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Contraffazione marchi: la Cassazione chiarisce i reati

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per contraffazione marchi (art. 473 c.p.), rigettando il ricorso di un imputato. La sentenza chiarisce che per integrare il reato è sufficiente la capacità del prodotto falso di ingenerare confusione nei consumatori, ledendo la fede pubblica, senza che sia necessaria un’imitazione perfetta. La Corte ha inoltre specificato che una motivazione dettagliata sulla pena è richiesta solo se questa supera il medio edittale, confermando la correttezza della sanzione applicata nel caso di specie.

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Pubblicato il 5 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Contraffazione Marchi: Quando un Falso Diventa Reato Secondo la Cassazione

La contraffazione marchi è un fenomeno che danneggia non solo le aziende titolari dei brand, ma anche la fiducia dei consumatori. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 12095/2025) offre importanti chiarimenti su quando la riproduzione di un marchio integri un reato grave, distinguendolo da illeciti minori. Analizziamo questa decisione per capire i principi applicati dai giudici.

I Fatti del Caso: Dalla Condanna al Ricorso in Cassazione

Il caso ha origine dalla condanna di un individuo, confermata in primo grado e in appello, per il delitto di contraffazione e alterazione di marchi di prodotti industriali, previsto dall’art. 473 del codice penale. L’imputato, attraverso il suo difensore, ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali:

1. Errata qualificazione del reato: Secondo la difesa, il fatto non costituiva il grave delitto di contraffazione, ma una fattispecie meno severa (art. 517 c.p.), poiché i prodotti falsificati non erano idonei a ingenerare confusione nei consumatori. Di conseguenza, mancando la querela richiesta per quest’ultimo reato, l’azione penale non avrebbe dovuto procedere.
2. Errata determinazione della pena: Si contestava la decisione della Corte d’Appello di considerare equivalenti le circostanze attenuanti generiche e le aggravanti, senza un’adeguata motivazione e senza tener conto del comportamento collaborativo e della personalità dell’imputato.

La Decisione della Corte di Cassazione sulla contraffazione marchi

La Suprema Corte ha respinto integralmente il ricorso, giudicandolo infondato. I giudici hanno confermato la decisione della Corte d’Appello, ribadendo la correttezza sia della qualificazione giuridica del fatto come contraffazione marchi ai sensi dell’art. 473 c.p., sia della determinazione della pena. L’imputato è stato quindi condannato al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, una nota multinazionale del settore.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte di Cassazione ha basato la sua decisione su principi giuridici consolidati, fornendo una motivazione chiara e strutturata su entrambi i punti sollevati dalla difesa.

Il Reato di Contraffazione e il Principio di Confondibilità

Il punto centrale della sentenza riguarda la natura del reato di contraffazione marchi. La Corte ha ribadito che l’obiettivo della norma (art. 473 c.p.) è proteggere la “fede pubblica”, ovvero la fiducia collettiva nell’autenticità dei marchi che distinguono prodotti e servizi. Perché il reato si configuri, è necessario che la contraffazione sia materialmente realizzata e che sia idonea a:

* Ingenerare confusione nei consumatori.
* Nuocere al generale affidamento riposto nel marchio.

Non è richiesta una riproduzione perfetta e identica all’originale. Anche un’imitazione parziale o con lievi imperfezioni integra il reato, purché sia tale da poter ingannare un consumatore medio. Nel caso specifico, i giudici di merito avevano correttamente fondato la loro decisione sulla relazione di un consulente tecnico, che aveva attestato l’idoneità decettiva dei prodotti sequestrati. Le obiezioni della difesa su piccole imperfezioni delle confezioni sono state ritenute generiche e irrilevanti.

La Determinazione della Pena e il Bilanciamento delle Circostanze

Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso, la Cassazione ha chiarito un importante principio in materia di motivazione della pena. I giudici hanno affermato che una motivazione specifica e dettagliata sui criteri dell’art. 133 c.p. è necessaria solo quando la pena inflitta è pari o superiore al “medio edittale” (il punto intermedio tra il minimo e il massimo previsto dalla legge). Nel caso in esame, la pena di un anno di reclusione e 3.000 euro di multa era inferiore al medio edittale previsto per l’art. 473 c.p. (che va da sei mesi a tre anni di reclusione). Pertanto, la motivazione della Corte d’Appello, che aveva ritenuto la pena adeguata, è stata considerata sufficiente e congrua. Il semplice richiamo alla personalità o al comportamento dell’imputato non è stato ritenuto sufficiente per censurare la decisione sul bilanciamento delle circostanze.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Pronuncia

Questa sentenza riafferma principi fondamentali nella lotta alla contraffazione marchi. In primo luogo, sottolinea come il bene giuridico tutelato sia la fiducia del mercato e dei consumatori, più che il mero interesse economico del titolare del marchio. In secondo luogo, chiarisce che la valutazione sulla capacità ingannatoria di un prodotto contraffatto non deve basarsi su un’analisi minuziosa alla ricerca di imperfezioni, ma sulla potenziale confondibilità per l’acquirente medio. Infine, offre un criterio pratico per i giudici sulla motivazione della pena, razionalizzando l’obbligo di una giustificazione approfondita solo per le sanzioni più severe.

Qual è l’elemento chiave per configurare il reato di contraffazione di marchi (art. 473 c.p.)?
L’elemento chiave è che la contraffazione o alterazione del marchio sia materialmente realizzata e idonea a ingenerare confusione nei consumatori, ledendo così la fede pubblica. Non è necessaria un’imitazione perfetta, ma è sufficiente che il falso possa trarre in inganno l’acquirente medio.

Perché la Corte di Cassazione ha ritenuto infondate le lamentele sulla determinazione della pena?
La Corte ha ritenuto le lamentele infondate perché la pena inflitta (un anno di reclusione e 3.000 euro di multa) era inferiore al “medio edittale” previsto per il reato. In questi casi, non è richiesta una motivazione specifica e dettagliata da parte del giudice, essendo sufficiente un richiamo al criterio di adeguatezza della pena.

Il comportamento collaborativo dell’imputato è stato considerato sufficiente per ottenere una pena più mite?
No, la Corte ha ritenuto che il generico riferimento al comportamento collaborativo e alla personalità dell’imputato non fosse sufficiente a censurare la decisione dei giudici di merito sul bilanciamento tra circostanze attenuanti e aggravanti. La valutazione è stata considerata equa e correttamente motivata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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