Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 5192 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 5192 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a Cesena il 27/01/1974
avverso la sentenza del 08/05/2023 della Corte d’appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
letta la memoria dell’Avv. NOME COGNOME difensore di COGNOME NOME, a sostegno dell’ammissibilità del ricorso (il quale era stato originariamente assegnato alla Settima sezione penale);
letta la memoria dell’Avv. NOME COGNOME difensore delle parti civili COGNOME NOME e COGNOME NOME, il quale, dopo avere illustrato le ragioni della ritenuta inammissibilità o infondatezza dei motivi di ricorso, ha chiesto che lo stesso sia dichiarato inammissibile o sia rigettato;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata venga annullata con rinvio;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di dell’imputato COGNOME NOMECOGNOME il quale, dopo un’ampia discussione, ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 08/05/2023, la Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del 12/04/2013 del Tribunale di Padova, emessa in esito a giudizio ordinario: a) dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME per essere il reato di truffa continuata e aggravata (ex art. 61, n. 7, cod. pen.) ai danni di NOME COGNOME e di NOME COGNOME a lui contestato estinto per intervenuta prescrizione (essendo l’imputato già stato definitivamente assolto dalla violazione di cui al n. 5 del capo d’imputazione); b) confermava la condanna dello stesso COGNOME al risarcimento dei danni subiti dal La Torre e dal COGNOME, i quali si erano costituiti parti civili, rimettendo le parti davanti al giudice civil la liquidazione di tali danni; c) condannava il COGNOME al pagamento di una provvisionale di C 5.000,00 in favore di ciascuna delle due menzionate parti civili.
Avverso l’indicata sentenza del 08/05/2023 della Corte d’appello di Venezia, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore avv. NOME COGNOME NOME COGNOME affidato a otto motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l’inosservanza dell’art. 552, commi 1, lett. c), e 2, de stesso codice, «quanto alla indeterminatezza dell’imputazione, tempestivamente rilevata dal ricorrente».
Il COGNOME lamenta che l’imputazione non indicherebbe né l’elemento dell’ingiusto profitto né l’elemento del danno altrui, non consentirebbe di comprendere quali fossero i pacchetti viaggio venduti dall’imputato, cosa comprendessero, quale ne fosse l’esatta destinazione, le date, i partecipanti e gli intestatari e che, inizialmente, essa neppure menzionava il COGNOME.
L’indeterminatezza dell’imputazione sarebbe confermata dal fatto che essa fu modificata per tre volte, la prima delle quali in limine litis, nel corso dell’udienza del 15/07/2011, dopo il rigetto dell’eccezione di nullità che era stata sollevata dalla difesa dell’imputato (inserendo, ai punti 2 e 3, che i pagamenti ivi indicati erano stati effettuati dal La Torre «per conto di COGNOME RAGIONE_SOCIALE»).
In proposito, il COGNOME rappresenta che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, nel caso di originaria indeterminatezza dell’imputazione, essa non potrebbe essere integrata o precisata in sede dibattimentale mediante modifiche in limine litis da parte del pubblico ministero, ma il giudice del dibattimento dovrebbe dichiarare la nullità del decreto che dispone il giudizio o del decreto di citazione a giudizio e restituire gli atti al pubblico ministero. Ciò anch in quanto, nel caso in cui fossero consentite le suddette integrazioni o precisazioni, l’imputato verrebbe privato del termine di comparizione di sessanta giorni che è previsto dall’art. 552, comma 3, cod. proc. pen. Il ricorrente evidenzia come, nel caso in esame, tra la menzionata udienza del 15/07/2011 e quella successiva del
30/09/2011 sia intercorso un periodo inferiore a sessanta giorni, tenuto conto della sospensione feriale dei termini.
Sempre in proposito, il ricorrente asserisce che la Corte d’appello di Venezia, con l’affermare che « seguito delle modifiche intervenute il capo d’imputazione risulta sufficientemente dettagliato» (pag. 4 della sentenza impugnata), avrebbe implicitamente confermato l’originaria indeterminatezza del capo d’imputazione e la fondatezza della relativa eccezione della propria difesa, il che avrebbe dovuto comportare, come detto, la declaratoria di nullità, in limine litis, del decreto di citazione e la restituzione degli atti al pubblico ministero.
Il COGNOME rappresenta poi che tanto l’imputazione era e sarebbe ancora indeterminata che, con riferimento alla violazione di cui al punto 4) dell’imputazione, non sarebbe dato comprendere se la consegna di € 25.000,00 da parte del COGNOME «quale corrispettivo per “pacchetti viaggio” in realtà non forniti per un viaggio in Messico e per un viaggio in Marocco» «sia avvenuta per la mancata fornitura dei pacchetti viaggio» (come sarebbe sostenuto dalla Corte d’appello di Venezia alla pag. 9 della sentenza impugnata, sub punto 2.6) ovvero «per la mancata restituzione di un prestito personale» (come sarebbe sostenuto dalla stessa Corte d’appello alla pag. 5 sub punto 2.2 e alla pag. 6 sub punto 2.3 della sentenza impugnata).
Il ricorrente deduce ancora che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello di Venezia, le operate modificazioni dell’imputazione, lungi dal chiarirla, l’avrebbero resa ancora più incomprensibile.
Il COGNOME segnala al riguardo che la seconda modificazione dell’imputazione, operata nel corso dell’udienza del 20/01/2012, nel senso che, in esito a essa, l’imputato avrebbe asserito «di lavorare per la compagnia viaggi RAGIONE_SOCIALE» per «un viaggio in Messico e per un viaggio in Marocco», comporterebbe una chiara inidoneità degli artifici e raggiri «non essendo dato comprendere perché un soggetto avrebbe dovuto inscenare l’artificio di essere operatore RAGIONE_SOCIALE per vendere viaggi di tour operator completamente differenti (RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE)», tenuto conto che le persone offese avevano riferito che il viaggio in Messico era programmato con i RAGIONE_SOCIALE e il viaggio in Marocco era programmato con RAGIONE_SOCIALE.
Inoltre, dalle varie versioni del capo d’imputazione, non sarebbe dato percepire l’idoneità degli artifici e raggiri in quanto «non si vede come una dedotta (ed in realtà mai sostenuta) parentela con l’allenatore della nazionale, una assertiva qualifica di lavoratore Valtur in relazione a viaggi che le stesse parti civil riferiscono esser stati descritti come di tour operator completamente differenti (Il Ventaglio ed RAGIONE_SOCIALE) ed il rilascio di una ricevuta successiva alla dazione del denaro possano avere avuto efficacia determinante nell’acquisto di viaggi, non a
caso del tutto imprecisati, e tantomeno nella dazione di un prestito personale di C 25.000,00, a fronte della relativa richiesta per dedotta illiquidità dell’imputato».
Il ricorrente conclude perciò nel senso sia dell’originaria indeterminatezza dell’imputazione – non integrabile, come detto, alla prima udienza dibattimentale ma che avrebbe dovuto comportare la declaratoria di nullità del decreto di citazione a giudizio – sia della perdurante indeterminatezza dell’imputazione anche dopo le modifiche di essa da parte del pubblico ministero.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la manifesta illogicità della motivazione con riguardo all’ammissione o, comunque, alla non esclusione, della parte civile NOME COGNOME
Il COGNOME lamenta che tale parte civile sia stata ammessa nonostante dal capo d’imputazione che era contenuto nel decreto di citazione a giudizio non vi fosse traccia né del Lovison né dell’acquisto, da parte sua, di un viaggio in Marocco – ma solo dell’acquisto, da parte di NOME COGNOME, di viaggi in Messico -, con la conseguenza che non sarebbe dato comprendere come possa essere stata ammessa la costituzione di parte civile del COGNOME finalizzata al risarcimento del danno da lui asseritamente subito in relazione all’acquisto di un viaggio in Marocco.
Il ricorrente rappresenta ancora che solo dopo il rigetto dell’eccezione che era stata sollevata dalla propria difesa con riguardo alla costituzione di parte civile del Lovison l’imputazione era stata integrata, in sede di atti preliminari al dibattimento, nel corso dell’udienza del 15/07/2011 (inserendo – come si è già detto – ai punti 2 e 3, che i pagamenti ivi indicati erano stati effettuati dal La Torr «per conto di RAGIONE_SOCIALE»).
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l’inosservanza dell’art. 63, comma 2, dello stesso codice, con riguardo all’assunzione della qualità di testimoni delle persone offese COGNOME e COGNOME, nonostante le stesse si dovessero ritenere gravemente indiziate di reità del reato di usura, «reciproco e interprobatoriamente collegato a quello per cui si procede», con la conseguente inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni testimoniali degli stessi COGNOME e COGNOME, sulle quali è stata fondata in modo decisivo la sentenza impugnata.
Il COGNOME sostiene che, al momento del loro esame dibattimentale come testimoni, sia NOME COGNOME sia NOME COGNOME erano già stati raggiunti da gravi indizi di reità del reato di usura, collegato, ai sensi dell’art. 371, comma 2 lett. b), cod. proc. pen., a quello di cui all’imputazione (in particolare, alla violazione di cui al punto 4 di essa), con le conseguenze che gli stessi COGNOME e COGNOME non avrebbero potuto essere sentiti in dibattimento se non con le forme di cui all’art. 210 cod. proc. pen. e che le loro dichiarazioni si dovevano ritenere soggette al regime valutativo previsto dal comma 3 dell’art. 192 cod. proc. pen.
Quanto ai gravi indizi di reità a carico del COGNOME, il ricorrente evidenzia che, come era stato rappresentato dalla propria difesa in sede di formulazione della relativa eccezione, tra i documenti che erano stati allegati alla querela vi era una ricevuta del 12/12/2005, che sarebbe stata rilasciata dall’imputato e che era stata esibita al giudice del Tribunale di Padova prima dell’audizione del COGNOME, nella quale la somma di C 25.000,00 di cui al punto 4) dell’imputazione veniva qualificata dalle parti quale «prestito personale finalizzato ad affare garantito dal sottoscritto con guadagno del 25% netto», con le precisazioni che «il capitale più il guadagno verrà restituito entro e non oltre il 7 marzo 2006 dal sottoscritto in contanti» e che «5.000 euro più il 25% di guadagno verranno restituiti entro martedì 20 dicembre 2005». Da tale ricevuta risultava pertanto la pattuizione di un interesse evidentemente superiore al tasso soglia al quale fa riferimento l’art. 644 cod. pen.
Quanto ai gravi indizi di reità a carico del COGNOME, essi sarebbero emersi anche da quanto era stato affermato in dibattimento dal COGNOME (il quale fu sentito prima del COGNOME), atteso che il COGNOME aveva dichiarato che: a) la somma di C 25.000,00 «non costituiva affatto una compartecipazione ad un affare che poteva riservare profitti o perdite» (così il ricorso) ma «era solo un prestito e basta», fatt a un soggetto, l’imputato, che gli aveva previamente rappresentato una propria crisi di liquidità («lui ha detto ho bisogno di soldi perché sono in crisi di liquidità b) anche il COGNOME aveva partecipato al negozio, mettendo parte del denaro («Questo denaro senta di chi era? Era il mio e del signor COGNOME. Insieme») e presenziando all’incontro nel quale lo stesso negozio era stato concluso.
Con riguardo all’eccezione che era stata formulata dalla propria difesa, il ricorrente contesta le argomentazioni con le quali la stessa è stata ritenuta infondata sia dal Tribunale di Padova sia dalla Corte d’appello di Venezia, oltre che dal pubblico ministero e dalla difesa delle parti civili, rappresentando in proposito che: a) la valutazione della veste nella quale deve essere processualmente sentito il dichiarante che sia stato raggiunto da indizi di reità prescinde dall’avvenuta iscrizione o no del suo nominativo nel registro degli indagati, spettando al giudice di verificare in termini sostanziali, sulla base del quadro indiziario concretamente sussistente, se la persona, nel momento in cui è sentita, era nelle condizioni di assumere la veste di indagato; b) il reato di usura si consuma con la semplice promessa di interessi usurari – qui cristallizzata nella menzionata ricevuta -, con la conseguenza che a nulla rileva che gli stessi interessi possano poi non essere stati richiesti o corrisposti o che il capitale possa non essere stato restituito; c) fini della consumazione dello stesso reato di usura, non è più necessario il requisito dello stato di bisogno della persona offesa, atteso che tale stato è ormai previsto soltanto come circostanza aggravante del reato; d) la promessa di interessi usurari
integra il reato di usura indipendentemente da chi provenga la proposta della relativa pattuizione, con la conseguenza che sarebbe inconferente la considerazione della Corte d’appello di Venezia secondo cui era stato l’imputato a prospettare «mirabolanti guadagni» agli erogatori della somma.
Il COGNOME deduce infine che è la stessa Corte d’appello di Venezia ad affermare che il COGNOME aveva acquisito «consapevolezza successivamente in ordine al carattere illegittimo di tale pattuizione» (pag. 6, sub punto 2.3 della sentenza impugnata), così implicitamente riconoscendo, in modo asseritamente contraddittorio, come, al momento dell’audizione dibattimentale dello stesso COGNOME, la suddetta pattuizione fosse illecita e tale, perciò, da richiedere che i dichiarante fosse sentito con le forme previste dall’art. 210 cod. proc. pen.
2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali delle persone offese NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Nel richiamare la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di valutazione dell’attendibilità delle persona offesa che si sia costituita parte civil con particolare riferimento al caso in cui una parte del narrato di questa sia ritenuta inattendibile, il COGNOME, dopo avere citato il passaggio della sentenza impugnata nel quale la Corte d’appello di Venezia afferma che « vero che il COGNOME ha mostrato delle iniziali ritrosie ad ammettere di aver pattuito con il COGNOME interessi così elevati, ma ciò è frutto evidentemente della consapevolezza in ordine al carattere illegittimo di tale pattuizione» (pag. 6 della sentenza impugnata, sub punto 2.3), deduce che non si comprenderebbe come la stessa Corte d’appello abbia potuto ritenere le dichiarazioni del La Torre nonostante la suddetta considerazione secondo cui le stesse si dovevano reputare inquinate da pregnanti intenti autodifensivi – attendibili e in grado di essere poste a base di una sentenza di condanna.
Secondo il ricorrente, tali argomentazioni varrebbero anche per le dichiarazioni del COGNOME, il quale aveva partecipato alla menzionata pattuizione, anche fornendo denaro proprio.
2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, con riguardo al reato di cui al punto 4) dell’imputazione: a) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l’inosservanza dell’art. 522 dello stesso codice per difetto di correlazione tra accusa e sentenza; b) la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione risultante, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, dalle deposizioni dei testimoni NOME COGNOME e NOME COGNOME (fatte nel corso dell’udienza del 20/01/2012) e dalla già menzionata ricevuta relativa alla dazione,
da parte delle persone offese, della somma di € 25.000,00 per «prestito personale finalizzato ad affare».
Dopo avere rammentato che, con uno specifico motivo di appello, aveva denunciato la nullità della sentenza di primo grado per difetto di correlazione tra l’accusa e la stessa sentenza in quanto il Tribunale di Padova, con riguardo al reato di cui al punto 4) dell’imputazione, lo aveva condannato per la mancata restituzione di un prestito di € 25.000,00, somma la cui dazione era stata invece qualificata nell’imputazione come «corrispettivo per “pacchetti viaggio” in realtà non forniti per un viaggio in Messico e per un viaggio in Marocco», il COGNOME censura la motivazione con la quale la Corte d’appello di Venezia ha rigettato tale motivo di appello. Motivazione secondo cui «anche la dazione di euro 25.000 era finalizzata all’acquisto di pacchetti viaggio, con l’unica differenza che tali pacchett di viaggio sarebbero stati poi rivenduti a terzi e non usufruiti da COGNOME ed i suoi familiari. Proprio il fatto che la somma di denaro fosse, nella prospettazione dell’imputato, finalizzata all’acquisto di pacchetti-viaggio sia pure da rivendere a terzi, fa sì che ci sia la giusta correlazione fra i capi d’accusa e la sentenza» (pag. 9 della sentenza impugnata, sub punto 2.6).
Secondo il ricorrente, tale motivazione sarebbe: a) manifestamente illogica, in quanto la natura di prestito della somma de quo non potrebbe mutare in relazione alla finalizzazione di essa; b) intrinsecamente contraddittoria, per contrasto con altra parte della sentenza impugnata in cui l’erogazione della medesima somma è espressamente ritenuta un prestito personale; c) estrinsecamente contraddittoria, perché in contrasto sia con il contenuto delle dichiarazioni dibattimentali dei testimoni COGNOME e Lovison sia con la più volte menzionata ricevuta.
Nel riportare il contenuto di alcune dichiarazioni di tali due testimoni (pag. 15 del ricorso), il ricorrente deduce che, una volta emerso, per espressa ammissione degli stessi, che la somma di € 25.000,00 costituiva un prestito, «non si vede come la natura di prestito della somma consegnata possa mutare in relazione alla sua finalizzazione alla compravendita di pacchetti vacanze, una volta pacificamente esclusa ogni compartecipazione all’affare» (come era stato espressamente affermato dal teste COGNOME). Secondo il ricorrente: «o la dazione era finalizzata a un prestito o, al contrario, era finalizzata ad un acquisto pacchetti viaggio non usufruiti».
Da tanto discenderebbe che: a) l’imputato non poteva essere tratto a giudizio con l’accusa di essersi fatto consegnare «euro 25.000 dal sig. COGNOME Stefano il 12/12/2005 quale corrispettivo per “pacchetti-viaggio” in realtà non forniti per un viaggio in Messico e per un viaggio in Marocco» ed essere poi condannato per non avere restituito un prestito, pena il difetto di correlazione tra accusa e sentenza;
b) la Corte d’appello di Venezia non potrebbe affermare, nella parte della sentenza impugnata relativa al secondo e al terzo motivo di appello, che la dazione della somma di € 25.000,00 costituiva un prestito e, poi, nella parte relativa al rigetto del motivo concernente l’inosservanza dell’art. 522 cod. proc. pen., affermare contraddittoriamente che la stessa dazione costituiva non un prestito ma, come era stato contestato nell’imputazione, il «corrispettivo per “pacchetti-viaggio” in realtà non forniti per un viaggio in Messico e per un viaggio in Marocco»; c) «un prestito non diventa acquisto di un pacchetto viaggio sol perché la sua finalizzazione è quella della compravendita speculativa, ad opera del solo percipiente, di pacchetti viaggi da commerciare con terzi acquirenti, senza partecipazione dell’erogatore del prestito alla manovra speculativa ma col riconoscimento in suo favore della necessità in ogni caso di restituzione del capitale, maggiorato di interessi in misura fissa ed a data predeterminata, indipendentemente dal buon esito dell’affare»; d) «per affermare la natura truffaldina della mancata restituzione di un prestito risulta necessario che artific o raggiri siano stati inscenati e finalizzati a prospettare artefatte garanzie sulla su restituzione; nel caso di specie, al contrario, risulta pacifico e confermato dalle stesse persone offese che il ricorrente non pose in essere alcun artificio atto a garantire la restituzione della somma a lui mutuata , prospettando anzi del tutto correttamente una crisi di liquidità , cosicché in questo contesto risul manifestamente illogica la motivazione laddove individua testualmente nell’offerta in vendita di prodotti inesistenti l’artificio assertivamente truffal apprestato per garantire la restituzione del prestito»; e) già sul piano astratto, gl artifici e raggiri indicati nell’imputazione non si potrebbero ritenere idonei, se non in modo manifestamente illogico, a fare ottenere l’erogazione di un prestito.
Il ricorrente rappresenta conclusivamente che, mentre la condanna per la mancata restituzione di un prestito integrerebbe, da un lato, un vizio di nullità per difetto di correlazione tra accusa e sentenza e, dall’altro lato, un vizio di manifesta illogicità per l’inidoneità degli artifici o raggiri indicati nell’imputazione a raffo la fiducia dell’erogante nella restituzione della somma mutuata, qualora, invece, si intendesse riferire la dazione dei 25.000,00 euro alla promessa di pacchetti di viaggio poi non forniti, la sentenza impugnata si porrebbe in contrasto sia con le emergenze dibattimentali costituite dalle deposizioni dei testi COGNOME e COGNOME e dalla più volte menzionata ricevuta – elementi di prova i quali fanno esclusivo riferimento ad un «prestito personale» e mai all’acquisto di pacchetti viaggio – sia con quanto ripetutamente e contraddittoriamente affermato nella stessa sentenza impugnata in altre sue parti, nelle quali la Corte d’appello di Venezia qualifica espressamente il negozio come prestito illegittimo.
2.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 7), cod. pen., nonché la conseguente carenza e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata valutazione della questione relativa alla tardività della querela.
Il COGNOME deduce che il ragionamento in base al quale la Corte d’appello di Venezia ha ritenuto la sussistenza della suddetta circostanza aggravante sarebbe erroneo per due motivi: a) in primo luogo, perché, una volta che, in accoglimento del quinto motivo, venga annullata la condanna per il reato di cui al n. 4) dell’imputazione, il danno patrimoniale arrecato alle due parti civili per i residu reati di cui ai nn. 1), 2) e 3) dell’imputazione non si potrebbe ritenere, se non in modo manifestamente illogico, di rilevante gravità; b) in secondo luogo, perché, al fine di valutare la gravità del danno, si dovrebbe considerare non solo che «lo stesso è assertivamente correlato, secondo la stessa imputazione, a più condotte di truffa in continuazione tra loro (nessuna delle quali, di per sé, di rilevant gravità)», ma anche, e soprattutto, che nel processo figurano due persone offese, le cui posizioni erano state distinte in seguito alla modifica dell’imputazione operata nel corso dell’udienza del 15/0/2011, con la conseguenza che, tenuto conto della chiara lettera del n. 7) dell’art. 61 cod. pen., la Corte d’appello Venezia avrebbe dovuto «valutare separatamente la sussistenza dell’aggravante in relazione a ciascuna delle due posizioni e non già riferirsi al danno nel suo complesso, come ha invece erroneamente fatto» (rapportandolo al danno «complessivo causato dalla somma delle violazioni»; pag. 10 della sentenza impugnata, sub punto 2.8).
Da ciò conseguirebbe che, a fronte di un delitto che si doveva perciò ritenere procedibile a querela di parte, la Corte d’appello di Venezia avrebbe dovuto pronunciarsi – come invece non ha fatto, con la conseguente mancanza della motivazione – sulla prospettata doglianza relativa alla tardività delle querele, in quanto proposte entrambe il 09/11/2006, cioè cinque mesi dopo l’invio, da parte delle persone offese per il tramite del proprio legale, della raccomandata del 19/06/2006 in atti, con la quale il La Torre e il COGNOME davano conto di essere pienamente consapevoli della ritenuta truffa commessa nei loro confronti.
Ciò tanto più a fronte dell’affermazione fatta dal La Torre in dibattimento (nel corso dell’udienza del 20/01/2012) secondo cui, «già a gennaio 2013, undici mesi prima di presentare la querela» (così il ricorso), aveva dato ormai per persi i propri soldi («da gennaio li ho dati per persi»).
2.7. Con il settimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla propria individuazione come responsabile dei fatti di cui all’imputazione.
Il COGNOME rappresenta che: a) i testimoni che erano stati escussi in dibattimento non avevano indicato il numero telefonico della persona con la quale avevano interloquito telefonicamente, sicché non vi era prova di chi fosse l’intestatario della relativa utenza, in difetto di indagini sul punto; b) nessun aveva riferito in dibattimento in ordine all’esito degli accertamenti che erano stati svolti sui titoli che erano stati negoziati, mentre il vaglia veloce presente agli a riportava il nome «COGNOME», diverso da quello del ricorrente, sicché questi non poteva averlo incassato; c) pur essendo stato il ricorrente presente all’udienza del 20/01/2012, nel corso della quale furono sentite le persone offese, nessuna di esse lo aveva formalmente riconosciuto o lo aveva indicato come responsabile dei fatti di cui all’imputazione.
Ciò rappresentato, il COGNOME denuncia la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata là dove la Corte d’appello di Venezia afferma che «non sussistono seri dubbi in ordine all’identificazione dell’imputato, che è stato anche presente in aula durante il processo di I grado», atteso che, se è certo che egli fosse il soggetto «presente in aula durante il processo di I grado», non sarebbe altrettanto certo che egli sia l’autore dei fatti in contestazione, atteso che: a) nessuno dei testimoni lo aveva espressamente riconosciuto come il soggetto con il quale essi avevano concluso i negozi di cui all’imputazione; b) «nessuno di loro ha giammai nemmeno solamente riferito di esser certo della identità del soggetto con cui avevano stipulato accordi per averne, ad esempio, verificato un documento di riconoscimento»; c) le persone offese non avevano fornito ulteriori elementi utili all’identificazione nel ricorrente del soggetto co quale avevano trattato, al di là dell’indicazione di un nome e di un cognome che chiunque poteva avere fornito loro e in assenza di alcuna prova sia che l’utenza telefonica mediante la quale avevano comunicato con il sedicente NOME COGNOME fosse intestata o nella disponibilità del ricorrente sia che questi avesse incassato le somme indicate nel capo d’imputazione.
2.8. Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la carenza e/o la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione in ordine all’affermazione della sussistenza degli elementi costitutivi del reato di truffa.
Il COGNOME premette che, con separati motivi di appello, aveva dedotto come, alla luce degli atti di causa, si dovesse ritenere mancante la prova sia dell’elemento oggettivo sia dell’elemento soggettivo del reato di truffa, in quanto: a) la mancata partenza per il Marocco era imputabile a un problema relativo
all’anticipazione di due giorni della data del viaggio, modifica che era stata proposta dall’imputato alle persone offese per un rappresentato overbooking (dovendosi ritenere evidente sia che il costo per l’imputato di un viaggio con partenza 28/12/2005 era analogo a quello di un viaggio con partenza 30/12/2005 – con la conseguente insussistenza di alcun intento truffaldino alla base della proposta anticipazione -, sia che, «trattandosi di anticipazione, le persone offese potevano tranquillamente verificare la veridicità della proposta sostitutiva loro indirizzata senza incorrere in rischi di mancata presentazione alla data prestabilita»); b) la mancata partenza per il Messico era attribuibile a una rinuncia al viaggio per recesso delle parti civili, da esse comunicato per iscritto prima della partenza e che aveva comportato una perdita del diritto alla prestazione per cosiddetto no show. Di tal ché la vicenda avrebbe potuto avere, al più, dei riflessi solo civilistici.
Ciò rammentato, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Venezia, pur avendo riconosciuto che le persone offese esercitarono il menzionato diritto di recesso, con la conseguente loro mancata presentazione alla partenza, in modo contraddittorio e manifestamente illogico avrebbe poi imputato tale mancata presentazione all’assenza del titolo di viaggio e a un preordinato intento truffaldino dell’imputato.
Il COGNOME lamenta altresì che la Corte d’appello di Venezia avrebbe omesso di motivare in ordine alla doglianza – da ritenersi decisiva, in quanto afferente all’effettivo pagamento di un viaggio asseritamente non eseguito – con la quale era stato dedotto che il vaglia veloce che era stato prodotto da NOME COGNOME riportava come beneficiario, come già detto, «COGNOME NOME», con la conseguenza che, trattandosi di un vaglia veloce, il ricorrente non avrebbe comunque potuto incassarlo presso l’ufficio postale, tanto che agli atti mancherebbe la prova sia dell’effettiva riscossione dello stesso vaglia sia, ancor prima, del fatto che l’imputato fosse stato messo a conoscenza dell’emissione di esso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è manifestamente infondato.
La Corte di cassazione ha chiarito che, in tema di citazione a giudizio, l’imputazione deve contenere l’individuazione dei tratti essenziali del fatto di reato attribuito, dotati di adeguata specificità, in modo da consentire all’imputato di difendersi, mentre non è necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’imputazione (Sez. 2, n. 16817 del 27/03/2008, COGNOME, Rv. 239758-01. In senso analogo: Sez. 5, n. 16993 del 02/03/2020, COGNOME, Rv. 279090-01; Sez. 5, n. 6335 del 18/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258948-01).
È stato, altresì, precisato che la contestazione, inoltre, non va riferita soltanto al capo d’imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (Sez. 2, n. 2741 del 11/12/2015, COGNOME, Rv. 265825-01; Sez. 2, n. 36438 del 21/07/2015, COGNOME, Rv. 264772-01; Sez. 5, n. 51248 del 05/11/2014, Cutrera, Rv. 261741-01).
Nel caso di specie, l’originaria imputazione per il reato di truffa conteneva l’indicazione della persona offesa dal reato NOME COGNOME, degli artifici e raggiri compiuti dall’imputato (puntualmente indicati alle lettere “A”, “B” e “C”), dell’errore indotto nella persona offesa per effetto di tali artifici e raggiri, degli di disposizione patrimoniale da essa conseguentemente compiuti (con la precisa indicazione, ai punti “1”, “2”, “3” e “4”, delle somme consegnate all’imputato e delle date di tali consegne) – dalle quali discendeva, in modo del tutto evidente, il profitto procuratosi dall’imputato e il corrispondente altrui danno – del luogo e del tempo delle condotte.
Quanto al nominativo dell’altra persona offesa NOME COGNOME come è stato adeguatamente rilevato dalla Corte d’appello di Venezia, esso risultava sia dalla querela che tale altra persona offesa aveva sporto nei confronti dell’imputato sia dall’indicazione del COGNOME come persona offesa nel decreto di citazione a giudizio.
Tali elementi individuavano i tratti essenziali del contestato fatto di truffa i modo sufficientemente specifico, consentendo senz’altro all’imputato di difendersi, tenuto anche conto che, come si è detto, la contestazione deve essere riferita non soltanto al capo d’imputazione in senso stretto, ma anche agli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, ponevano l’imputato in condizione di conoscere in modo più ampio l’addebito.
A fronte di ciò, si deve ritenere del tutto logico quanto asserito dalla Corte d’appello di Venezia in ordine all’inessenzialità, ai fini della precision dell’enunciazione del fatto, nella prospettiva dell’esercizio del diritto di dife dell’imputato, dell’indicazione delle destinazioni dei viaggi ai quali la condotta del COGNOME ha avuto riguardo.
Posta, pertanto, l’insussistenza della lamentata nullità, ex art. 552, commi 1, lett. c), e 2, cod. proc. pen., dell’originario capo d’imputazione, le successive integrazioni di esso da parte del pubblico ministero, con l’espressa indicazione del COGNOME come altra persona offesa e anche del Marocco come destinazione dei viaggi, si devono ritenere quali legittime precisazioni di un capo d’imputazione già ab origine sufficientemente determinato.
Quanto alla deduzione del ricorrente secondo cui «in nessuna delle ripetute versioni del capo d’imputazione è data percepirsi l’idoneità degli artifici e/o raggiri», si deve rilevare come la stessa attenga non alla validità del capo
d’imputazione ma, eventualmente, al merito dell’accusa di truffa, di cui l’idoneità degli artifici o raggiri costituisce elemento.
2. Il secondo motivo non è consentito.
Con esso, il ricorrente lamenta il vizio di motivazione della sentenza impugnata relativamente all’ammissione o, comunque, alla mancata esclusione, della parte civile NOME COGNOME
In proposito, si deve tuttavia rilevare che, nel proprio atto di appello, come risulta dalla lettura dello stesso, il COGNOME nulla aveva dedotto con riguardo all’ammissione o alla mancata esclusione della suddetta parte civile, con le conseguenze che legittimamente la Corte d’appello di Venezia non ha motivato in ordine a tale questione e che il motivo si appalesa del tutto nuovo, in quanto prospettato per la prima volta davanti a questa Corte e, perciò, non consentito.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
In tema di prova dichiarativa, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, prescindendo da indici formali quali l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo ste della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, sicché il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Sez. 5, n. 39498 del 25/06/2021, COGNOME, Rv. 282030-01; Sez. 4, n. 46203 del 19/09/2019, COGNOME, Rv. 277947-01; Sez. 6, n. 20098 del 19/04/2016, COGNOME, Rv. 267129-01; Sez. 2, n. 51840 del 16/10/2013, COGNOME, Rv. 258069-01).
Nel caso in esame, il Collegio ritiene che la Corte d’appello di Venezia abbia congruamente reputato che le maggiori somme che erano state promesse dal COGNOME al La Torre e al Lovison a fronte del capitale di C 25.000,00 che costoro gli avevano apportato fossero state prospettate alle persone offese come parti del sicuro guadagno («mirabolanti guadagni») che lo stesso COGNOME aveva garantito avrebbe tratto dagli affari che avrebbe intrapreso con lo stesso capitale, cioè, in sostanza, come una cointeressenza ai guadagni dello stesso COGNOME, con la conseguente insussistenza, a carico del COGNOME e del COGNOME, di indizi di reità del reato di usura.
Tale motivazione della Corte d’appello di Venezia appare, come si è detto, del tutto congrua, sicché essa si sottrae a censure in questa sede di legittimità, dovendosi, perciò, ritenere che il La Torre e il Lovison siano stati legittimamente sentiti nella veste di testimoni.
4. Il quarto motivo non è consentito.
Costituisce un principio affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità quello secondo cui occorre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità
soggettiva e oggettiva della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, però, della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., per il dichiarante coinvolto nel fatto (ex plurimis: Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 253214-01; Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, COGNOME, Rv. 279070-01; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312-01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 274489-01; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104-01; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261730-01).
Le Sezioni Unite hanno anche statuito che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, cit.; più di recente: Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01).
Quest’ultima circostanza risulta del tutto assente nel caso di specie, nel quale la Corte d’appello di Venezia ha argomentato la coerenza e la mancanza di contraddizioni del nucleo essenziale delle dichiarazioni delle persone offese, la cui attendibilità aveva anche trovato conferma nell’elemento documentale costituito dalle acquisite ricevute che erano state rilasciate dall’imputato.
Alla luce di ciò, le doglianze del ricorrente appaiono sostanzialmente dirette a ottenere un diverso giudizio di attendibilità delle persone offese, il che non è consentito fare in sede di legittimità.
Il quinto motivo è manifestamente infondato.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno da tempo chiarito che, con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire a un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del suddetto principio non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205619-01. Successivamente, tra le tante: Sez. 5, n. 7581 del 05/05/1999, COGNOME Rv. 215127-01; Sez. 1, n. 9531 del 22/03/1999, COGNOME, Rv. 215127-01; Sez. 1, n. 6170 del 11/03/1997, COGNOME, Rv. 207934-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Venezia ha evidenziato come la somma di C 25.000,00 fosse stata consegnata dal La Torre e dal COGNOME nella prospettiva di un affare che sarebbe consistito nell’acquisto, da parte del COGNOME, di pacchetti viaggio, ancorché da rivendere a terzi anziché da usufruire da parte delle persone offese (come era nel capo d’imputazione).
Il Collegio, da un lato, ritiene che ciò sia sufficiente a escludere una trasformazione radicale dell’imputazione contestata al punto 4) del capo d’imputazione, dall’altro lato, rileva come il COGNOME, attraverso l’iter del processo, tenuto conto di quanto era stato dichiarato dalle persone offese in ordine alla fattispecie concreta e di quanto era emerso dalla più volte menzionata ricevuta, da lui rilasciata, della consegna dei 25.000 euro, si sia venuto a trovare nella condizione effettiva di difendersi adeguatamente in ordine all’oggetto dell’imputazione, in particolare, contestando sia la credibilità delle stesse persone offese sia, comunque, la configurabilità, nella propria condotta, del reato di truffa.
Alla luce di ciò, la Corte d’appello di Venezia ha correttamente ritenuto l’insussistenza della violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza e del diritto di difesa, atteso che, per le ragioni dette, attraverso l’iter processuale, il COGNOME era venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.
Quanto al denunciato vizio della sentenza impugnata in punto di affermata sussistenza, nella fattispecie, di artifici o raggiri, il Collegio reputa del tutto lo l’argomentazione della Corte d’appello di Venezia secondo cui tali artifici o raggiri furono costituiti dalla prospettazione alle persone offese di mirabolanti quanto inesistenti guadagni che sarebbero derivati dall’acquisto e dalla successiva rivendita dei pacchetti viaggio, così da indurre le stesse persone offese in errore circa la bontà dell’affare che era stato loro proposto e a consegnare, perciò, all’imputato la somma di C 25.000,00 che sarebbe stata asseritamente necessaria per l’acquisto dei pacchetti viaggio e, quindi, per la realizzazione dell’affare.
6. Il sesto motivo è manifestamente infondato.
Con esso, il ricorrente deduce che, una volta che, in accoglimento del quinto motivo, venga annullata la condanna per il fatto di cui al n. 4) dell’imputazione, il danno patrimoniale arrecato alle due parti civili non potrebbe essere ritenuto di rilevante gravità, tenuto anche conto che, al fine di valutare la gravità del danno patrimoniale, occorrerebbe considerare separatamente il danno cagionato a ciascuna delle due parti civili.
In proposito, si deve però rilevare che, posto che, attesa la manifesta infondatezza del quinto motivo, la condanna per il fatto di cui al n. 4) dell’imputazione resta ferma, ne discende che già il danno patrimoniale di C 25.000,00, corrispondente alla deminutio patrimonii che è derivata alle persone
offese dalla consumazione della truffa ai loro danni, anche se considerato pro quota, appare di entità oggettiva tale da potere essere ritenuto, come ha correttamente fatto la Corte d’appello di Venezia, come di rilevante gravità.
Da ciò discende che, nel caso in esame, il reato di truffa, che è stato commesso «dal 07/11/2005 al 17/03/2006» (così il capo d’imputazione), essendo aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 7), cod. pen., era in precedenza procedibile d’ufficio ed è divenuto perseguibile a querela di parte solo per effetto dell’art. 2, comma 1, lett. o), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.
Orbene, per le truffe commesse prima dell’entrata in vigore di tale decreto (30/12/2022), questo ha previsto, all’art. 85, una disciplina transitoria secondo la quale, per le stesse truffe, il termine per la presentazione della querela decorre dalla menzionata data di entrata in vigore del decreto legislativo, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato.
Ne discende che, sulla base di detta disposizione transitoria, in tale ipotesi che ricorre anche nel caso in esame – è con riferimento al momento dell’entrata in vigore della nuova legislazione che vanno svolte le valutazioni in ordine alla sussistenza e alla ritualità della condizione di procedibilità della querela, senza che possano rilevare eventuali “deficit” legati a momenti processuali in cui la stessa condizione non era richiesta.
Pertanto, avendo riguardo al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, è sufficiente rilevare come le persone offese NOME COGNOME e NOME COGNOME avessero già espresso la propria volontà punitiva, sia presentando una querela – non rileva se tempestiva o, come è sostenuto dal ricorrente, tardiva (Sez. 2, n. 50672 del 10/11/2023, Ongaro, Rv. 285691-01) – sia, comunque, costituendosi parte civile (costituzione mai revocata), tenuto conto, quanto a quest’ultima considerazione, che la volontà punitiva della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere legittimamente desunta anche da atti che non contengano la sua esplicita manifestazione (in quest’ultimo senso, Sez. 1, n. 26575 del 14/05/2024, COGNOME, Rv. 286741-01, e Sez. 3, n. 27147 del 09/05/2023, S., Rv. 284844-01, le quali, sulla base della ratio sopra indicata, hanno affermato il pienamente condivisibile principio secondo cui la costituzione di parte civile non revocata equivale a querela ai fini della procedibilità di reat originariamente perseguibili d’ufficio e divenuti perseguibili a querela a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022).
7. Il settimo motivo è manifestamente infondato.
Diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, il Collegio ritiene infatti essere del tutto logica la motivazione della sentenza impugnata in ordine all’individuazione dell’imputato come autore dei reati in contestazione, sulla considerazione, pienamente condivisibile, che tale autore si era sempre presentato
alle persone offese, che avevano avuto con lui frequenti contatti, come NOME COGNOME e che l’imputato era anche stato presente in aula, senza che, come la Corte d’appello di Venezia mostra di considerare, ancorché implicitamente, egli avesse mai affermato dì non essere la persona, presentatasi come NOME COGNOME, che aveva avuto i suddetti contatti con le persone offese nelle vicende in questione (né, tantomeno, si potrebbe aggiungere, avesse mai denunciato sostituzioni di persona nelle stesse vicende).
Ne consegue che si deve ritenere del tutto condivisibile la conclusione della Corte d’appello di Venezia in ordine all’insussistenza di «seri dubbi» in ordine all’identificazione dell’imputato quale autore dei reati.
8. L’ottavo motivo non è consentito.
Costituisce un principio pacificamente accolto dalla giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre una diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spess della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747-01; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 26296501).
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Venezia ha ritenuto la sussistenza degli elementi costitutivi della truffa reputando: a) il preordinato inadempimento del COGNOME, sulla base della reputata pretestuosità delle giustificazioni che l’imputato aveva fornito alle persone offese quando queste, preoccupate per la mancata fornitura dei titoli di viaggio, lo avevano invitato a consegnare loro i biglietti, dovendosi considerare pretestuosa sia la richiesta di anticipazione della partenza (tanto più per un viaggio intercontinentale), sia la prospettazione dell’esistenza di una fantomatica pandemia nel luogo di destinazione dello stesso viaggio, sia la proposta di cambiare totalmente tale destinazione, pretestuosità che trovava conferma nella successiva assoluta irreperibilità del COGNOME; b) che il diritto di recesso era stato esercitato dalle persone offese in ragione della perdurante mancata fornitura dei titoli di viaggio, nella vana speranza di recuperare parte di quanto speso.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, tale motivazione del preordinato inadempimento del COGNOME risulta congrua e del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, sicché, alla luce di ciò, l doglianze del ricorrente appaiono in realtà sostanzialmente dirette a ottenere una diversa valutazione del significato da attribuire al compendio probatorio, il che non è consentito fare in sede di legittimità.
Quanto alla censura di omessa motivazione in ordine alla doglianza concernente il vaglia veloce che era stato prodotto da NOME COGNOME, essa non è consentita in quanto, come risulta dall’atto di appello dell’imputato, il suddetto vaglia era relativo a una vicenda riguardante un viaggio in Honduras, «peraltro non imputazione e quindi non oggetto del presente processo» (pag. 13 dell’atto di appello dell’imputato), con la conseguenza che, attesa l’estraneità di tale vicenda all’imputazione, non vi era alcun obbligo della Corte d’appello di Venezia di motivare al riguardo.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, in quanto proposto per motivi manifestamente infondati o non consentiti, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 13/09/2024.