato il reato associativo sul diverso presupposto fattuale della costante disponibilità all’acquisto, manifestata dai coniugi COGNOME. Ciò non solo perché il fatto storico non era affatto descritto in questi termini nel capo d’accusa, ma anche perché la tesi della stabilità del rapporto di fornitura, fondante la decisione ricorsa, era stata addirittura esclusa dal Tribunale, secondo cui NOME COGNOME e NOME COGNOME solo in alcune occasioni avevano acquistato droga dai fratelli COGNOME. Lo stesso Giudice delle leggi ha affermato che una cosa è il mutamento del dato storico, su cui si basa l’accusa, legato alle risultanze probatorie (mutamento che l’imputato non sarebbe tenuto ad antivedere per adeguare ad esso le proprie); altra cosa è la sussunzione del dato storico sub specie iuris, ossia il suo inquadramento sotto l’uno o l’altro titolo di reato: tema sul quale l’imputato potrebbe invece interloquire subito nell’esercizio del suo diritto di difesa.
4.2. Con il secondo motivo, la difesa ha dedotto violazione di legge e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere il Collegio di appello riconosciuto la responsabilità dell’imputato per la partecipazione al reato associativo di cui al capo I) sulla base dell’assunto per cui gli acquisti di sostanza stupefacente, effettuati dall’imputata e dal di lei coniuge nei confronti dei fratelli NOME e NOME COGNOME (di cui la ricorrente è sorella) potevano configurare una consapevole e volontaria attuazione del programma criminoso dell’organizzazione, non ricorrendo, per contro, ad avviso del difensore, né un’attività riconducibile al genus della somministrazione, né elementi probatori comprovanti una stabilità degli acquisti. Precisato, poi, che nel modello partecipativo strutturato sul rapporto di stabile fornitura l’affectio societatis non rappresenta l’espressione di una volontà adesiva esternata al momento dell’ingresso in società, quanto piuttosto un fatto in divenire, cioè una condizione che, ancorché non sussistente al momento dei primi scambi di droga, viene a maturare col tempo, quando per la stabilità e la continuità del rapporto, per le modalità dell’erogazione, per la rilevanza quantitativa ed economica delle stesse e per l’indispensabilità dell’apporto il soggetto estraneo, acquirente o fornitore che sia, diventa essenziale per l’associazione, che, in assenza della condotta incriminata vedrebbe compromessa la sua stessa esistenza o,
quantomeno, destabilizzato il suo ordinario modus operandi, il ricorrente ha dedotto che risulta irragionevole la constatazione per cui egli si era avvalso consapevolmente e continuamente delle risorse della dell’organizzazione: l’associazione non mette a disposizione proprie risorse a chi è ad essa estraneo; per converso chi è intraneo, perché strutturalmente inserito nell’associazione, non può al tempo stesso essere estraneo alla stessa per divertirvi parte in ragione della stabilità della fornitura.
4.4. Vizi della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità del ricorrente per il reato di cui al capo D1) nonché omessa motivazione riguardo alla riqualificazione di tale reato nell’ipotesi di cui all’art 73, comma 5, T. stupefacenti. La Corte di appello non avrebbe spiegato perché le conversazioni valorizzate e descritte come laconiche, oltre che intrise di sottintesi, potessero evocare in maniera significativa trattative per la compravendita del narcotico. Inoltre, la perquisizione domiciliare del 3 maggio 2008 non avrebbe potuto offrire riscontro a conversazioni telefoniche risalenti al dicembre 2006 e a gennaio 2007 e le dichiarazioni accusatorie dei germani COGNOME in merito al coinvolgimento di COGNOME nell’attività di spaccio non consentirebbero di riferire tutte le conversazioni citate alle pagine 14 e e 15 ad attività di narcotraffico.
4.5. Con il quinto motivo si è dedotta la violazione di legge e vizi della motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità per il reato ex art. 73 d. P.R. cit. (capo Z). Secondo il ricorrente, nessun passaggio argomentativo
consentirebbe di desumere l’oggetto della cessione nel tipo e nel quantum, sicché non risulterebbe comprensibile sulla base di quali elementi, quand’anche indiziari, la Corte territoriale abbia potuto ritenere il ricorrente cessionario di quantitativo tale da integrare la condotta di detenzione ai fini di spaccio.
4.6. Mancanza di motivazione in ordine all’aggravante della recidiva reiterata, specifica, infraquinquennale in contestazione, non cogliendosi le ragioni per cui la Corte territoriale ha ritenuto che i reati, per i quali ha dispos condanna, disvelassero una personalità tale da meritare l’aggravio di pena a titolo di recidiva.
4.7. Violazione di legge e vizi della motivazione in relazione alla ritenuta adeguatezza degli aumenti di pena a titolo di continuazione. La Corte di appello non avrebbe spiegato perché – per il reato sub Z) – ha aumentato la pena per NOME COGNOME di mesi sei e per NOME COGNOME di venti mesi, pur essendo entrambi concorrenti nel medesimo reato. La Corte territoriale, inoltre, ha ritenuto che l’aumento di pena, disposto dal Giudice di primo grado, fosse adeguato perché i reati satelliti avevano avuto ad oggetto droghe pesanti, ma l’unico passaggio in cui risulta evocata droga di tipo cocaina è quello in cui la menzionata Corte dà conto della perquisizione del 3 maggio 2008, in occasione della quale erano stati rinvenuti presso l’abitazione di Pezzuti 11 grammi di mannite, tipica sostanza da taglio per la cocaina. Il sequestro, però, era occorso a distanza di un anno e mezzo circa dal momento di commissione dei reati di cui ai capi D1) e Z); ragione per cui la circostanza che in occasione del sequestro fosse stata trovata mannite non poteva legittimare l’ulteriore conclusione che i reati di spaccio commessi un anno e mezzo prima concernessero cocaina.
L’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME ritenuto responsabile di due reati ex art. 73 d.P.R. n. 309/1990, ha dedotto i motivi di seguito indicati.
5.1. A) In relazione all’episodio del 9 settembre 2006: vizi della motivazione per avere la Corte di appello travisato il contenuto dei dialoghi captati ed afferenti al reato di cui al capo G) dell’imputazione, nella parte in cui ha ritenuto che lo stupefacente, oggetto di attività di intermediazione per la vendita (condotta contestata al ricorrente), fosse già posseduto da NOME COGNOME che chiedeva a NOME COGNOME di trovare un acquirente. La lettura dei medesimi dialoghi evidenzierebbe che NOME Acerra non aveva acquistato alcunché e che, invece, cercava di trovare con l’intermediazione del ricorrente un compratore in grado di far fronte alla richiesta economica del terzo possessore dello stupefacente. B) In relazione alla contestata intermediazione del 10 settembre 2006: insufficienza della motivazione laddove è stato ritenuto che oggetto delle intercettazioni fosse la droga, per giunta pesante, e ancora che a
fronte della richiesta di trovare acquirenti, formulata da NOME COGNOME, il ricorrente si fosse effettivamente attivato. C): Violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90, per non avere la Corte di appello considerato che, affinché l’attività di intermediazione raggiunga la soglia di punibilità, è necessaria l’effettiva detenzione dello stupefacente, oggetto di traditio in capo all’agente, atteso che il legislatore, nell’utilizzare il termine detenzione, avrebbe inteso descrivere una situazione di possesso materiale della sostanza, ossia di contatto fisico con il compendio illecito. Nel caso in esame, NOME COGNOME nel proporre a COGNOME di fare da intermediario per la vendita, non aveva la disponibilità dello stupefacente; la ritenuta possibilità di acquistare la droga da un nuovo canale di approvvigionamento con i soldi del terzo, che COGNOME, nella qualità di intermediario, avrebbe procacciato, non consentirebbe di ritenere integrato il requisito della detenzione o dell’immediata disponibilità, necessaria affinché la condotta di intermediazione acquisti rilevanza penale.
5.2. Violazione di legge e vizi della motivazione in ordine al rigetto della richiesta di applicazione dell’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/90. in luogo del comma 1 dell’art. 73 d.P.R. cit., atteso che nei dialoghi non si farebbe accenno alla natura dello stupefacente e non si farebbe riferimento ai prezzi al grammo. L’insufficienza di elementi, atti a qualificare le sostanze oggetto di compravendita, avrebbe imposto, in applicazione del principio del favor rei, di ritenerle appartenenti alle categorie delle cosiddette droghe leggere: fatto che avrebbe imposto la riqualificazione dei reati di cui ai capi G) e H) in quello meno grave ex art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/90, da ritenere estinti per intervenuta prescrizione.
L’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME condannato per reati di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/90, ha dedotto i motivi di seguito indicati.
6.1. Travisamento dei fatti e violazione di legge con riguardo al giudizio di responsabilità penale dell’imputato in relazione ai reati di cui ai capi Q), R) e T). La Corte territoriale avrebbe attribuito al ricorrente tre utenze telefoniche, ma dagli accertamenti sarebbe emerso che solo una era a lui intestata, mentre le altre sarebbero intestate, una, a NOME COGNOME e, l’altra, a persona mai identificata. Inoltre, il Collegio di appello non avrebbe considerato che l’imputato è un agente di commercio del settore alimentare con importanti commesse nelle Province di Caserta e Napoli e, per tale motivo, anche in epoca antecedente ai fatti per cui si procede, si sarebbe recato più volte nelle anzidette Province per portare a termine le proprie transazioni commerciali. Durante lo svolgimento di tale attività lavorativa, sarebbe stato naturale contattare diverse utenze
telefoniche di persone titolari di numerosi punti di vendita e prenotare stanze di albergo, al fine di pernottare nelle zone di sua competenza commerciale. Inoltre, la Corte territoriale, nel ritenere che l’imputato aveva avuto rapporti con NOME COGNOME per l’acquisto della droga, non avrebbe considerato che quest’ultimo era stato tratto in arresto nel mese di novembre 2006 e non si comprenderebbe come l’imputato potesse avere intrapreso contatti diretti mentre si trovava in territorio campano per motivi di lavoro con i fratelli COGNOME, noti pregiudicati del posto, considerato che il condannato, avulso dagli schemi della criminalità nonché privo di conoscenze dirette di persone malavitose, giammai sarebbe stato nelle condizioni di poter intrattenere affari illeciti con i predetti. Per di p teste di polizia giudiziaria COGNOME, nel giudizio di primo grado, rispondendo alle domande sulle intercettazioni telefoniche presuntivamente intercorse tra l’imputato e NOME COGNOME aveva dichiarato di aver riconosciuto esclusivamente la voce di NOME e non quella di NOME. Contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, non potrebbe dirsi che un riscontro della riconducibilità della voce all’imputato fosse il riferimento all’autovettura che egli doveva consegnare presso l’aeroporto di Brindisi, perché non sarebbe stato riscontrato il modello e, tantomeno, l’effettiva circolazione nel territorio campano nella giornata del 21 dicembre 2006. Sarebbe illogico anche ritenere la certa utilizzazione dell’utenza telefonica da parte dell’imputato per aver agganciato il 6 febbraio 2007 sia la cella di Venezia che quella di Brindisi, avendo ritenuto che l’imputato fosse tra i viaggiatori del volo Venezia Brindisi. Ciò in quanto su tale volo vi erano molti viaggiatori residenti nella provincia di Brindisi.
6.2. Inosservanza o violazione di legge per la mancata riqualificazione dei reati contestati all’imputato ai capi Q) e 12) della rubrica nell’ambito dell’art. 73 commi quarto e quinto, d.P.R. n. 309 del 1990, stante la mancata identificazione della natura e quantità dello stupefacente.
6.3. Violazione di legge con riguardo al calcolo della pena. La Corte di appello non avrebbe adeguatamente motivato circa la mancata riduzione della pena nella misura massima prevista dall’art. 62 bis cod. pen. e avrebbe applicato per la continuazione dei reati contestati sub lettere Q), R) e 12) un aumento di pena eccessivo.
L’Avv. NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME ritenuto responsabile dei reati cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 e all’art. 73 stesso D.P:R., ha dedotto i motivi di seguito indicati.
7.1. Violazione di legge e vizi della motivazione per avere la Corte di appello motivato solo per relationem, senza confrontarsi con le deduzioni difensive, e per
avere trascurato che dalle intercettazioni non poteva desumersi la partecipazione del ricorrente al sodalizio.
7.2. Violazione di legge e vizi della motivazione, per non avere la Corte territoriale motivato sulla non ricorrenza di episodi di concorso nell’attività d speccio in luogo della ritenuta partecipazione al sodalizio.
7.3. Violazione di legge e vizi della motivazione, avendo la Corte di appello trascurato la conversazione intercettata tra COGNOME e Noschese, che avrebbe disegnato i tratti di una organizzazione rudimentale e malmessa, con conseguente sussumibilità del delitto associativo nell’ambito dell’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90.
L’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME condannato per la partecipazione all’associazione ex art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 con il ruolo di intermediario/fornitore per i fratelli NOME e NOME COGNOME (capo I) e per una violazione dell’art. 73 d.P.R. cit. (capo M1), ha dedotto violazione di legge nonché motivazione carente e illogica con riguardo all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato in relazione al delitto associativo. In particolare, la Corte territoriale avrebbe travisato il contenuto delle dichiarazioni dei fratelli COGNOME sul ruolo addebitato al ricorrente, che, per contro, sarebbe stato indicato linearmente come “mediatore” per conto dell’associazione con i gruppi camorristici della zona ed in grado di coadiuvare il sodalizio in approvvigionamenti continui di stupefacente. La menzionata Corte, quindi, avrebbe riconosciuto al ricorrente un ruolo partecipativo all’associazione in assenza di indici comprovanti il pactum sceleris, non individuabili nel concorso in un solo reato fine (capo M1), come riconosciuto anche dal Tribunale del riesame, che aveva escluso i gravi indizi di colpevolezza per il capo 1) relativo all’associazione. In relazione all’episodio contestato al ricorrente al capo M1), l’assenza di sequestri e di accertamenti sulla qualità e quantità della sostanza stupefacente sarebbero elementi atti a configurare l’ipotesi attenuata di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
L’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME condannato per tre reati di cui all’art. 73 T.U. Stup., ha dedotto i motivi di seguito indicati.
9.1. Violazione di legge in ordine alla mancata qualificazione dei reati di cui ai capi U), V) e W) di detenzione e cessione illecita di sostanza stupefacente nell’ipotesi di cui al quarto e quinto comma dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90. La motivazione della sentenza impugnata non consentirebbe di comprendere – in difetto di spiegazione sul perché non fossero stati operati sequestri – le ragioni per cui le sostanze oggetto delle transazioni sono state qualificate come cocaina.
9.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 81 cod. pen. in ragione del diniego del riconoscimento del vincolo della continuazione per i fatti per cui si procede con quelli giudicati con sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli in data 30 gennaio 2017, in riforma della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Salerno del 4 novembre 2013.
9.3. Mancanza di motivazione sulla richiesta di esclusione della recidiva, effettuata nei motivi di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME sono fondati nei termini e limiti di seguito indicati, mentre vanno rigettati nel resto. Anche i ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME NOME devono essere rigettati.
Con il primo motivo dei ricorsi proposti, NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno dedotto l’inosservanza della legge processuale per violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale condannato i due imputati per il reato di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/90 (capo I) in relazione all condotta partecipativa di stabili acquirenti di stupefacente dal sodalizio, diversa da quella contestata nel capo di imputazione, nel quale ad essi era contestato di avere partecipato al sodalizio, unitamente ad altri associati, in quanto, «operando in stretto rapporto fiduciario con NOME e NOME NOME COGNOME ricevevano, GLYPH custodivano, GLYPH amministravano GLYPH i narcoproventi, svolgendo tutte le operazioni-transazioni bancarie necessarie per ostacolarne l’identificazione».
2.1. La censura è fondata.
Entrambi i ricorrenti sono stati ritenuti responsabili dal Giudice di primo grado per avere amministrato i proventi del traffico svolto dal sodalizio: condotta, questa, contestata nel capo di imputazione I).
La Corte territoriale, invece, ha affermato che «contrariamente all’assunto difensivo che esclude il reato associativo ascritto ai due coniugi, in ragione delle dichiarazioni deresponsabilizzanti di NOME e NOME COGNOME , almeno sotto il profilo della mancata prova che fossero i cassieri del clan, si ritiene comunque di condividere le conclusioni cui è pervenuto il primo Giudice in ordine alla partecipazione di COGNOME NOME e COGNOME NOME al sodalizio criminale dedito al traffico di stupefacenti capeggiato dai fratelli della prima … Ciò in quanto dalle emergenze investigative e, in particolare, dalle dichiarazioni dei germani COGNOME è emerso che COGNOME
NOME si approvvigionasse di sostanze stupefacenti, nell’ordine di 100/200 grammi a volta, ogni settimana o dieci giorni, pagando la droga solo dopo averla venduta. Quindi, anche volendo aderire all’impostazione promossa dalla difesa, secondo cui i due coniugi non dividerebbero con gli altri membri del sodalizio i proventi dei traffici, non essendoci prove convincenti in ordine alla circostanza che gli stessi fungessero da cassieri del clan, si rileva comunque che la diversità di scopo personale … non è ostativa alla realizzazione di un fine comune … Appare evidente … che i due coniugi, pur collocandosi in posizioni contrattuali contrapposte con i fratelli NOME e NOME COGNOME, siano a pieno titolo collocati nella catena del traffico di stupefacenti che contraddistingue il sodalizio da questi ultimi capeggiato, poiché i due odierni appellanti si avvalgono consapevolmente e continuativamente delle risorse dell’organizzazione con la coscienza di farne parte anche in forza del vincolo familiare che li lega al vertice del sodalizio». La Corte territoriale ha aggiunto che «la costante disponibilità all’acquisto delle sostanze stupefacenti di cui l’associazione fa traffico … integra la condotta di partecipazione …».
E’ evidente, quindi, che la Corte territoriale ha condannato i due ricorrenti per avere in modo stabile acquistato sostanza stupefacente dal sodalizio, ma ciò – a fronte della contestazione formulata – integra una violazione dell’art. 521 cod. proc. pen.
A tal riguardo va ricordato che in tema di correlazione tra accusa e sentenza, la giurisprudenza ha chiarito che per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/7/2010, COGNOME, Rv. 248051 – 01; Sez. U, n. 31617 del 26/6/2015, COGNOME, Rv. 264438 – 01; Sez. 6, n. 422 del 19/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278093 01). Ne consegue che l’indagine, volta ad accertare la violazione del principio suddetto, non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551/2010, cit.).
Il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato, invece, quando nei fatti, rispettivamente descritti e ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, in rapporto di eterogeneità ed incompatibilità, rendendo impossibile per l’imputato difendersi (Sez. 3, n. 7146 del 4/02/2021, Ogbeifun, Rv. 281477 – 01; cfr. pure Sez. 4, n.
4497 del 16/12/2015 – dep. 2016, Addio, Rv. 265946 – 01; Sez. 6, n. 899 dell’11/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261925 – 01; Sez. 6, n. 6346 del 9/11/2012 – dep. 2013, Domizi, Rv. 254888 – 01).
Di tale regula iuris non ha fatto buon governo l’impugnata pronuncia, poiché tra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza ricorre un rapporto di eterogeneità sostanziale, per essersi realizzata una vera e propria variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti degli imputati, posti, così, a sorpresa di fronte ad un fatto nuovo, peraltro escluso dal Giudice di primo grado, così da non avere avuto la possibilità di una effettiva difesa.
Essi, infatti, sono stati ritenuti partecipi per avere offerto un contributo quello dì stabili acquirenti, che, però, delinea una condotta diversa sul piano fattuale rispetto all’essere “cassiere” del sodalizio.
Si impone, quindi, l’annulalmento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli, per nuovo giudizio in ordine alla contestata partecipazione dei ricorrenti al sodalizo di cui al capo I).
Il pronunciato annullamento assorbe il secondo e il quarto motivo del ricorso di NOME COGNOME e il secondo, il sesto e settimo motivo del ricorso di NOME COGNOME.
È fondato, in parte, anche il quarto motivo del ricorso di NOME COGNOME.
Quanto alla richiesta di derubricazione del reato di cui al capo D1) nell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90, formulat nell’atto di appello, manca una risposta da parte della Corte del merito, pur a tanto onerata a fronte dello specifico motivo di gravame, con cui l’appellante, ricordati i principi di diritto enunciati da questa Corte, aveva evidenziato elementi ritenuti dal medesimo indici rilevatori dell’ipotesi anzidetta.
Anche in ordine a tale censura si impone l’annullamento della snetnza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto.
Sono infondate le sovrapponibili censure proposte da NOME COGNOME e da NOME COGNOME – rispettivamente – nel terzo motivo e nel quinto motivo dei loro ricorsi.
Con esse i ricorrenti hanno lamentato violazione di legge o vizi di motivazione, per non avere il Giudicante indicato “quale fosse stato l’oggetto della cessione, né nel tipo, né nel quantum” in relazione alla contestazione di cui al capo Z).
Tale elemento non è in grado di incrinare un ragionamento lineare e privo di vizi logici nel valorizzare l’avvenuto acquisito di stupefacente da parte dei ricorrenti nei confronti dei germani Amirante e, quindi, la realizzazione della condotta integrante la norma violata, non ponendosi per contro l’individuazione del quantitativo come elemento costitutivo della fattispecie.
D’altro canto, merita evidenziare come la quantificazione “imprecisata” della merce abbia consentito l’esclusione, in favor rei, della contestata aggravante di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/90.
6. Quanto alle residue censure proposte da NOME COGNOME nel terzo motivo e nel quarto motivo (quanto a quest’ultimo per aspetti diversi dalla richiesta di riqualificazione), va osservato che la Corte di appello, nel negare la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale volta all’escussione degli interlocutor delle conversazioni utilizzate per dimostrare l’addebito, ha affermato la superfluità delle audizioni degli interlocutori in questione rispetto alle risultan processuali in grado di fondare il proprio convincimento, trattandosi di presunti acquirenti di stupefacente che dovrebbero riferire fatti commessi 17 anni prima, in merito a circostanze innominate o che volontariamente gli interlocutori stessi avevano omesso di riferire adottando un linguaggio criptico.
Si tratta di motivazione esente da vizi, tenuto conto dell’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui, nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, prevista dall’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata” (espressamente, Sez. 6, n. 2972 del 4/12/2020, Rv. 280589 – 01).
In relazione sempre al reato di cui al capo capo D1), il ricorrente COGNOME nel quarto motivo ha censurato nel merito il valore probatorio delle intercettazioni e degli altri elementi utilizzati dalla Corte territoriale. La difesa ha svalutato intercettazioni poiché sarebbero state descritte dal giudicante come “laconiche, oltre che intrise di sottintesi e, per di più, prive di riferimenti al reale oggetto dialogo”. Con tali espressioni, però, la Corte territoriale non ha inteso dire che le intercettazioni fossero prive di contenuto probatorio, ma, al contrario, ha rimarcato che proprio l’utilizzo di un linguaggio appositamente criptico da parte dei dialoganti era un elemento significativo al fine della dimostrazione del thema pro bandum.
Il ricorso di NOME COGNOME va rigettato, in quanto le censure sollevate sono nel complesso infondate.
7.1. Il primo motivo è, in parte, infondato e, in parte, non consentito.
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe travisato il contenuto dei dialoghi captati in relazione al capo G) (concorso nel reato di cui all’art. 73 DPR 309/90 per quantitativi di stupefacente trattati con NOME COGNOME il 9 settembre e il 2 ottobre 2006), avendo ritenuto erroneamente che lo stupefacente, oggetto di intermediazione per la vendita e rispetto al quale il ricorrente si sarebbe dovuto attivare nella ricerca di compratori, sarebbe stato già nella disponibilità del venditore.
Esso muove, innanzitutto, da una tesi errata.
Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, infatti, l’attività di intermediazione non implica l’effettiva detenzione dello stupefacente, oggetto di traditio, in capo al venditore.
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, ai fini della consumazione del reato di cessione di sostanze stupefacenti, è sufficiente l’accordo delle parti sull’oggetto e sulle condizioni di vendita, non essendo necessaria la materiale consegna all’acquirente della sostanza (Sez. 4, n. 14276 del 2/12/2022, dep. 2023, A., Rv. 284604 – 01; Sez. 5, n. 54188 del 26/9/2016, COGNOME, Rv. 268749 – 01; Sez. 4, n. 6781 del 23/1/2014, COGNOME, Rv. 259284 01). Si è, in particolare, sottolineato che non rileva che il venditore non abbia l’effettiva disponibilità del quantitativo di stupefacente pattuito, ove sia in grad di procurarselo e consegnarlo entro breve termine (Sez. 4, n. 3950 del 11/10/2011 dep. 2012, Conti, Rv. 251736).
Da tempo, del resto, le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che il reato di cessione di sostanza stupefacente si perfeziona nel momento in cui l’agente manifesta la disponibilità a procurare ad altri droga, indipendentemente dall’accettazione del destinatario, a condizione, tuttavia, che si tratti di un’offer collegata ad una effettiva disponibilità, sia pure non attuale, della droga, per tale intendendosi la possibilità di procurare lo stupefacente ovvero di smistarlo in tempi ragionevoli e con modalità che “garantiscano” il cessionario (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263716 – 01).
Con specifico riguardo all’attività di intermediazione, che rientra tra le condotte illecite descritte nella norma incriminatrice di cui all’art. 73 d.P.R. ottobre 1990, n. 309, ed è ricompresa nella condotta del “procurare ad altri”, si è precisato che con essa si intende punire l’attività illecita di chi agisce al fine provocare l’acquisto, la vendita o la cessione di droga da parte di terzi, perfezionandosi il reato nel momento in cui l’agente manifesta la disponibilità a
procurare ad altri droga, sempre che ne abbia la disponibilità, pur mediata (Sez. 6, n. 46367 dell’11/10/2023, S., Rv. 285882 – 01), ossia sempre che il venditore abbia la possibilità di procurarsi la sostanza.
Di tali principi ha fatto corretta applicazione la Corte territoriale che h affermato che dalle intercettazioni delle utenze in uso al ricorrente era risultato che quest’ultimo, oltre a gestire un’autonoma attività di spaccio al dettaglio di sostanze stupefacenti, che cedeva ai suoi abituali acquirenti previ accordi telefonici, si era adoperato per vendere, in accordo con NOME COGNOME, la droga che quest’ultimo acquistava. La menzionata Corte ha precisato che le stesse intercettazioni dimostravano la serietà dell’offerta, ossia che il ricorrente aveva concretamente la disponibilità a procurare nei confronti del terzo interessato all’acquisto lo stupefacente di cui abbisognava ed era già nelle condizioni di dettarne condizioni economiche di consegna.
Sulla base di queste risultanze la Corte di appello ha correttamente escluso qualsiasi dubbio circa l’ascrivibilità al ricorrente dei reati contestatigli.
Va aggiunto, poi, che non è consentito al ricorrente sollevare censure tese a negare, peraltro, in modo generico, il significato attribuito dalla Corte di appello ai dialoghi intercettati.
Costituisce ius receptum la circostanza che l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando criptico o cifrato, resta questione di mero fatto, come tale rimessa alla valutazione del giudice di merito, purché esposta in termini logici in rapporto alle massime di esperienza utilizzate. Il relativo significato, infatti, non può essere sindacato da questa Corte di cassazione se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esso è recepito, ferma restando la possibilità di prospettare in sede di legittimità «una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il contenuto sia stato indicato in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva e incontestabile» (Sez. U, n. 22471 del 26/2/2015, Sebbar, Rv. 263715 – 01).
Circostanze, queste, neppure dedotte dal ricorrente.
7.2. Il secondo motivo, relativo alla sollecitata qualificazione del reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente di cui ai capi G) ed H) nell’ipotesi di cui al quarto comma dell’art. 73 d.P.R. 309/90, è infondato.
La Corte territoriale ha ricondotto le condotte in esame nell’alveo del primo comma dell’art. 73 cit. in ragione della natura dello stupefacente, quale cocaina, del prezzo pattuito (capo G) e della perfetta coincidenza tra la somma trovata
durante una perquisizione e il valore di mercato delle “tre casse di pesce” cedute (capo H).
Ne conseguiva, secondo il Collegio di appello, che si poteva sostenere, al di là di ogni ragionevole dubbio, che non si trattasse di droghe leggere.
Siffatte argomentazioni sono esenti da vizi rilevabili in questa sede.
8. Il ricorso di NOME COGNOME va rigettato.
8.1. Con il primo motivo, relativo all’affermazione della responsabilità in relazione ai reati ex art. 73 d.P.R. n. 309/90 di cui ai capi Q), R) e T), va rilevato che la Corte territoriale ha ampiamente argomentato in ordine alle ragioni per cui il ricorrente è stato identificato come utilizzatore delle tre utenze telefonich utilizzate per interloquire sui traffici con i fratelli NOME e NOME COGNOME nonché sul significato da attribuire ai dialoghi e alle espressioni utilizzate nell conversazioni.
A fronte di tale motivazione il ricorrente ha di fatto sollecitato una interpretazione diversa delle conversazioni intercettate, ma ciò, come detto con riguardo al ricorso di NOME COGNOME, non è consentito. L’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando criptico o cifrato, resta questione di mero fatto, come tale rimessa alla valutazione del giudice di merito, purché esposta in termini logici in rapporto alle massime di esperienza utilizzate. Il relativo significato, infatti, non può essere sindacato da questa Corte di cassazione se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esso è recepito, ferma restando la possibilità di prospettare in sede di legittimità «una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il contenuto sia stato indicato in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva e incontestabile» (Sez. U, n. 22471 del 26/2/2015, Sebbar, Rv. 263715 – 01).
Va aggiunto che il rilievo difensivo secondo cui il ricorrente, in quanto persona incensurata e agente di commercio di prodotti alimentari residente nella zona di Ostuni, non avrebbe potuto avere contatti diretti con i fratelli Manca soggetti pregiudicati dimoranti nel territorio campano, trova smentita sulla base delle intercettazioni, che comprovano il contrario.
8.2. Il secondo motivo, relativo alla mancata qualificazione del reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente di cui ai capi Q) e 12) nell’ipotesi di cui al quarto e quinto comma dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90, è infondato, tenuto conto della motivazione della Corte di appello, che ha analizzato parametri
adeguati ai fini della riconducibilità delle condotte in esame nell’alveo del primo comma in ragione della natura dello stupefacente quale cocaina (alludendo ai prezzi trattati, all’arresto il 9.2.2007 di Manca e COGNOME mentre portavano kg. 7 di cocaina al ricorrente, alla tipologia di droga trattata dai fornitori dell’offensività della condotta (per i quantitativi e le modalità dell’azione).
8.3. Il terzo motivo è infondato.
Il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non nella massima estensione è stato motivato dalla Corte territoriale sulla base della pluralità delle contestazioni, la cui pena era stata già definita dal Giudice di primo grado, ad ogni buon conto, nei minimi edittali.
L’abbattimento della sanzione non nel massimo astrattamente consentito risulta pienamente legittimo, perché adeguatamente spiegato.
Del resto, ferma la assoluta legittimità di una scelta di riduzione ex art 62bis cod. pen. non coincidente con il terzo previsto come abbattimento massimo, si richiama il tradizionale insegnamento secondo il quale «deve ritenersi adempiuto l’obbligo di motivazione da parte del giudice di merito in ordine alla misura della riduzione della pena per effetto dell’applicazione di un’attenuante, attraverso l’adozione, in sentenza, di una formula sintetica (quale: “Si ritiene congruo”) (Sez. 4, n. 54966 del 20/09/2017, COGNOME, Rv. 271524 – 01; Sez. 6, n. 9120 del 2/07/1998, RAGIONE_SOCIALE ed altri, Rv. 211583 – 01).
9. Il ricorso di NOME COGNOME va rigettato.
9.1. Il primo e il secondo motivo sono privi di specificità.
Questa Corte è ferma nel ritenere, per un verso, che «è inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si deduca l’illegittimità della sentenza d’appello solo perché motivata per relationem alla decisione di primo grado, senza indicare i punti dell’atto di appello non valutati dalla decisione impugnata» (Sez. 3, n. 37352 del 12/3/2019, Marano, Rv. 277161 – 01); per altro verso, che «è legittima la motivazione “per relationem” della sentenza di secondo grado, che recepisce in modo critico e valutativo quella impugnata e si limita a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio, oggetto di contestazione da parte della difesa, omettendo di esaminare quelle doglianze dell’atto di appello, che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice» (Sez. 2, n. 19619 del 13/02/2014, Bruno, Rv. 259929 – 01).
Ferma restando, quindi, l’astratta legittimità della motivazione per relationem, nel caso in esame deve rilevarsi che il ricorrente NOME COGNOME si è limitato, in sede di ricorso per cassazione, a prospettare un vizio della
motivazione, solo perché la stessa è avvenuta in relazione alla motivazione di primo grado, senza però specificare su quali aspetti dell’atto di appello la sentenza impugnata non avrebbe compiuto un’adeguata analisi.
Ad ogni modo, giova evidenziare che dalla lettura della pronuncia in scrutinio emerge, invece, chiaramente che la Corte di merito non si è limitata a rinviare alla motivazione della sentenza del Tribunale, la cui valutazione ha pienamente condiviso, ma ha anche puntualmente vagliato i motivi di gravame, rilevandone con esauriente e coerente percorso valutativo l’infondatezza e così pervenendo a ribadire l’univoco valore dimostrativo delle fonti di prova acquisite, rappresentate principalmente dalle conversazioni intercettate, dimostratesi essenziali non solo a documentare l’esistenza e l’operatività della consorteria, indicata nell’imputazione, ma anche a delineare la partecipazione del ricorrente ad essa.
In particolare, la Corte territoriale ha affermato che il ricorrente, sebbene non conosciuto dai fratelli COGNOME, era risultato in costante contatto con NOME COGNOME da vecchia data e con NOME COGNOME già condannato per il reato associativo con il ruolo di organizzatore. Il coinvolgimento del ricorrente a titolo partecipativo nella compagine associativa si ricavava dalla circostanza che lo stesso operava a stretto contatto con NOME COGNOME che era emerso più volte nel corso delle indagini, sia perché si erano accertati acquisti di stupefacente, oltre che da NOME COGNOME, anche da altri grossisti come i fratelli COGNOME, sia perché risultava aver partecipato con NOME COGNOME alla trattativa relativa all’importazione da Santo Domingo di un ingente carico di cocaina. Unitamente a COGNOME il ricorrente aveva partecipato a tutte le fasi organizzative realizzative all’importazione di carichi di droga dell’associazione, avendo acquistato sistematicamente da NOME COGNOME diversi quantitativi di stupefacente e avendo curato poi le fasi della distribuzione del narcotico e del recupero dei relativi proventi. Il numero degli scambi con gli altri sodali e l commercializzazione dello stupefacente apparivano indici rappresentativi di una vera e propria attività lavorativa che si inquadrava per la sistematicità degli approvvigionamenti nella fattispecie di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/90.
Siffatte argomentazioni sfuggono a ogni rilievo censorio, avendo la Corte territoriale individuato l’apporto concreto fornito dal ricorrente al sodalizio.
9.2. Il terzo motivo è infondato.
La Corte territoriale ha disatteso la richiesta di qualificare il reato di all’art. 74 d. P.R. n. 309 del 90 ai sensi del comma sesto, in quanto le modalità strutturali operative dell’associazione apparivano incompatibili con fatti di minore gravità, atteso che in concreto l’attività associativa, in cui l’imputato e
compenetrato, non si manifestava con condotte rientranti nella previsione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. cit. Ha aggiunto che il contatto con organismi criminali di più ampio respiro, come poteva considerarsi quello riconducibile ad NOME COGNOME e ai fratelli COGNOME, impegnati in traffici internazionali, la capacità finanziaria dimostrata negli approvvigionamenti che Giugliano, unitamente a NOME COGNOME, faceva presso NOME – come testimoniato dalla circostanza che in alcuni casi il quantitativo acquistato aveva come controvalore somme pari a € 9.000 – e la ripetitività degli acquisti apparivano indici di una reiterazione dello smercio particolarmente intenso e frequente, creando un concreto pericolo di ampia diffusione del narcotico, con possibilità di coprire una fetta di mercato non proprio trascurabile, che non convinceva in ordine ad ipotesi di lieve entità.
Trattasi di motivazione corretta, considerato che il reato di associazione ex art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90, come reso evidente dallo stesso tenore letterale di tale disposizione, richiede, quale imprescindibile condizione, che tutte le singole condotte commesse in attuazione del programma criminoso siano sussumibili nella fattispecie dei fatti di lieve entità e di minima offensività previ dal medesimo art. 73, comma 5.
Al riguardo deve ricordarsi che la specificità dell’associazione minore sta nell’essere stata “costituita per” commettere reati ex art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990. Essa, come costantemente affermato da questa Corte, «è configurabile a condizione sia che i sodali abbiano programmato esclusivamente la commissione di fatti di lieve entità, predisponendo modalità strutturali e operative incompatibili con fatti di maggiore gravità, sia che, in concreto, l’attività associativa si sia manifestata con condotte tutte rientranti nell previsione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990» (Sez. 6, n. 12537 del 19/01/2016, COGNOME, Rv. 267267 – 01; il principio è stato ribadito da Sez. 6, n. 1642 del 9/10/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278098 – 01; Sez. 6, n. 49921 del 25/01/2018, C., Rv. 274287 – 01; Sez. 4, n. 53568 del 5/10/2017, Pardo, Rv. 271708 – 01).
Al fine della sussistenza dell’associazione di cui all’art. 74, commi 6, cit., assumono rilievo, quindi, sia il profilo genetico-programmatico sia la concreta dinamica operativa del sodalizio, correlata alla struttura dell’associazione. In altri termini, il momento genetico ha peculiare rilievo, ma, in concreto, deve valutarsi anche l’effettiva operatività del sodalizio, nel senso che, in assenza di una precisa ed espressa presa di posizione dei sodali o di quelli che hanno la possibilità di determinare le scelte, non può non darsi rilievo alla concreta azione, eventualmente eccedente il limite della lieve entità, quale espressione di una prospettiva fin dall’inizio valutata o, comunque, non esclusa.
Sul piano probatorio può assumersi come parametro un dato presuntivo, correlato alle ordinarie modalità strutturali e/o operative con le quali si manifesta l’agire del sodalizio. In presenza di profili strutturali ridotti e di f detenzione, approvvigionamento e spaccio tutti compatibili con la qualificazione in termini di lieve entità, ben potrà attribuirsi tale qualificazione anc all’associazione, a prescindere da una più approfondita verifica del momento genetico e della concreta esclusione a livello programmatico di azioni di maggiore rilievo.
Di contro, in presenza di fatti eccedenti quella soglia, tanto più se coinvolgenti soggetti che abbiano la possibilità di influire sulle determinazioni operative del sodalizio, potrà ragionevolmente presumersi che l’associazione non avesse escluso, ma, anzi, avesse concepito la realizzazione di fatti non di lieve entità. Il che varrà a qualificare corrispondentemente il sodalizio, in assenza di prova contraria, da parte di chi abbia interesse, in ordine a una diversa base progettuale e programmatica e in ordine all’estemporaneità di un’azione di maggior rilievo.
Nel caso in esame, la commissione di reati di spaccio non inquadrabili ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 conduceva ad escludere la qualificazione del delitto associativo ex art. 74, comma 6, d.P.R. cit.
10. Il ricorso di NOME COGNOME è infondato.
La doglianza relativa all’avere riconosciuto un ruolo partecipativo all’associazione in assenza di indici che comprovino la partecipazione al pactum sceleris, non individuabili nel concorso in un solo reato fine (capo M1), si presenta come aspecifica, sia perché in realtà la stessa oblitera il materiale dichiarativo, sia perché il contributo partecipativo viene costruito dal giudicante non solo sui reati scopo, ma anche dall’essere il ricorrente stato individuato essenzialmente come soggetto che godeva di grande fiducia dagli stessi vertici del sodalizio nel mantenere i rapporti con la criminalità organizzata del territorio, tanto da accompagnare COGNOME nel ritiro delle forniture.
La censura sulla mancata qualificazione del reato di cui al capo M1) ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 è infondata.
Ai fini della qualificazione del fatto come di lieve entità ai sensi dell’art. 7 comma 5, cit., deve farsi riferimento ai mezzi, alle modalità, alle circostanze dell’azione ovvero alla quantità e qualità delle sostanze. Tale valutazione deve riguardare sincronicamente tutti gli elementi, al fine di giungere a un giudizio di minima offensività, fermo restando che il fatto non può dirsi lieve allorché anche solo uno di quegli elementi osti a quel giudizio di minima offensività (in tal senso Sez. U, n. 35737 del 24/6/2010, Rico, Rv. 247911 – 01; Sez. 3, n. 32695 del
solo uno di quegli elementi osti a quel giudizio di minima offensività (in tal senso Sez. U, n. 35737 del 24/6/2010, Rico, Rv. 247911 – 01; Sez. 3, n. 32695 del 27/3/2015, Genco, Rv. 264491 – 01; Sez. 6, n. 39977 del 19/9/2013, Tayb, Rv. 256610 – 01).
Di siffatti principi ha fatto corretta applicazione la Corte di appello di Napoli che ha escluso l’invocata fattispecie in ragione dell’entità della domanda/offerta di droga, che investiva l’attività del ricorrente di mediazione tra traffican internazionali, oltre che dell’indubbia capacità dello stesso di reperire in ogni momento sostanze stupefacenti di natura pesante.
In tal modo il Collegio territoriale ha rilevato che la condotta del ricorrente non esprimeva una minima offensività, sicché non poteva essere ricondotta nell’alveo dell’art. 73, comma 5, cit.
11. Il ricorso di NOME COGNOME va rigettato, in quanto i motivi, in esso articolati, sono nel complesso infondati.
11.1. Il primo motivo non è fondato
La Corte territoriale, nel ricondurre le condotte in esame nell’alveo del primo comma dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90, ha fatto riferimento ai fornitori, ossia ai fratelli COGNOME, soggetti noti a livello internazionale nel traffico di cocaina, c viaggi in Spagna a tal fine programmati e realizzati anche da sodali, e all’offensività della condotta per i quantitativi, per la richiesta di campionatur della droga, per il pagamento posticipato a conferma della non irrisorietà dello scambio e altro.
Si tratta, quindi, di un costrutto logico-motivazionale del provvedimento impugnato che, diversamente da quanto lamentato dal ricorrente, ha analizzato parametri adeguati ai fini della qualificazione dei reati contestati al ricorrete.
11.2. Il secondo motivo, relativo al diniego del riconoscimento del vincolo della continuazione per i fatti per cui si procede con quelli giudicati con sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli in data 30 gennaio 2017, non è fondato. Il Collegio territoriale non ha ravvisato elementi per la sussistenza di un unico disegno criminoso, se non quelli connessi alla omogeneità delle violazioni, non sufficienti in quanto i reati sono stati commessi a distanza di un arco temporale tale (pari a due anni) da non permettere di sostenere che nel momento in cui, a febbraio e marzo 2007, l’imputato si organizzava nei traffici con i fratelli COGNOME si prefigurasse il compimento di attività illecite in altri contesti du anni dopo.
In tal modo il Giudice di merito ha fatto corretta applicazione dei principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis: Sez. 2, n.18037 del 7/4/2004 Rv. 229052; Sez. 1, n. 15955 dell’8/1/2016, Rv. 266615), secondo cui l’unicità del disegno criminoso, necessaria per la configurabilità del reato continuato o per l’applicazione della continuazione in fase esecutiva, non può identificarsi con la generale tendenza a porre in essere determinati reati o, comunque, con una scelta di vita, che implica la reiterazione di determinate condotte criminose, occorrendo, invece, che le singole violazioni costituiscano parte integrante di un unico programma, deliberato ab origine nelle linee essenziali per conseguire un determinato fine.
Esplicita risulta la sentenza n. 183 del 2013 della Corte costituzionale che ha precisato come il giudizio sulla continuazione fra reati richieda l’accertamento che il soggetto agente, prima di dare inizio alla serie criminosa, abbia avuto una rappresentazione, almeno sommaria, dei reati che si accingeva a commettere e che detti reati siano stati ispirati ad una finalità unitaria.
In presenza di una serie di reati in successione cronologica attribuiti alla responsabilità dello stesso soggetto, la verifica da svolgere è se si è in presenza di un identico disegno criminoso, ovvero se gli illeciti rivelano la tendenza a delinquere riconducibile a un programma di attività delittuosa da sviluppare nel tempo.
Si richiede, quindi, la progettazione unitaria ed iniziale di una serie ben individuata di illeciti, già concepiti almeno nelle loro caratteristiche essenziali, tale progettazione deve trovare dimostrazione in specifici elementi, atti a farla fondatamente ritenere esistente, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita (Sez. U, n. 28659 del 18/5/2017, Rv. 270074).
Nel caso in esame, la motivazione della Corte di appello, lungi dal trascurare le argomentazioni sottopostele al vaglio, ha enunciato con logicità gli elementi obiettivi che costituivano un ostacolo al riconoscimento della richiesta di unificazione dei reati attraverso l’istituto di cui all’art. 81, secondo comma, cod. pen.
11.3. Quanto al terzo motivo, va rilevato che la richiesta di esclusione della recidiva è stata formulata con l’atto di appello in termini del tutto generici sicché, in quanto originariamente inammissibile, poteva non essere presa in considerazione dal giudice di merito. Ne discende che tale censura non può essere oggetto di ricorso per cassazione (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 44201 del 29/09/2022, Testa, Rv. 283808 – 01; Sez. 3, n. 10709 del
25.11.2014, COGNOME Rv. 262700 – 01, sull’inammissibilità dei motivi di impugnazione generici, pur quando il giudice dell’impugnazione non pronunci in
concreto la sanzione dell’inammissibilità).
Ad ogni buon conto, la Corte territoriale ha confermato la sussistenza della recidiva ai fini del bilanciamento
ex art. 69, comma 4, cod. pen., non
rappresentando per contro il ricorrente significative ragioni di esclusione, tenuto conto del percorso motivazionale sulla gravità dei fatti come indice di elevata
caratura delinquenziale dell’imputato, formulata nella sentenza di primo grado.
Il Tribunale, infatti, aveva rilevato che, «come risulta dal casellario giudiziale, sussiste la recidiva come correttamente contestata a tutti gli imputati
. Di tali recidive non può non tenersi conto attesa la gravità delle condotte degli imputati, la loro negativa personalità (cfr.
precedenti penali, anche specifici), indicativi di una loro pericolosità sociale e di una spiccata propensione a delinquere».
12. Il rigetto dei ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME
COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. pen., la condanna di tali ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME e COGNOME NOME limitatamente ai reati loro rispettivamente contestati ai capi I) e D1), con rinvio per nuovo giudizio su tali capi ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli. Rigetta i ricorsi dei predetti imputati nel resto. Rigetta i ricorsi di NOME, NOME NOME, COGNOME NOME, NOME e COGNOME NOME, che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 19 marzo 2025
Il Consigliere estensore
Il re dOnte