Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 667 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 667 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a BATTIPAGLIA il 05/10/1966
avverso la sentenza del 07/03/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Gen.NOME COGNOME
che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Uditi i difensori:
per la parte civile NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE. avvocato NOME COGNOME del foro di MILANO che, associandosi alle conclusioni del Procuratore Generale, chiede di dichiarare l’inammissibilità del ricorso o in subordine il rigetto come da conclusioni nota spese depositate in udienza.
in difesa di NOME COGNOME avvocato COGNOME del foro di MILANO il quale, dopo aver esposto nei dettagli i motivi di ricorso, insiste nell’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 7/3/2023, la Corte di Appello di Milano GLYPH parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano, emessa in data 5/11/2021, ha ridotto la pena a NOME a mesi 9 di reclusione ed euro 250 di multa, riducendo anche la somma liquidata a titolo di risarcimento danni in favore della parte civile ad euro 3.000 e confermando nel resto la sentenza impugnata dall’imputata.
Il Tribunale di Milano all’esito di giudizio ordinario, pronunciandosi sull’imputazione di cui al reato di cui all’art. 648 cod. pen., riqualificato il reato in quell cui agli artt. 624, 625 n.7 e 61 n. 11 cod. pen., aveva condannato la COGNOME, concessele le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti ritenute, alla pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione e 400 euro di multa, con i doppi benefici di legge e con condanna al risarcimento dei danni nei confronti della costituita parte civile Ospedale San Raffaele di Milano, liquidati in via equitativa in 6.000 euro.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, NOME COGNOME deducendo, i motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, co. 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo la ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 521, 522 e 604 cod. proc. pen 2 per difetto di correlazione tra imputazione e condanna.
Ci si duole dell’avvenuto rigetto dello specifico motivo di appello con una motivazione che si paleserebbe apodittica e apparente, nonché contrastante con le risultanze del giudizio.
L’imputata lamenta di avere affrontato l’intero giudizio per rispondere dell’accusa di cui all’art. 648 cod. pen. e che solo all’esito del dibattimento di primo grado è stata condannata per furto aggravato di cui agli artt. 624, 625 n.7 e 61 n.11 cod. pen., senza che le aggravanti siano mai state contestate dal Pubblico ministero nemmeno in sede di discussione.
La ricorrente contesta l’affermazione dei giudici di merita secondo cui l’imputata, per l’intero procedimento, si sarebbe confrontata con l’accusa di furto e non di ricettazione.
Ciò non corrisponderebbe al vero, secondo la tesi della difesa, e del resto sarebbe incomprensibile il motivo per cui, nella misura in cui non le era stata addebitata una condotta sottrattiva diretta, sarebbe stato contestato il reato di cui all’art. 624 cod. pen.
La ricorrente ritiene che, in realtà, l’accusa,,non avendo alcun indizio in relazione al reato previsto dall’art. 624 cod. peni. GLYPH aveva perciò avviato un’iniziativa
giudiziaria esplorativa contestando il reato di cui all’art. 648 cod. pen., violando i più basilari principi costituzionali e processuali e sostanzialmente realizzando un’inversione dell’onere della prova.
In ogni caso, continua la ricorrente, gli elementi costitutivi del reato di furto non sono stati accertati.
Si richiama il principio stabilito con la sentenza n. 36591/2001 di questa Corte per cui il giudice può qualificare diversamente il fatto contestato purché rimanga identico con riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico.
Si rileva che il giudice di appello nulla dice sulla differenza strutturale delle due fattispecie, pertanto, la ricorrente ne evidenzia le differenze e sottolinea la mancanza degli elementi necessari per la configurazione della condotta di furto nel caso in esame. In particolare, non è stato provato l’avvenuto impossessamento del bene altrui, con fini di profitto, con indicazione del luogo e della data del commesso reato.
La Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso tale violazione affermando che il capo di imputazione indica la data e il luogo di accertamento del fatto con l’elencazione analitica del materiale sottratto.
La COGNOME obietta che la data indicata nel capo imputazione è quella del controllo eseguito dalle forze dell’ordine, allorquando venne redatto il verbale, mentre nulla è stato accertato sul momento consumativo del reato di furto.
Del resto, si sottolinea in ricorso che la stessa sentenza impugnata confermerebbe, successivamente, l’omesso accertamento di tale elemento fondamentale; mentre la sentenza di primo grado afferma trattarsi di condotte reiterate nel tempo senza alcuna altra specificazione.
L’assoluta incertezza sul momento di consumazione del reato finirebbe, peraltro, secondo la tesi prospettata in ricorso, per ripercuotersi sui termini di decorrenza della prescrizione, con ulteriore lesione del diritto di difesa.
In merito all’elenco analitico dei beni, cui fa riferimento la sentenza impugnata, si rileva la mancanza di un verbale di sequestro, della convalida e del decreto di dissequestro, con riconsegna arbitraria ed incerta a soggetti non identificati in mancanza di prova di titolarità da parte del richiedente ospedale.
Si contesta la ritenuta analiticità dell’elenco dei beni in quanto non se ne conoscono le modalità di redazione, la descrizione del materiale , è generica e priva di elementi identificativi, non vi è stata una verifica del materiale e non vi è distinzione tra il materiale reperito . in auto e quello nell’abitazione.
Si contesta la veridicità dell’affermazione che i beni sarebbero stati attentamente controllati dalla dirigente infermieristica COGNOME.
Con un secondo motivo si deducono violazione e vizio di motivazione in relazione all’art. 624 cod. pen. per difetto degli elementi costitutivi e difetto di prova
Il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, senza un’adeguata valutazione dei motivi di appello, si limiterebbe a richiamare la motivazione di primo grado utilizzando argomentazioni di mero stile prive di valutazione del caso concreto, ignorando le risultanze processuali.
Gli elementi costitutivi del reato di furto -si sostiene- verrebbero meramente presunti, in assenza anche di un sufficiente quadro indiziario.
Si contesta nuovamente l’avvenuto riconoscimento del materiale da parte della COGNOME, affermato nella sentenza impugnata.
Dagli atti processuali emerge, invece, che la COGNOME sporgeva querela, contro ignoti, basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni delle forze dell’ordine. La stessa conferma di non aver controllato il materiale ma di aver fatto affidamento sull’elenco redatto dagli operanti, approssimativo e generico.
Del resto, la COGNOME avrebbe dichiarato di essersi trattenuta per soli 30-45 minuti presso il comando, di fatto rendendo oggettivamente impossibile il riconoscimento del materiale, considerato che lo stesso era di ingente quantità e contenuto in sacchi e scatoloni. E che l’ammanco dei materiali non era mai stato notato.
Si eccepisce il mancato accoglimento della richiesta di prova avente ad oggetto l’esibizione dei registri di magazzino.
Si contesta, poi, l’attendibilità illegittimamente conferita alle produzioni di parte civile, in merito al materiale sottratto, anche alla luce della mancanza di un formale sequestro dei beni reperiti presso la Rienzo e quindi dell’eventuale convalida e decreto di dissequestro, con il che si sarebbe violata totalmente la catena di custodia e reso impossibile ogni accertamento attendibile da parte di chiunque ed in primo luogo dell’imputata.
Nessuna garanzia vi sarebbe, in altri termini, — -7, ‘ che l’elenco fornito dalla parte civile, molti anni dopo i fatti, riguardi effettivamente il materiale all’epoc rinvenuto presso la Rienzo.
Ci si duole che la sentenza impugnata abbia attribuito a tale documentazione valore probante assoluto, nonostante l’assoluta parzialità della documentazione rispetto alla totalità del materiale contestato.
L’elenco fornito dalla parte civile -prosegue il ricorso- riguarda solo 46 beni sui circa 700 complessivi indicati nel capo di imputazione, quindi meno del 10%, e, ciò nonostante, la COGNOME sia stata ritenuta colpevole per i fatti di cui all’inter capo di imputazione esclusivamente sulla base di tale elenco.
Peraltro, si evidenzia che nell’elenco fornito dalla parte civile vi sono beni destinati a sedi dell’Ospedale San Raffaele diverse e distanti da quella dove lavorava
la COGNOME risultando quindi obiettivamente impossibile per l’imputata sottrarre materiale in luoghi e sedi a lei estranee.
La ricorrente definisce addirittura insensata la motivazione utilizzata per colmare il vuoto probatorio.
Nella documentazione di parte civile vi sono ordini del 2020, relativi quindi ad un’epoca successiva rispetto a quella dei fatti, pertanto inidonei a dimostrare alcunché.
Si critica l’argomentare della sentenza impugnata sulla circostanza che la parziale corrispondenza dei beni indicati nel tabulato con quelli indicati nel capo di imputazione sarebbe da ricondursi alla presenza di beni sfusi privi di dati identificativi in quanto gli unici beni sfusi sono solo le 63 cuffie monouso, quantitativo irrisorio rispetto al totale.
Si aggiunge, poi, che, come riconosciuto in sentenza, l’imputata ha dato prova di poter acquistare i medesimi prodotti ad uso comune e non prettamente ospedaliero. Di conseguenza sarebbe da escludere il minimo rilievo indiziario rispetto alla contestata riconducibilità dei beni alla parte civile e quindi all’elemento dell’al truità del bene.
La ricorrente contesta la mancanza, nell’impugnato provvedimento, di ogni riferimento all’assenza di prova sulla condotta sottrattiva contestata all’imputata anche negli elementi spazio-temporali.
Si ritiene illogico che l’imputata possa avere posto in essere le plurime condotte sottrattive senza mai essere scoperta o notata. E si evidenzia che, sul punto, non sono state assunte RAGIONE_SOCIALE né sono stati esaminati i filmati di videosorveglianza.
Si contesta, pertanto, la mancata verifica della sussistenza dei singoli elementi costitutivi del reato.
Con un terzo motivo si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 63 e 191 cod. proc. pen., in merito alle asserite dichiarazioni autoaccusatorie di cui al verbale di perquisizione, utilizzate ai fini del giudizio d colpevolezza. Si lamenta che, nonostante i giudici di merito a p pa re n te mente ne riconoscano l’inutilizzabilità, illegittimamente se ne sarebbero serviti per fondare il giudizio di colpevolezza. E si ricorda che l’imputata ha sempre negato di aver proferito le asserzioni contenute nel verbale che si rifiutava di sottoscrivere.
Sul punto la Corte distrettuale -ci si duole- rimanda alla sentenza di primo grado.
La ricorrente ribadisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni sia formalmente che sostanzialmente, mentre i giudici di merito, vanificandone la dichiarata inutilizzabilità, vi fanno continuamente riferimento.
A riprova di ciò si evidenzia che la Corte di appello le considera anche laddove ritiene in alcun modo credibili le spiegazioni fornite dall’imputata rispetto all’effe tivo contesto in cui emerso il nominativo dell’ospedale San Raffaele durante il controllo dei militari. Circostanze queste non comcidenti con quanto ricostruito in sentenza.
Si riporta in ricorso il passaggio della motivazione relativo al verbale elevato dai tarabinieri per evidenziare quelle che vengono definite mere supposizioni e suggestioni elaborate dalla Corte d’appello. Mentre, per contro, pienamente coerente sarebbe la ricostruzione offerta dall’imputata.
Con un quarto motivo si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 191, 252, 253, 259, 262, 263, 352 e 354 cod. proc. pen. 24 e 111 Cost. in merito all’omissione della procedura di sequestro, custodia e consegna di beni sottoposti a sequestro con violazione del diritto di difesa e del contraddittorio.
Ci si duole della violazione delle norme relative al sequestro, convalida dello stesso, dissequestro e restituzione dei beni rinvenuti nella disponibilità dell’imputata.
Si lamenta che ill – nibunale abbia ritenuto irrilevante l’acce -tata violazione degli adempimenti procedurali, posti a salvaguardia delle modalità di acquisizione della prova scientifica, tesa a garantire l’accertamento dei fatti.
La Corte distrettuale -ci si duole- ha rigettato le doglianze sul punto con motivazione definita illogica, temeraria e priva di riscontro in quanto le emergenze dibattimentali dichiarative e documentali richiamate in sentenza appaiono non affidabili.
In relazione alle dichiarazioni degli operanti si osserva che la loro deposizione appare fumosa, incerta e confusa rispetto alle attività espletate.
Peraltro, si sottolinea che l’operato dei militari venne aspramente criticato in udienza dal giudice e dal pubblico ministero proprio in relazione all’assenza degli atti minimi dovuti.
In relazione alle dichiarazioni della COGNOME, si aggiunge che, in realtà, gli accertamenti sui beni non furono svolti dalla stessa ma da tale COGNOME, nemmeno escussa quale teste, né indicata dalla parte civile. Inoltre, la posizione della COGNOME non può definirsi neutrale essendo la stessa dipendente della struttura ospedaliera.
Quanto al verbale di perquisizione, lo stesso dimostrerebbe la violazione di ogni norma procedurale. Dal verbale, infatti, risulta che le operazioni sono durate oltre 7 ore di attività.V” ISLeStigativa, senza alcuna scansione temporale delle attività – , svolte. La perquisizione è risultata positiva solo a fronte di una denuncia contro ignoti postuma, resa durante il periodo temporale in cui il verbale rimaneva aperto.
La COGNOME rilevava l’appartenenza dei beni alla struttura ospedaliera sulla base delle dichiarazioni degli agenti.
Si sottolinea che anche la riconsegna del materiale è incerta dal momento che in primo luogo gli operanti vi provvedevano senza richiedere prova della titolarità, inoltre, mentre si attestava nel verbale che la riconsegna era contestuale, la COGNOME dichiarava che alcuni addetti vi avrebbero provveduto nei giorni successivi.
Ancora si contesta la presenza di innumerevoli contraddizioni con il contenuto del verbale nel quale si attesta la presenza del Brigadiere COGNOME alle operazioni mentre lo stesso dichiarerà nel processo di non essere stato presente alla perquisizione.
Con un quinto motivo si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 27 e 111 Cost., 192,, 533 e 546 cod. proc. pen. per inversione dell’onere della prova e violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Ci si duole che la sentenza impugnata abbia confermato la condanna della COGNOME basandosi esclusivamente sulla mancata prova da parte dell’imputata della provenienza dei beni, così come già aveva fatto il primo giudice alla cui motivazione viene fatto integrale richiamo.
In tal modo, però, si sarebbe realizzata un’illegittima inversione dell’onere della prova, onerando l’imputata di dimostrare la propria estraneità alle accuse, in violazione del principio costituzionale della presunzione di innocenza.
Si aggiunge, inoltre, che, in ogni caso, la motivazione confliggerebbe con quanto documentato dalla COGNOME che ha dimostrato trattarsi di beni acquistati personalmente e utilizzati per la libera professione, il volontariato e la cura della suocera.
Si trattava, infatti, di materiale, per lo più monouso, di USD comune per un’infermiera e non con destinazione ad uso ospedaliero.
Tra l’altro, essendo materiale in gran parte risalente e scaduto, sarebbe stato estremamente difficile recuperare la prova fiscale, obbligando l’imputata ad una probatio diabolica. Inoltre, essendo decorsi oltre 26 mesi dall’acquisto non vi era obbligo di legge a custodire la documentazione fiscale comprovante l’origine.
L’imputata ha comunque fornito quanto in suo possesso ritenuto apoditticamente insufficiente.
Ci si duole della ritenuta inattendibilità, definita incomprensibile, della teste COGNOME che spiegava l’acquisto dei presidi in favore di pazienti che poi rimborsavano la spesa ricevendo la ricevuta di acquisto, così Spiegando anche perché le stesse ricevute non erano più in possesso della COGNOME.
Ci si duole anche della ritenuta inattendibilità della tesi dell’utilizzo per la bera professione cessata nel 2012, trattandosi per lo più di materiale scaduto di cui si doveva disfare.
Con un sesto motivo si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 624 cod. pen., 157, 158 cod. proc. pen. 24 e 111 Cost., per violazione del diritto di difesa in relazione alla decorrenza della prescrizione dal momento di consumazione del reato contestato.
Si lamenta l’avvenuto rigetto della doglianza sull’impossibilità di determinare il termine di prescrizione in assenza degli elementi spazio temporali di commissione dei fatti.
La Corte milanese, pur affermando l’impossibilità di individuare il momento della sottrazione e impossessamento, rileva che in gran parte il materiale ha scadenza tra il 2017 e il 2024 ed è stato consegnato all’ospedale nell’arco temporale dal 2012 al 2019, sostanzialmente attribuendo rilevanza alla data del controllo dei militari risalente al 29/11/2019, ma -obietta la ricorrente- il dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione coincide con il momento di consumazione del reato.
Nel caso in esame si sostiene che non è possibile accertare tale momento, come ammesso nella sentenza impugnata con la conseguente incertezza sull’accertamento dei fatti. Infine, aggiunge la difesa, che, anche volendo considerare valida la documentazione di parte civile, essendo stata consegnata all’ospedale la maggior parte dei beni tra il 2012 e il 2019, è presumibile che le condotte si siano consumate in epoca corrispondente all’acquisto e quindi le condotte sottrattive di tutti beni con date di produzione risalenti fino al 2016 sono ce rtamente prescritte.
Con un settimo motivo si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 69 e 133 cod. pen. per trattamento sanzionatorio eccessivo e mancata applicazione delle attenuanti generiche in via prevalente.
Ci si duole dell’eccessività del trattamento sanzionatorio, anche se ridotto in appello, e di mancanza di motivazione sul rigetto del motivo di appello in punto di bilanciamento tra le circostanze.
Si ribadisce che le aggravanti di cui agli artt. 625 n. 7 e 61 n. 11 cod. pen. sono state applicate nella sentenza di primo grado e mai contestate.
Si lamenta che la motivazione utilizzata dalla corte di appello sia apparente e fondata esclusivamente sul comportamento processuale dell’imputata, già utilizzato per il discostamento dal minimo edittale, con indebita duDlicazione, e privo di attinenza’ col giudizio di bilanciamento.
Si denuncia la non corretta applicazione dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen. che avrebbero determinato una quantificazione coincidente con il minimo edittale, oltre all’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
La torte di appello -si legge in ricorso- non avrebbe tenuto conto delle modalità dell’azione, del danno insignificante considerando il valore dei beni non superiore ad C 1.000 per ammissione della stessa parte civile e della circostanza che la COGNOME è stata dipendente irreprensibile per circa 20 anni, e, a seguito di queste vicende, ha subito un licenziamento a tutt’oggi oggetto di impugnazione innanzi al giudice del lavoro.
Con un ottavo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione alla quantificazione eccessiva e indefinita del risarcimento dei danni.
Ci si duole che la torte di appello abbia accolto solo parzialmente il motivo di gravame sull’eccessiva quantificazione del risarcimento del danno riducendolo ad C 3000 di cui C 2000 per danno materiale ed C 1000 per danno morale, senza alcun riscontro concreto della riquantificazione operata, tanto più che i beni sottratti erano di valore irrisorio.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguente pronuncia e statuizione di legge.
Con memoria depositata in data 28/11/2023, la parte civile, controdeducendo alle argomentazioni della ricorrente, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Le parti hanno concluso in pubblica udienza come riportato in epigrafe in epigrafe
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi sopra illustrati tendono a sollecitare a questa Corte una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità. Peraltro, gli stessi si sostanziano nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito.
Per contro, l’impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l’iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.
Ne deriva che il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
In proposito, infatti, va ricordato che è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il
ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, COGNOME non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, COGNOME, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, COGNOME, Rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, COGNOME, Rv. 240109; Sez. 4, n..34270 del 3/7/2007, COGNOME, Rv. 236945; Sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, COGNOME, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693). E, ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, COGNOME e altri, Rv. 260608).
Peraltro, va evidenziato che già il giudice di appello, a sua volta, aveva rilevato come gli argomenti di censura, in punto di responsabilità, proposti in quella sede costituissero la riproposizione – senza alcun elemento di novità- delle tesi difensive già sottoposte al vaglio del primo giudice, e da quest’ultimo disattese, all’esito di un’analitica disamina del materiale probatorio, con motivazione congrua, coerente con le risultanze processuali, rispondente a criteri di logica e conforme al diritto.
3. La Corte territoriale ha già confutato esaurientemente e logicamente la doglianza oggi riproposta tout court con il primo motivo di ricorso in merito ad un’asserita nullità della sentenza di primo grado per violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. per difetto di correlazione tra imputazione e condanna ritenendolo destituito di fondamento alla luce del costante orientamento di legittimità per cui, in caso di riqualificazione del fatto da furto in ricettazione o viceversa, non sussiste violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza nel caso in cui nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamental, idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza (cfr. Séz. 2 n. 11627 del 14.12.2018). Nello stesso solco è stato anche condivisibilmente rilevato che, in caso di riqualificazione del fatto da furto in ricettazione o viceversa, non sussiste violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza nel caso
in cui nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza (così Sez. 5, n. 36157 del 30/4/2019, COGNOME Rv. 277403 che ha ritenuto che l’imputato fosse stato posto nella condizione di difendersi in relazione al reato di furto ritenuto in sentenza in quanto la contestazione originaria di ricettazione indicava la data del furto, il luogo in cui era avvenuto e l’oggetto della refurtiva, elementi dai quali era agevole individuare il contenuto di impossessamento della condotta avente ad oggetto le cose sottratte).
Come rileva la Corte milanese, nel caso in esame il capo ci imputazione indica la data e il luogo di accertamento del fatto e contiene un elerco analitico del materiale costituente provento del reato; inoltre, nel corso del prccedimento, sin dalle fasi del controllo e perquisizione oltre che nel corso dell’istruttoria (alla quale l’i putata è sempre stata presente) NOME si è sempre confrontata con l’accusa di furto più che con quella di ricettazione.
Ricorda la sentenza impugnata come la difesa abbia reiteratamente affrontato ed esaminato il tema della genesi del procedimento, scaturito dal casuale accertamento del veicolo condotto dalla COGNOME alle ore 12.30 circ:a del 29.11.2019 e dalle dichiarazioni rese dalla stessa nell’immediatezza del fatto ai militari (certamente inutilizzabili ai fini del giudizio ma pienamente utilizzabili per la prosecuzione delle indagini ex art. 350 comma 5 c.p.p.) e la COGNOME, in sede di esame, ha negato di avere mai rilasciato una confessione di furto del materiale.
Corretto, pertanto, appare il rilievo che l’imputata è stata messa in condizione di difendersi dal fatto ritenuto in sentenza e non può dirsi sussistente la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, dovendo peraltro considerarsi l’ormai consolidato orientamento di legittimità secondo cui l’osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di c l’imputato è chiamato a rispondere, sancito dall’art. 111, comma terzo, Cost. e dall’art. 6 CEDU, comma primo e terzo, lett. a) e b), così corre interpretato nella sentenza della Corte EDU nel proc. Drassich c. Italia, è assicurata anche quando il giudice di primo grado provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l’imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione (cfr. ex multis Sez. 4, n. 49175 del 13/11/2019, D., Rv. 277948 alla cui articolata e condivisibile motivazione si rimanda).
4. Manifestamente infondati sono anche il secondo, il terzo e il quinto Motivo di ricorso.
In relazione agli stessi, in premessa, va ricordato che la denuncia di violazione di norme costituzionali o di norme CEDU non integra un caso di ricorso per cassazione a norma dell’art.606 lett. b) cod. proc. pen., ma legittima la proposizione della questione di legittimità costituzionale (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. 2015, COGNOME, Rv. 261551). Il che non è avvenuto nel caso in esame.
Il principio che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduce la violazione di norme della Costituzione o della CEDU, poiché la loro inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 cod. proc. pen. e può soltanto costituire fondamento di una questione di legittimità costituzionale è stato anche ribadito di recente (Sez. 2, n. 12623 del 13/12/2019 dep. 2020, Leone, Rv. 279059 che ha sottolineato, quanto alla censura riguardante la presunta violazione della CEDU, che le sue norme, per come interpretate dalla Corte EDU, rivestono il rango di fonti interposte integratrici del precetto di cui all’art. 117, comma 1, Cost. sempre che siano conformi alla Costituzione e compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti).
Inoltre, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, cui il Collegio aderisce, poiché la mancata osservanza di una norma processuale intanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall’art. 605, co. 1, lett. c) cod. proc. pen., non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata» (così questa Sez. 4, n. 51525 del 4/10/2018, M., Rv. 274191; in conformità v., già in precedenza, Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, COGNOME e altro, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2(112, F., Rv. 253567; Sez. 6, n. 7336 del 8/1/2004, Meta ed altro, Rv. 229159-01; Sez. 1, n. 9392 del 21/05/1993, COGNOME, Rv. 195306; più recentemente, v. Sez. 6, n. 4119 del 30/05/2019, dep. 2020, Romeo Gestioni s.p.a., Rv. 278196).
La ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della torte di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto -e pertanto immune da vizi di legittimità.
La sentenza impugnata -diversamente da quanto sostiene la ricorrente- non fonda l’affermazione di responsabilità sulle dichiarazioni autoaccusatorie rese nell’immediatezza dei fatti dalla stessa, che ritiene inutilizzabili, ma su un univoco, grave, preciso e concordante quadro indiziario che, evidentemente, non poteva non tenere conto del contegno tenuto dalla COGNOME nel corso del controllo su strada.
I giudici del gravame del merito, hanno dato infatti conto degli elementi di prova in ordine alla responsabilità della prevenuta, evidenziando come gli argomenti con cui si deduceva in quella sede l’insussistenza del reato ascritto non
svolgevano alcuna ragionata critica al percorso motivazionale della sentenza impugnata e riproponevano circostanze, già attentamente vagliate e correttamente valutate dal primo giudice, inidonee ad affievolire il compendio probatorio in atti, dimostrativo oltre ogni ragionevole dubbio della penale responsabilità dell’appellante.
Come ricorda il provvedimento impugnato, il 29/11/2019 NOME, dirigente infermieristico dell’Ospedale San Raffaele, dopo avere riconosciuto il materiale sanitario ad uso ospedaliero e soprattutto operatorio, rinvenuto dai Carabinieri all’interno dell’automobile e dell’abitazione di Rienzo Rosa, proponeva querela nei confronti di ignoti per la sottrazione dei prodotti riportati nel capo di imputazione.
Ferma l’inutilizzabilità ai fini della decisione delle dichiarazioni confessorie contenute nel verbale di perquisizione del 29/11/2019, i giudici del gravame del merito ricordano che, dopo il ritrovamento della notevole quantità di materiale sterile ad uso ospedaliero all’interno dell’automobile Golf condotta dall’imputata (infermiera professionale da circa 15 anni in servizio presso la sala operatoria del San Raffaele al blocco A, B e C) i militari estendevano la perquisizione all’abitazione dell’imputata dove, nella sala, venivano rinvenuti vari sacchi contenenti analogo materiale sterile ad uso ospedaliero meglio descritto nel verbale di denuncia di furto. E’ risultato provato che, al momento del controllo, l’imputata si stava recando al lavoro (dovendo prendere servizio alle ore 13.15).
La COGNOME come ricorda la sentenza impugnata, ha dichiarato in sede di esame che ebbe a riferire agli operanti di avere trovato chiusa la discarica dove intendeva portare il materiale sanitario scaduto, di sua proprietà, che stava trasportando; e ha aggiunto che nel 2011 -2012 aveva fatto un trasloco e, a seguito di tale trasloco, aveva, per anni, dimenticato in un angolo del salone questo materiale che la sera precedente il controllo (28.11.2019) aveva deciso di caricare in auto e smaltire in discarica.
Ebbene, con tali dichiarazioni la Corte territoriale si è confrontata criticamente, evidenziando come già fossero scarsamente verosimi’i e non sorrette da alcuna allegazione difensiva, ma anche che risultano smentite dalle data di consegna del materiale al San Raffaele, successive al 2012, quali emergenti dai DDT richiamati nel tabulato allegato alla memoria della parte civile del 2.1.2023.
Secondo la logica motivazione del provvedimento impugnato, le affermazioni difensive che lamentano le incerte modalità di redazione dell’elenco del materiale rinvenuto nell’abitazione e nell’auto della kienzo, l’assenza di un verbale di sequestro e dei conseguenti successivi atti, l’asserita violazione della catena di custodia e le censure afferenti l’inattendibilità della documentazione prodotta dalla parte civile (a sostegno della provenienza del medesimo dall’Ospedale San Raffaele) non
si confrontano con le emergenze dibattimentali dichiarative e documentali (id est, le dichiarazioni degli operanti, della COGNOME, il verbale di perquisizione e relativ convalida, la querela del 29.11.2019) e si risolvono in affermazioni speculative e apodittiche del tutto illogiche e pertanto prive di qualsiasi efficacia persuasiva.
Altrettanto logico appare il rilievo che, considerato il risalente rapporto di lavoro tra l’imputata e l’Ospedale San Raffaele, la mancata segnalazione di qualsiasi ammanco da parte della struttura ospedaliera, il tipo di controllo, del tutto casuale ed ordinario, eseguito dagli operanti alle ore 12,30 circa del 29 novembre 2019 e l’asserito imminente inizio del turno di lavoro dell’odierna ricorrente (ore 13,15) non appare in alcun modo credibile che, nell’immediatezza dei fatti, la COGNOME abbia riferito -come la stessa ha sostenuto in sede di esame- di essere proprietaria del materiale presente in auto a fini di smaltimento in quanto scaduto e che, a fronte di tali tranquillizzanti affermazioni, i Carabinieri abbiano deciso di estendere la perquisizione anche all’abitazione, rinvenendo all’interno della sala ulteriori sacchi di materiale ospedaliero.
Al contrario, secondo la coerente conclusione dei giudici del gravame del merito, tali dichiarazioni dell’imputata risultano smentite dagli stessi agenti (che hanno confermato in dibattimento il contenuto del verbale di perquisizione) e dalla teste COGNOME così come è del tutto inverosimile ed illogico pensare che gli operanti siano riusciti ad individuare, senza l’indicazione espressa della COGNOME, proprio l’ospedale San Raffaele quale titolare dei beni.
Il riconoscimento del materiale da parte della COGNOME e gli analitici e approfonditi accertamenti svolti dalla parte civile, compendiati nel tabulato già in atti e nuovamente allegato alla memoria difensiva del 2.1.2023 – recante tra l’altro il codice identificativo, la data di scadenza, il numero di lotto di appartenenza, il documento di trasporto e il nome del commerciante di n. 11 tipologie di prodotti indicati nel capo di imputazione (precisamente teli da tavolo, telo tavolo rinforzato, copertura con lacci, tasche porta strumenti, strisce adesive barrier, teli adesivo, telo paziente, pacchi di guanti, fiale di dermabond e camici chinirgo) – dimostrano, secondo la concorde valutazione dei giudici del merito, oltre ogni ragionevole dubbio, la proprietà in capo all’ospedale San Raffaele del materiale ritrovato. E, secondo la logica considerazione che si legge in sentenza, la solo parziale corrispondenza tra i prodotti indicati nel tabulato e quelli indicati nel capo di imputazione è da ricondursi alla presenza di beni sfusi privi di dati identificativi rispetto ai qua la parte civile ha comunque documentato l’avvenuto acquisto di materiale identico da parte dell’ospedale, comprovandone il consumo corrente nella propria sala operatoria all’epoca dei fatti. Tale incongruità, pertanto, non affievolisce, secondo la
logica motivazione del provvedimento impugnato, la coerenza del compendio probatorio e anzi ne rafforza l’efficacia dimostrativa denotando la scrupolosità e l’assenza di intenti recriminatori o di enfatizzazione della parte civile.
La Corte territoriale conclude, pertanto, nel senso che le prospettazioni difensive tese a sostenere la proprietà dei prodotti sanitari in capo all’imputata e gli alternativi utilizzi dei medesimi erano state già ampiamente superate dalla condivisibile motivazione della pronunzia di primo grado (di cui vengono richiamate pagg. 5 e 6) e che nessuna persuasiva critica è stata allegata per affievolirne la convincente coerenza e linearità.
5. Manifestamente infondato è anche il quarto motivo di ricorso. Come ricordava già il giudice di primo grado nel corso del dibattimento, l’imputata e la sua difesa hanno reiteratamente contestato l’operato degli agenti che hanno eseguito il controllo e la perquisizione, giungendo a formulare gravissime accuse a loro carico, risultando acquisita al fascicolo del dibattimento, per come prodotta dalla difesa all’udienza del 1/10/2021 T una denuncia querela presentata dall’imputata nei confronti degli agenti COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME e del comandante COGNOME per reati di abuso d’ufficio, rifiuto e/o omissione di atti di ufficio In particolare, le contestazioni attengono da un lato, all’operato degli agenti i quali non avrebbero provveduto al sequestro della merce, disponendone immediatamente la restituzione all’ospedale, sicché sarebbe impossibile individuare dettagliatamente quanto trovato nella disponibilità dell’imputata. Sotto altro profilo, l’imputata nel corso del suo esame ha denunciato la falsità del verbale di perquisizione nella parte in cui è stata verbalizzata la sua dichiarazione confessoria di furto del materiale (quando, secondo l’imputata, avrebbe solo chiesto di poter contattare l’Ospedale per segnalare il ritardo al lavoro, dichiarando che il materiale era di sua proprietà ed utilizzato per la libera professione e per curare la suocera) oltre che il comportamento degli operanti i quali avrebbero agito nei suoi confronti con un atteggiamento prevaricatorio, persecutorio e in violazione dei suoi diritti. In particolare, l’imputata non sarebbe mai stata informata della facoltà di farsi assistere da un legale nel corso delle operazioni (diversamente da quanto attestato nel verbale di perquisizione); il verbale di perquisizione non sarebbe stato scritto in sua presenza e non ne veniva data lettura; gli operanti l’avrebbero ingiustificatamente privata dei documenti della vettura, delle chiavi dell’auto e del telefono (non consentendole di effettuare telefonate). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Sotto questo profilo, già il giudice di primo grado, a pag. 3 della propria pronuncia, rammentava correttamente che il verbale di perquisizione ha natura di atto pubblico, formato dai pubblici ufficiali nell’esercizio e per finalità inerenti
pubblica funzione, e, nella parte in cui descrive un accertamento svolto dal pubblico ufficiale, ha un’attendibilità intrinseca, che può essere infirmata solo mediante una specifica prova contraria. Ne consegue che il verbale di perquisizione oggetto del presente procedimento fa piena prova, non essendo stato smentito da alcuna allegazione di segno contrario, delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti come avvenuti in sua presenza.
Il tribunale ricordava anche che in dibattimento gli agenti COGNOME e COGNOME hanno confermato il contenuto del verbale di perquisizione sopra indicato; hanno quindi dichiarato che il controllo veicolare era scaturito dall’ateggiamento agitato della conducente, ovvero l’odierna imputata, e dalla presenza, all’interno del veicolo, di qualcosa di voluminoso coperto da teli verdi («all’interno di tutta l’autovettura, si vedevano dei teli come se nascondessero qualcosa», «come già dichiarato nei verbali, aveva un atteggiamento agitato, cercava di essere un po’ di fretta, andar via e quindi è stato proprio lì che decidevamo di approfondire il controllo»); hanno poi confermato che il coinvolgimento dell’Ospedale San Raffaele avveniva su espressa indicazione dell’imputata. Circostanza ribadita anche dalla testimone COGNOME, responsabile del servizio infermieristico dell’ospedale, la quale ha riferito di essere stata contattata ed informata che la loro dipendente COGNOME era stata fermata dai arabinieri chiedendo che non venisse avvisato l’ospedale o la direzione perché aveva il timore di essere licenziata «perché il materiale era dell’ospedale».
I giudici del merito ricordano che l’imputata ha affermato di essere stata lei, e non i éarabinieri, ad avvisare l’Ospedale solo per comunicare che non si sarebbe presentata al lavoro in orario. Ma già il giudice monocratico, con motivazione logica e congrua con cui in concreto nell’atto di gravame nel merito la ricorrente non si è confrontata, ha rilevato come tale affermazione risulti da un lato smentita dagli stessi agenti (i quali nel corso del dibattimento hanno confermato il contenuto del verbale) oltre che dalla COGNOME, e sotto altro profilo, sia del tutto inverosimile ed illogico pensare che gli operanti, a fronte del numerosissimo materiale rinvenuto in possesso dell’imputata, siano riusciti ad individuare senza l’indicazione espressa da parte dell’imputata, proprio l’ospedale San Raffaele quale ttolare dei beni.
Quanto invece alle assente violazioni ed omissioni da parte degli agenti relativa all’iter di accertamento dei fatti e di verifica del materia’e – tali da rende illegittimo il loro operato e/o comunque impossibile individuare con certezza quale materiale è stato prelevato alla imputata – già il giudice di primo grado aveva L1) GLYPH F osservatoit teste COGNOME avesse riferito che l’elenco dettagliato del materiale rinvenuto ..Istato redatto dagli stessi operanti («l’elenco fisicamente l’abbiamo fatto noi, cioè abbiamo conteggiato noi il materiale» e tutti i prodotl:i erano stati «classificati per marca, per prodotto, quantificati e trascritti nel verbale») e poi trasfuso
nel corpo del verbale di ricezione di denuncia sporta dalla COGNOME. E anche la COGNOME ha confermato tale circostanza, affermando che, quando è giunta in caserma, i militari avevano già stilato un elenco del materiale.
Corretto è anche il rilievo che la lamentata omissione o inesatto adempimento delle formalità relative al sequestro del materiale trovato in possesso dell’imputata non incide sulla legittimità dell’atto stesso, in quanto l’elenca del materiale è poi confluito nella denuncia presentata dall’ospedale San Raffaele e nel verbale di perquisizione, ritualmente convalidato.
6. Manifestamente infondato è anche il sesto motivo di ricorso.
Ed invero, correttamente i giudici di appello rilevano che, siccome accertato nel novembre 2019 il reato non può ritenersi prescritto in quarto nessun elemento consente di datare – come sostiene la difesa della ricorrente – l’impossessamento dei prodotti a cinque anni prima della loro data di scadenza né, dall’esame degli atti, è possibile individuare con precisione il momento della sottrazione e conseguente impossessamento. Peraltro, viene rilevato che la maggior parte del materiale sottratto ha una data di scadenza compresa tra il 2017 e il giugno 2024 ed è stato consegnato all’Ospedale in un arco temporale compreso dal 2012 al 2019, come emergente dal tabulato già richiamato.
7. Manifestamente infondati sono anche il settimo e l’ottavo motivo di ricorso.
La Corte territoriale ha ritenuto che il giudizio di bilanciamento delle circostanze non fosse suscettibile di riforma poiché le circostanze indicate nell’atto di appello (partecipazione alle udienze e sottoposizione ad esame) appaiono a tal fine scarsamente significative , non avendo fornito l’imputata alcun elemento utile alla ricostruzione della vicenda. E perché non si ravvisano ulteriori elementi positivi a tal fine valorizzabili.
L’obbligo motivazionale è dunque assolto nel solco del consolidato e condivisibile dictum di questa Corte di legittimità secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U., n. 10713 del 25/02/2010, COGNOME, Rv. 245931; conf. Sez. 2 n. 31543 dell’8/6/2017; COGNOME, Rv. 270450; Sez. 4, n. 25532 del 23/5/2007, COGNOME Rv. 236992; Sez. 3, n. 26908 del 22/4/2004, COGNOME, Rv. 229298).
La già avvenuta scadenza di alcuni prodotti al momento dell’accertamento ha portato, peraltro, i giudici del gravame del merito a ritenere affievolito il profit
conseguito dell’imputata e li ha perciò indol:ti a ridurre la pena a mesi 9 di reclu- sione ed euro 250,00 di multa. Appaiono, pertanto immotivate le reiterate do-
glianze in punto di trattamento sanzionatorio.
Così come sono del tutto generiche ed infondate quelle afferenti all’entità del disposto risarcimento del danno, laddove anche in questo caso la Corte territoriale,
tenuto conto dell’esiguo valore economico di alcuni beni sottratti – documentato dagli acquisti postumi effettuati dall’imputata e non smentito da diverse produzioni
della parte civile – ha ridotto ad euro 3.000 la somma liquidata a titolo di risarci- mento dei danni, di cui curo 2.000 a titolo di danno materiale ed curo 1.000 quale
danno morale.
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. i516 cod. proc. pen,
8.
non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissi- bilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della san- zione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo e alla rifusione delle spese di assistenza e di rappresentanza della parte civile liquidate come in dispositivo P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese di giudizio sostenute nel presente grado di legittimità dalla parte civile RAGIONE_SOCIALE che liquida in euro tremila oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 19 dicembre 2023
Il Co igliere estensore
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Il Presidente