Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 12399 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 12399 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 21/11/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da NOMECOGNOME nato in Gran Bretagna, il 09/011/1952 RAGIONE_SOCIALE
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma del 21/12/2023
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ai soli effetti penali per essere il reato estinto per prescrizione; l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata ai soli effetti civili al giudice competente per valore in grado d’appello.
udite le conclusioni dell’avv. COGNOME COGNOME in difesa di RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso dell’imputato e l’accoglimento dei propri motivi di ricorso e trasmissione degli atti alla Corte d’appello civile di Roma;
udito l’avv. COGNOME COGNOME del foro di Milano, in difesa di NOMECOGNOME che insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.NOME COGNOME veniva tratto in giudizio, nella qualità di rappresentante legale della RAGIONE_SOCIALE“, per i delitti di cui ai capi 474 cod. pen. e 517- ter, comma 2, cod. pen., per aver introdotto nel territorio nazionale, attraverso la frontiera portuale di Civitavecchia n. 120.048 sacchetti e n. 2500 microfiltri igienici per aspirapolvere “RAGIONE_SOCIALE“, recanti segno/marchio di titolarità della RAGIONE_SOCIALE, da ritenersi contraffatti (capo a) e realizzati usurpando i titoli di proprietà industriali del società RAGIONE_SOCIALE ed in violazione degli stessi (n. EP0934016, EP NUMERO_CARTA, NUMERO_CARTA, NUMERO_CARTA, EP 1360921) (capo b).
1.1.Con sentenza del 14/07/2023, il Tribunale di Civitavecchia, all’esito di giudizio ordinario, dichiarava NOME COGNOME penalmente responsabile del solo reato ascrittogli al capo b) d’imputazione (ad eccezione della condotta relativa al brevetto EP EP1482825), condannandolo, per l’effetto, alla pena di otto mesi di reclusione ed euro 6000,00 di multa, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna e con confisca e distruzione di quanto in sequestro.
Lo condannava, altresì, al risarcimento del danno nei confronti della parte civile costituita da RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE da liquidarsi in separata sede, nonché al pagamento delle spese legali sostenute dalla parte civile nella misura di 3500,00 oltre accessori. Con una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 10.000,00.
Per il capo a) vi era stata assoluzione per carenza degli elementi oggettivi del reato: si era accertato che sulla merce in sequestro non era stato apposto il marchio RAGIONE_SOCIALE, ma un marchio diverso (RAGIONE_SOCIALE o “un prodotto RAGIONE_SOCIALE“) e che, con una apposita stampigliatura apposta sui sacchetti, si era chiaramente specificato trattarsi di ricambi “adattabili” e originali.
Quanto al capo b), il Tribunale condannava l’imputato per l’intervenuta violazione dei diritti di privativa industriali rappresentati dai brevetti EP0934016, EP 1174073, NUMERO_CARTA, EP 1360921. Escludeva, invece, la contestata violazione in relazione al brevetto NUMERO_DOCUMENTO per insussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato, facendo proprie le conclusioni cui erano giunti i periti nominati nell’ambito del giudizio civile n. 8338/2016, intercorso tra la RAGIONE_SOCIALE attore, e la società RAGIONE_SOCIALE all’esito dell’esame della merce sequestrata e raffronto della stessa con le rivendicazioni degli elementi essenziali dei prodotti contenuti nella descrizione dei brevetti.
1.2. Proponevano appello l’imputato e le parti civili costituite RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
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L’imputato proponeva appello in relazione alla condanna per il reato di cui al capo b), di cui contestava la sussistenza degli elementi costitutivi; censurava, altresì, la dosimetria della pena e l’entità delle statuizioni risarcitorie disposte i favore delle parti civili.
Queste ultime proponevano appello, ai fini civili, in relazione all’assoluzione per il reato di cui al capo a) e per il capo b), limitatamente al brevetto NUMERO_DOCUMENTO.
1.3.Con decisione del 21/12/2023 la Corte d’appello di Roma, reputata inammissibile l’impugnazione dell’imputato dichiarato assente in primo grado poiché priva della procura speciale richiesta dall’art. 581 comma 1-quater cod. proc. pen., dichiarava l’esecuzione della sentenza di primo grado con condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali del relativo grado di giudizio.
Quanto alle statuizioni civili, in parziale riforma della sentenza di prime cure, disponeva, ai sensi dell’art. 518 cod. pen., la pubblicazione della sentenza, da effettuarsi nelle forme previste dall’art. 36 cod. pen., una volta e per estratto sul sito internet del Ministero della Giustizia.
Confermava le restanti statuizioni.
2.Avverso tale ultimo provvedimento propongono ricorso per cassazione NOME COGNOME e le parti civili costituite RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
3.11 ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME è articolato nelle seguenti doglianze.
3.1.Nel primo motivo, si lamenta il vizio di violazione di legge e di motivazione. Si deduce, in particolare, che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere mancante la Procura speciale richiesta dall’art. 581, comma 1-quater, cod. proc. pen., potendo considerarsi equipollente a tale atto l’elezione di domicilio ex art. 581-ter, cod. proc. pen., firmata dall’imputato ed allegata all’atto d’appello ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.
Da tale documento, non preso in considerazione dai giudici d’appello, ad avviso della difesa, poteva desumersi che l’imputato era perfettamente a conoscenza dell’esistenza della sentenza di primo grado e quindi ritenere dimostrata la sua volontà, tramite i difensori, di impugnare il provvedimento di condanna.
3.2.Nel secondo motivo di ricorso si lamenta il vizio di illogicità della motivazione e il vizio di violazione di legge in relazione alla disposta sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza.
La sanzione sarebbe illegittima per tre distinti ordini di motivi.
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In primo luogo, perché l’appello della parte civile non riguardava, e non avrebbe potuto atteso il limite dell’impugnazione agli effetti civili, la sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza di cui agli artt. 518 e 36 cod. pen., ma eventualmente solo la diversa sanzione civile della riparazione del danno non patrimoniale, tramite pubblicazione della sentenza di cui all’art. 186 cod. pen.
In secondo luogo, perché poiché avrebbe disposto la sanzione accessoria citata in assenza di impugnazione del pubblico ministero e nonostante la dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione dell’imputato.
Nel caso di accoglimento del primo motivo di ricorso, si aggiunge, il reato sarebbe da considerarsi prescritto.
In ogni caso l’applicazione della sanzione accessoria sarebbe stata erroneamente disposta, non rientrando il reato di cui all’art. 517- ter cod. pen. tra quelli per i quali è consentita.
Le argomentazioni sono riproposte nelle memorie difensive.
Il ricorso proposto dalle parti civili costituite RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE è articolato in tre doglianze.
4.1.Nel primo motivo si deduce il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 576 cod. proc. pen, e il vizio di motivazione per non aver la Corte d’appello provveduto in relazione all’affermazione incidentale della responsabilità dell’imputato, ai soli effetti civili, in applicazione delle regole ermeneutiche enunciate dalla Corte costituzionale nella decisione n. 182 del 2021.
4.2. Nel secondo e nel terzo motivo di ricorso è impugnata, ai fini civili, la assoluzione perché il fatto di cui al capo a) non sussiste e l’assoluzione di cui al capo b), limitatamente al brevetto EP 825.
In particolare, nel secondo motivo di ricorso si deduce la violazione di legge in relazione agli art. 576 cod. proc. pen. e 517 cod. pen.; la Corte territoriale avrebbe erroneamente qualificato la condotta nell’art. 474 cod. pen., per poi escluderne la ricorrenza nel caso di specie, mentre più correttamente avrebbe dovuto inquadrare la fattispecie ai sensi dell’art. 517 cod. pen. condannare l’imputato per tale delitto la cui sussistenza prescinde dalla concreta induzione in errore dei consumatori, come più volte sottolineato nei numerosi precedenti giurisprudenziali civili e penali, di merito e di legittimità, ad avviso della difes riguardanti fattispecie sovrapponibili alla vicenda oggetto del presente procedimento.
Nel terzo motivo di ricorso si lamenta il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 517-ter cod. pen., 576 cod. proc. pen. e 66, comma 2-bis, d.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, e il vizio di motivazione.
In particolare, si deduce che, pur essendo emerso, in sede civile, elementi oggettivi per ritenere sussistente la violazione del brevetto e dunque la c.d.
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contraffazione indiretta, la Corte d’appello l’avrebbe esclusa, ai fini civili, non essendovi prova del dolo dell’imputato.
Lamenta, dunque, che la Corte d’appello, così come il Tribunale, si sia allineata alla decisione del giudice civile omettendo di considerare che nel corso dell’istruttoria del processo penale erano emersi elementi dimostrativi della contraffazione diretta e indiretta.
Le argomentazioni sono ribadite nelle note d’udienza depositate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 primo motivo del ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME è inammissibile.
In premessa va osservato che non rileva nel caso di specie la modifica apportata dalla legge 9 agosto 2024, n. 114, con la quale è stata disposta l’abrogazione del comma 1-ter dell’articolo 581 cod. proc. pen. restringendo il campo di applicazione del comma 1-quater al solo caso in cui l’imputato sia assistito da un difensore d’ufficio, trattandosi di norma processuale, che in quanto tale soggiace alla regola tempus regit actum.
Tale modifica, infatti, è intervenuta successivamente alla pronuncia della Corte d’appello di Roma, depositata in data 21 dicembre 2023, e successivamente al deposito del ricorso in cassazione avverso la stessa.
Tanto chiarito è dato incontestato l’assenza del ricorrente in primo grado. È altresì incontestato che all’atto di appello sia stata allegata una dichiarazione contenente una dichiarazione di elezione di domicilio ai sensi dell’art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen.
La questione posta dal ricorrente è se, ai sensi dell’articolo 581, comma 1quater cod. proc. pen., nella formulazione vigente al momento della proposizione dell’appello, la dichiarazione suindicata, pur non riportandone espressamente l’intestazione, possa essere considerata equipollente al “mandato ad impugnare”, contenendo comunque gli elementi significativi della finalità a cui tal atto è preposto ovvero «l’espressione della conoscenza da parte dell’imputato della sentenza di condanna e della sua volontà di impugnarla; la dichiarazione elezione di domicilio dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio».
Il Collegio ritiene che al quesito non sia possibile rispondere positivamente alla luce del dato letterale della disposizione evocata che, avuto riguardo alla posizione dell’imputato assente, inequivocabilmente stigmatizza in termini di inammissibilità la mancanza di uno specifico mandato ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio. Non sono possibili, dunque, interpretazioni alternative
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costituzionalmente orientate a fronte del chiaro portato della scelta legislativa, priva di margini di incertezza.
Giova osservare che la necessità, per il difensore, di essere munito di specifico mandato a impugnare era già prevista all’interno dell’ordinamento penale nel caso in cui l’imputato fosse stato dichiarato contumace: ai sensi dell’art. 571, comma 3, cod. proc. pen., infatti, contro una sentenza contumaciale, il difensore poteva proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato a impugnare, rilasciato contestualmente alla nomina. Sul punto, la giurisprudenza di questa Corte, aveva avuto modo di chiarire che la semplice nomina, conferita dall’imputato al difensore di fiducia ai sensi dell’art. 96 cod. proc. pen., senza espressa attribuzione della facoltà di impugnare l’eventuale sentenza di condanna pronunciata in sua contumacia, era un atto diverso e non equipollente allo specifico mandato richiesto dall’art. 571, comma 3, cod. proc. pen. Ciò privava il difensore della legittimazione ad impugnare e rende l’atto medesimo inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio (Sez. 3, n. 2282 del 17/06/1999, COGNOME, Rv. 214798). Secondo la Corte di cassazione, quindi, la mancanza dello specifico mandato da parte dell’imputato non presente (e dichiarato – secondo la normativa allora vigente – contumace) privava il difensore della legittimazione ad impugnare e rendeva l’atto medesimo inidoneo a introdurre il nuovo grado di giudizio e a produrre, quindi, quegli effetti cui si ricollegava la possibilità di emettere una pronunzia diversa dalla dichiarazione di inammissibilità, determinando una causa di inammissibilità originaria del gravame che precludeva anche l’esame di qualsiasi eccezione formulata.
Con riferimento alla ratio dell’istituto in esame, la giurisprudenza più recente, richiamando quanto sopra evidenziato, ha ribadito come sia manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 581, commi 1-ter e 1quater, cod. proc. pen., introdotti dagli artt. 33 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, e dell’art. 89, comma 3, del medesimo d.lgs., per contrasto con gli artt. 3, 24, 27, 111 Cost. e art. 6 CEDU, nella parte in cui richiede, a pena di inannmissibilità dell’appello, che, anche nel caso in cui si sia proceduto in assenza dell’imputato, unitamente all’atto di appello, sia depositata la dichiarazione o l’elezione di domicilio, ai fini della notificazione dell’atto di citazione, e lo specifico mandato ad impugnare rilasciato successivamente alla sentenza, trattandosi di scelta legislativa non manifestamente irragionevole, volta a limitare le impugnazioni che non derivano da un’opzione ponderata e personale della parte, da rinnovarsi in limine impugnationis ed essendo stati comunque previsti i correttivi dell’ampliamento del termine per impugnare e dell’estensione della restituzione nel termine (Sez. 4, n. 43718 del 11/10/2023, Ben Khalifa, Rv. 285324-01).
Nel caso di specie l’imputato si è limitato a depositare l’atto di nomina e l’elezione di domicilio, atto, quest’ultimo, che non può equipararsi allo specifico
mandato richiesto a pena di inammissibilità dall’art. 581, comma 1-quater, cod. proc. pen., poiché l’elezione di domicilio, sia pur allegata alla nomina, non conferisce al difensore la legittimazione a impugnare.
Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha considerato l’appello del ricorrente inammissibile.
2.11 secondo motivo di ricorso è fondato.
I giudici territoriali, decidendo in merito all’appello presentato dalla parte civile, hanno rigettato l’impugnazione proposta facendo salvo il “motivo d’appello della parte civile relativo alla pubblicazione della sentenza di condanna ex art. 518 cod. pen. in relazione alla particolare natura dei reati in rilievo da effettuarsi con le forme previste dall’art. 36, c.p.”
La disposta pubblicazione da parte della Corte territoriale ai sensi dagli art. 518 e 36 cod. pen., e non ai sensi dell’art. 186 cod. pen., cui, come noto, è attribuita la natura di sanzione civile tesa alla riparazione del danno non patrimoniale, è censurabile sotto più profili.
In primo luogo, essa determina una modifica in peius rispetto alla decisione di prime cure, trattamento deteriore non consentito in assenza di impugnazione da parte della pubblica accusa.
Secondariamente la pena è stata comminata nonostante la dichiarazione di inammissibilità del ricorso che invece si configura quale elemento ostativo all’istaurazione di un regolare rapporto processuale in appello.
Da ultimo va osservato che la pena accessoria è stata applicata al di fuori dei casi consentiti, posto che la disposizione di cui all’art. 36 consente la pubblicazione in caso di condanna alla pena dell’ergastolo, e negli altri casi previsti dalla legge, e tra questi ultimi non è contemplata la condanna ai sensi dell’art. 517- ter cod. pen., non essendo tale reato è incluso nell’elenco di cui all’art. 518 cod. pen.
La decisione deve, dunque essere annullata senza rinvio in riferimento alla pena accessoria applicata per il delitto di cui all’art. 517- ter cod. pen.
Costituendo l’applicabilità della pena accessoria un “punto della decisione”, il suo annullamento comporta la valida instaurazione del rapporto processuale in relazione al “capo h” di imputazione cui attiene; tale evenienza impone al Collegio di rilevare la maturata estinzione del reato di cui al capo b) per prescrizione, con conseguente annullamento agli effetti penali della sentenza impugnata, in ordine al residuo reato di cui all’art. 517- ter cod. pen.
3.11 ricorso delle parti civili.
In premessa, va ricordato che in sede d’appello la corte territoriale dopo aver deciso il profilo penale della vicenda, nell’analizzare le doglianze dell parti civili
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ha escluso che la condotta dell’imputato integrasse la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.
Tanto chiarito il ricorso della parte civile, è parzialmente fondato nei termini che seguono.
3.1. Il primo motivo di ricorso, sollevato in relazione alla decisione della Corte d’appello relativa al capo a) d’imputazione, è inammissibile per carenza di interesse della parte civile.
Giova evidenziare che nella vicenda processuale sottoposta all’attenzione del Collegio, per il medesimo fatto storico costituito dall’introduzione nel territorio nazionale di 120.048 sacchetti e 2.500 microfiltri igienici per aspirapolveri “Folletto”, risultano contestati i reati di cui all’art. 474 cod. pen. e 517-te comma secondo, cod. pen., e che nel provvedimento impugnato i giudici di merito, da un lato, hanno escluso la sussistenza del reato di falso di cui all’art. 474 cod. pen. (capo a), non ritenendo integrata la condotta di contraffazione del marchio, dall’altro, hanno ritenuto che tale condotta, salvo che per uno specifico bevetto, integrasse il reato di cui all’art. 517 ter, (capo b), accordando il risarcimento del danno alla parte civile in base all’art. 185, cod. pen.
Tanto premesso, il Collegio ritiene coretta la decisione con la quale i giudici d’appello hanno evitato di considerare le implicazioni civili del reato di cui al capo a) per il quale è intervenuta assoluzione, poichè la parte civile, in relazione al medesimo fatto storico, ha già ottenuto soddisfazione con riguardo alla propria pretesa risarcitoria alla luce della diversa qualificazione della condotta di cui al capo b), e, pertanto, un eventuale accoglimento dell’impugnativa in ordine al solo motivo dedotto non avrebbe condotto al conseguimento di una decisione concretamente favorevole per l’impugnante, risultando evidente che non possa ritenersi tale l’interesse della parte civile ad ottenere una mera verifica sul se il titolo dell’obbligazione risarcitoria sia solo l’art. 185 cod. pen, o anche quello nascente dall’integrazione della fattispecie civilistica.
Diverso sarebbe stato se la parte, in relazione all’intervenuta assoluzione, avesse chiesto il riconoscimento di un diverso diritto al risarcimento per un danno di maggiore ammontare e la conseguente necessità di verificarne anche le implicazioni da un punto di vista civilistico; ciò, tuttavia non è avvenuto nel caso di specie, essendo il motivo di ricorso volto a ottenere una generica riconsiderazione della vicenda.
Deve, quindi, affermarsi il principio secondo il quale l’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di assoluzione intervenuta per una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto storico per il quale vi sia stata condanna penale, con conseguente risarcimento agli effetti civili, non sussiste automaticamente ma è subordinato alla concreta incidenza che essa assume sulla determinazione del danno di cui si chiede il ristoro (vedi anche Sez. 3, n.
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14812 del 30/11/2016, dep. 2017, P.C. in proc. Shi, Rv. 269752 – 01; Sez. 5, n. 32762 del 07/06/2013, P.C. e COGNOME, Rv. 256952 – 01).
3.2. Il secondo motivo di ricorso, afferente al capo b), per il quale è intervenuta assoluzione in relazione alla violazione del brevetto EP825, è accoglibile nei termini che seguono.
Le parti civili hanno censurato la decisione della Corte d’appello nella parte in cui non ha riconosciuto la contraffazione del brevetto Vorwerk EP 825 ad opera dei sacchetti di cui al capo d’imputazione.
In premessa va evidenziato: che il brevetto in contestazione EP 825, depositato in data 26 marzo 2002, dal titolo “sacchetto filtrante con elemento profumato”, ha ad oggetto specificamente “un sacco filtro con profumo”; che la CTU realizzata in sede civile, richiamata nella decisione penale impugnata, ha dato atto dell’oggettiva sussistenza sulla piastra dei sacchetti, di una cavità atta ad alloggiare un elemento profumato; che il Tribunale civile ha tratto la conclusione che i prodotti RAGIONE_SOCIALE in discorso non violano il brevetto europeo n. 1482825 (EP825), poiché, sebbene conformati per ospitare un profumatore, non contenendolo, esulano dall’ambito operativo della rivendicazione 1, poiché, in quanto “limitata al solo elemento profumato stampato”, non prevede la protezione del sacchetto con piastra di sostegno dotata di cavità se privo di detto elemento profumato; la conclusione del giudice civile è stata posta a fondamento dell’assoluzione, in primo grado, per il capo b) in relazione al più volte citato brevetto EP825.
A fronte del quadro descritto, la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE ribadendo quanto già osservato, e disatteso, in sede d’appello, hanno reputato sussistente anche nel caso del brevetto EP 825 gli elementi oggettivi e soggettivi di cui all’art. 66, comma 2 bis del codice della proprietà industriale per configurare un caso di “contributority infringement” (secondo i principi correttamente utilizzati per la contraffazione di brevetto EP073)”.
In proposito evidenziano che in sede civile si era accertata la possibilità di disporre o, meglio, collocare, il solo profumatore della Vorwerk nella cavità inserita nella parte di sostegno dei sacchetti Micromic, e che detta circostanza dimostrava che «tali prodotti (i c.d. profumini) sono addirittura univocamente destinati ad attuare il brevetto EP825, posto che sono destinati ad essere utilizzati proprio e soltanto negli aspirapolvere Folletto della RAGIONE_SOCIALE».
Concludevano che proprio sulla base degli stessi accertamenti tecnici in fatto compiuti dalla CTU o in sede civile non vi era dubbio che la fornitura di tali sacchetti costituisse una contraffazione indiretta del brevetto EP 825 posto che era pacificamente risultato che la cavità, o sede, presente sulla piastra dei
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sacchetti era atta ad alloggiare un elemento profumato come il “Dovina” di Vorwerk o anche elementi prodotti da a terzi ma sempre realizzati in materiale plastico stampato come previsto la rivendicazione principale di EP 825.
Così riassunta, la censura sollevata dalle parti civili appare fondata, anche alla luce delle doglianze contenute nel primo motivo di ricorso presentato dalle stesse.
Con la legge 2 novembre 2016, n. 214 il legislatore, tramite l’inserimento nell’art. 66 del Codice della proprietà industriale del comma 2-bis, ha positivizzato l’istituto del c.d. contributory infringement o contraffazione indiretta, al fine di colpire condotte in sé lecite (quali ad esempio la fornitura di prodotti o strumenti in sé non coperti da brevetto), che si colorano tuttavia di illiceità in forza della consapevolezza dell’autore delle medesime della loro destinazione al compimento di una fattispecie vietata, e cioè l’impiego di quanto fornito nell’ambito di un procedimento brevettato, o, comunque, dell’obiettiva ed univoca destinazione dei mezzi forniti all’attuazione del brevetto.
A tenore dell’art. 66, 2-bis, d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, il brevetto conferisce al titolare anche il diritto esclusivo di vietare ai terzi, salvo propri consenso, di fornire o di offrire di fornire a soggetti diversi dagli aventi diritt all’utilizzazione dell’invenzione brevettata i mezzi relativi a un elemento indispensabile di tale invenzione e necessari per la sua attuazione nel territorio di uno Stato in cui la medesima sia protetta, qualora il terzo abbia conoscenza dell’idoneità e della destinazione di detti mezzi ad attuare l’invenzione o sia in grado di averla con l’ordinaria diligenza.
L’illecito consistente nel “contributory infringement”, consta di due elementi: a) l’elemento oggettivo, consistente nella fornitura (o offerta di fornitura), a soggetti diversi dagli aventi diritto all’utilizzazione dell’invenzione brevettata, dei mezzi relativi a un elemento indispensabile di tale invenzione e necessari per la sua attuazione, e la successiva contraffazione diretta da parte dei terzi; b) l’elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza, non solo dell’idoneità, ma anche della destinazione concreta di detti mezzi ad attuare l’invenzione, ovvero la possibilità di acquisirla con l’ordinaria diligenza (cfr. Cass. civ. Sez. 1, n. 29252 del 12/11/2019, Rv. 656123 – 02).
Tanto premesso, nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso, ai fini civili, la sussistenza del reato di cui all’art. 517- ter cod. pen., la condott violativa del brevetto EP825 in ragione, da un lato, della «non chiarezza circa l’ampiezza della tutela accordata al brevetto che si assume violato alla luce dell’espressa rivendicazione, da assumersi quale parametro formale di comparazione», dall’altro, sostenendo non esservi prove in ordine alla volontà da parte dell’imputato di realizzare la contestata violazione.
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La scarna motivazione trascura, di fatto, di considerare tutte le argomentazioni spese dalle parti civili in sede di impugnazione della decisione di primo grado, e si traduce in una omissione del doveroso accertamento richiesto ai giudici territoriali ai fini civili della sussistenza dell’illecito aquiliano ai dell’art. 2043 cod. civ. secondo le coordinate indicate dalla Corte costituzionale nella nota decisione n. 182 del 2021.
Giova ricordare che in detta pronuncia si è affermato che «il giudice dell’impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria, non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in vol contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica aquiliano (art. 2043 cod. civ.) »; precisando ulteriormente come «con riguardo al “fatto” – come storicamente considerato nell’imputazione penale – il giudice dell’impugnazione è chiamato a valutarne gli effetti giuridici, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (connmissiva od omissiva) contestata all’imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 cod. civ., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno. Nel contesto di questa cognizione rilevano sia l’evento lesivo della situazione soggettiva di cui è titolare la persona danneggiata, sia le conseguenze risarcibili della lesione, che possono essere di natura sia patrimoniale che non patrimoniale». La Corte costituzionale ha, invero, chiarito come «La natura civilistica dell’accertamento richiesto dalla disposizione censurata al giudice penale dell’impugnazione, differenziato dall’ormai precluso) accertamento della responsabilità penale quanto alle pretese risarcitorie e restitutorie della parte civile, emerge riguardo sia al nesso causale, sia all’elemento soggettivo dell’illecito. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il giudice, in particolare, non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all’evento in base alla regola dell’«alto grado di probabilità logica» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 10 luglio11 settembre 2002, n. 30328). Per l’illecito civile vale, invece, il criterio del “più probabile che non” o della “probabilità prevalente” che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell’ipotesi contraria (in tal senso è la giurisprudenza a partire da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 11 gennaio 2008, n. 576, n. 581, n. 582 e n. 584)».
L’omesso rispetto dei menzionati principi impone, dunque, l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili con nuovo rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello.
4.Per tutti questi motivi deve essere disposto l’annullamento agli effetti penali senza rinvio della sentenza impugnata in ordine al residuo reato di quell’articolo 517 ter cod. pen perché il reato è estinto per prescrizione. La sentenza deve essere altresì annullata limitatamente agli effetti civili con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, si rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità.
P.Q.M.
Annulla gli effetti penali senza rinvio la sentenza impugnata, in ordine al residuo reato di cui all’arte 517-ter cod. pen. perché il reato è estinto per prescrizione. Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 21/11/2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente