Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 18412 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 18412 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME nato ad Ariano Irpino il 21/04/1946
avverso la sentenza del 21/06/2024 della Corte d’appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; lette le conclusioni, per le parti civili ‘Am.RAGIONE_SOCIALE e ‘RAGIONE_SOCIALE, dell’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, confermarsi le statuizioni civili e condannarsi l’imputato alla rifusione delle spese per il grado; lette le conclusioni, per il ricorrente, dell’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso, e l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa il 21 giugno 2024, la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Forlì pronunciata in data 7 luglio
2022, per quanto di interesse in questa sede, ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità di NOME COGNOME per i reati di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, di contraffazione di marchi e segni distintivi con l’aggravante della sistematicità o dell’allestimento di mezzi e attività organizzate, limitatamente alle condotte poste in essere a partire dal 22 ottobre 2016, nonché di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, ed ha rideterminato la pena in un anno e sei mesi di reclusione.
Secondo quanto ricostruito dai Giudici di merito, NOME COGNOME avrebbe commesso: 1) il reato di cui all’art. 388 cod. pen. sia rendendo impossibile alla società RAGIONE_SOCIALE, da lui amministrata, di ottemperare all’ordine del giudice civile di trasferire alcuni ‘nomi a dominio’ ( domain names ) alla società RAGIONE_SOCIALE, cedendoli alla società RAGIONE_SOCIALE, sia eludendo il divieto, imposto dal giudice civile, di fare uso di marchi identici o simili ai ‘marchi RAGIONE_SOCIALE‘, contraffacendoli ed apponendoli su prodotti messi in vendita, con condotte protratte fino al 31 gennaio 2017 (capo a); 2) il reato di cui all’art. 473 cod. pen., aggravato ex art. 474ter cod. pen., contraffacendo ‘marchi RAGIONE_SOCIALE, per apporli su capi di abbigliamento, o sul loro cartellino o sulla loro etichetta detenuti nello stabilimento di produzione, nonché su indumenti, accessori per l’abbigliamento, su sacchetti di carta detenuti in negozi e punti di esposizione, nonché ancora sulle pareti di uno stand in allestimento, con condotte protratte fino al 30 maggio 2017 (capi b e c); 3) il reato di cui all’art. 517 cod. pen., utilizzando marchi facilmente confondibili con ‘marchi RAGIONE_SOCIALE‘, apponendoli su capi di abbigliamento, accessori e calzature detenuti ed esposti in diversi punti vendita, con condotte protratte fino al 30 maggio 2017 (capo d).
Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe NOME COGNOME con atto sottoscritto dall’Avv. NOME COGNOME articolando sette motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 191 cod. proc. pen. e 388 cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ) e c ), cod. proc. pen., avuto riguardo alla ritenuta sussistenza del reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, in relazione alla condotta di elusione dell’obbligo di trasferire i ‘nomi a dominio’ alla ‘Fashioneast’, contestata al capo a).
Si deduce, anzitutto, che, a fondamento dell’affermazione di responsabilità, la sentenza impugnata ha posto un documento non presente agli atti del processo, ed allegato dalla parte civile alla memoria da essa depositata il 15 giugno 2024, ossia una lettera inviata dagli avvocati di RAGIONE_SOCIALE in data 29 giugno 2016 agli avvocati che avevano assistito l’attuale ricorrente nel processo civile.
Si premette che la difesa non ha allegato la relata di consegna della p.e.c., e che, comunque, non vi è prova di una comunicazione di tale missiva all’attuale ricorrente da parte dei suoi difensori. Si osserva, poi, che: a) l’acquisizione della precisata prova documentale è avvenuta in difetto di contraddittorio, comunque necessario (si cita Sez. 3, n. 34949 del 03/11/2020, Rv. 280504 – 01), perché la parte civile non ne ha mai chiesto l’ammissione, ma si è limitata esclusivamente ad allegarla ad una memoria; b) l’acquisizione della precisata prova documentale è decisiva ai fini dell’affermazione di responsabilità, perché la esistenza di una richiesta del beneficiario del provvedimento del giudice, in caso di beni immateriali, è condizione indispensabile per eseguire quest’ultimo. Si segnala, quindi, che siccome il bene protetto dal reato di cui all’art. 388 cod. pen. è l’eseguibilità dell’ordine del giudice, non è sufficiente rappresentare che i ‘nomi a dominio’ di cui si discuteva erano stati trasferiti dall’intimato, l’attuale ricorrente, ad altro soggetto, la ‘RAGIONE_SOCIALE, a maggior ragione si si considera che l’attuale ricorrente era socio di maggioranza di quest’ultima società. Si aggiunge che la circostanza appena indicata esclude anche l’elemento soggettivo del reato. Si evidenzia, ancora, che la Corte d’appello non ha risposto alla deduzione relativa alla persistente eseguibilità dell’obbligo imposto dal giudice mediante declaratoria di inefficacia del trasferimento dei ‘nomi a dominio’ alla ‘RAGIONE_SOCIALE
Si deduce, in secondo luogo, che il reato asseritamente commesso mediante l’elusione dell’obbligo di trasferire i ‘nomi a dominio’ alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘ è estinto perché è decorso il tempo necessario a determinarne la prescrizione. Si osserva, in proposito, che, attribuendo rilievo alla lettera inviata dagli avvocati di RAGIONE_SOCIALE in data 29 giugno 2016, il reato in questione deve ritenersi commesso in tale data, e, quindi, pur tenendo conto della sospensione riconosciuta dalla Corte d’appello, il termine di prescrizione era decorso alla data della pronuncia della sentenza impugnata.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 388 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ) ed e ), cod. proc. pen., avuto riguardo alla ritenuta sussistenza del reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, in relazione alla condotta di elusione del divieto di fare uso di marchi identici o simili ai ‘marchi Richmond’, contestata anch’essa al capo a).
Si deduce che l’ordine del giudice non era opponibile né a ‘RAGIONE_SOCIALE, né a ‘RAGIONE_SOCIALE‘, ossia le società che avrebbero fatto uso dei marchi e che, con questa condotta, avrebbero eluso il divieto. Si aggiunge che l’ordinanza del Tribunale di Milano del 15 settembre 2016, faceva comunque salva la possibilità di vendere la merce già presso terzi per tutto il 2016, salvo il pagamento di una penale, e che, quindi, sarebbe stato necessario dimostrare che
i prodotti sequestrati, e recanti i marchi asseritamente contraffatti, erano stati prodotti dopo la fine del 2016. Si osserva, in proposito, che: a) i capi di abbigliamento recanti i ‘marchi Richmond’ debbono ritenersi prodotti prima della fine del 2016, perché relativi alle collezioni autunno/inverno 2016 e primavera 2017, e perché, notoriamente, nel mondo dell’alta moda, le collezioni vengono progettate e realizzate in media un anno e mezzo prima; b) in ogni caso, la data della produzione dei capi di abbigliamento non può essere individuata sulla base della data del loro rinvenimento, o della data delle fatture, le quali possono anche riferirsi ad operazioni effettuate in epoche significativamente anteriori; c) la produzione realizzata nelle aziende dell’attuale ricorrente, nel 2017, era ragionevolmente riferibile ad altri marchi, come ‘Hot’ e ‘Husky’, perché nessuno, nemmeno gli ufficiali di polizia giudiziaria, ha detto di aver rilevato in quell’anno l’apposizione di ‘marchi Richmond’ nello stabilimento di RAGIONE_SOCIALE, e poi di ‘RAGIONE_SOCIALE
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 473 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ) ed e ), cod. proc. pen., avuto riguardo alla ritenuta sussistenza del reato di contraffazione dei ‘marchi Richmond’, contestato ai capi b) e c).
Si deduce che la fattispecie di cui all’art. 473 cod. pen. tutela non la proprietà formale del marchio, ma l’affidamento dei consumatori sulla qualità del prodotto (si cita Sez. 5, n. 23709 del 18/05/2021, COGNOME, Rv. 281378 – 01), e che, però, nella specie, tale affidamento non è stato leso, perché vi è stata continuità produttiva in capo al medesimo soggetto. Si precisa che, come confermato dallo stesso NOME COGNOME a dibattimento, i capi di abbigliamento con ‘marchi Richmond’, fino alla fine del 2017, erano tutti prodotti dalle società dell’attuale ricorrente: di conseguenza, i prodotti realizzati dalle ditte dell’attuale ricorrente, e indicati nelle imputazioni, non possono essere ritenuti falsi, perché non vi erano prodotti recanti ‘marchi Richmond’ realizzati da altro soggetto. Si aggiunge che la circostanza appena indicata induce a ritenere integrata la fattispecie del reato impossibile: mancava qualunque rischio di confusione. Si segnala, ancora, che l’attuale ricorrente aveva registrato in proprio il ‘marchio RAGIONE_SOCIALE‘ nell’anno 2014, che tale registrazione è stata dichiarata nulla dall’EUIPO solo con le decisioni del 30 agosto 2019 e del 10 marzo 2021, di molto successive ai fatti in contestazione, e che la revoca della licenza dei ‘marchi RAGIONE_SOCIALE‘ è intervenuta solo nell’aprile 2017, quindi anch’essa in data successiva ai fatti in contestazione.
Si deduce, inoltre, che le circostanze indicate sono comunque incompatibili con la sussistenza del dolo necessario per integrare il reato di cui all’art. 473 cod.
pen., e che i fatti di cui ai capi b) e c) sono comunque ormai estinti per prescrizione perché le asserite attività di contraffazione si sono in ogni caso esaurite nel 2016.
2.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 517 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ) ed e ), cod. proc. pen., avuto riguardo alla ritenuta sussistenza del reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, contestato al capo d).
Si deduce che l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui il marchio ‘Rich’ costituisce un’imitazione del marchio ‘Richmond’, è meramente assertiva, fondata solo sul personale convincimento del giudice di merito, mancando qualunque accertamento tecnico in proposito. Si rappresenta, inoltre, che: a) l’unico produttore di prodotti contrassegnati dai marchi ‘Rich’ e ‘RAGIONE_SOCIALE‘ fino al 2017 è stata la ditta gestita dall’attuale ricorrente; b) il marchio ‘Rich’ è stato registrato dall’imputato sin dal 2003, quale marchio autonomo rispetto al marchio ‘RAGIONE_SOCIALE‘; c) il rischio di confusione tra il marchio ‘Rich’ e il marchio ‘RAGIONE_SOCIALE‘ è, di fatto, inesistente, in quanto le due parole hanno significati completamente diversi, ed esistono molti altri prodotti a marchi ‘Rich’ o simili; d) l’EUIPO e la Corte di Giustizia UE hanno riconosciuto come legittima la rivendicazione, da parte dell’attuale ricorrente, del marchio ‘RAGIONE_SOCIALE‘, in ragione del pre-uso. Si osserva, ancora, che non vi sono elementi per ritenere la sussistenza del dolo in capo all’attuale ricorrente.
2.5. Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 473, 474ter , 69 e 81 cpv. cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ), cod. proc. pen., avuto riguardo sia alla ritenuta sussistenza dell’aggravante della condotta sistematica o con allestimento di mezzi, sia alla determinazione della pena.
Si deduce, in primo luogo, che l’aggravante della condotta sistematica o con allestimento di mezzi: a) non può essere fondata, come ritengono i Giudici di merito, sull’utilizzo dell’organizzazione imprenditoriale della ‘RAGIONE_SOCIALE Project’, perché questa era la ditta attraverso la quale l’imputato da oltre dieci anni esercitava la sua attività di impresa; ovvero b) è senz’altro subvalente rispetto alle circostanze attenuanti generiche, proprio perché integrata dall’uso di una struttura operativa lecitamente operante da oltre dieci anni.
Si deduce, in secondo luogo, che la riduzione della pena, effettuata dalla Corte d’appello in ragione della dichiarazione di estinzione per prescrizione dei reati relativi alle condotte di cui ai capi a), b) e c) commesse fino al 21 ottobre 2016, è stata minima e sproporzionata per difetto rispetto al periodo rilevante, e che, in ogni caso, la pena base è stata fissata molto al di sopra del minimo edittale, in assenza di validi cause giustificative, senza tener conto che la protrazione delle condotte dell’attuale ricorrente si spiega con la sua determinazione nel difendersi
davanti agli organi giudiziari, anche europei, e che lo stesso, in sede civile, non è stato mai condannato per lite temeraria.
Si deduce, in terzo luogo, che anche gli aumenti di pena per la continuazione sono eccessivi, per le medesime ragioni per la quali la riduzione della pena base deve ritenersi ingiustificatamente alta.
2.6. Con il sesto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 74 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c ) ed e) , cod. proc. pen., avuto riguardo alla condanna generica al risarcimento dei danni civili.
Si deduce che: a) la sentenza impugnata non ha fornito alcuna spiegazione in ordine alla ritenuta sussistenza tra condotta illecita e danno civile; b) la condotta dell’attuale ricorrente, paradossalmente, ha consentito la continuazione dell’operatività dei ‘marchi Richmond’, i quali sarebbero altrimenti rimasti inutilizzati per due anni; c) la parte civile ‘RAGIONE_SOCIALE‘ ha acquistato la titolarità dei marchi nella misura dell’88% solo nel maggio 2017; d) la parte civile RAGIONE_SOCIALE è fallita e il curatore fallimentare non è subentrato nella rappresentanza giudiziale, come invece richiesto dal diritto lussemburghese.
2.7. Con il settimo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 207 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c ) ed e) , cod. proc. pen., avuto riguardo alla mancata trasmissione degli atti al P.M. con riferimento ai reati di falsa testimonianza e di consulenza infedele.
Si deduce che il giudice ha il dovere di trasmettere gli atti al P.M. quando ravvisa un reato, e che, nella specie, avrebbe dovuto motivare perché conclude che la testimonianza di NOME COGNOME non è da ritenere falsa e che non è configurabile il reato di consulenza infedele con riguardi all’ausiliario di polizia giudiziaria COGNOME il quale ha svolto l’incarico pur essendo legato da rapporti professionali alla parte civile.
Il Procuratore generale della Corte di cassazione ha presentato requisitoria scritta, nella quale si chiede dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Nella memoria, in particolare, si osserva che: a) le condotte si sono protratte fino ai primi mesi del 2017, sicché non vi era ragione per dichiarare estinti per prescrizione tutti i reati in contestazione; b) il reato di cui all’art. 388 cod. pen. è stato accertato sulla base di elementi ulteriori rispetto alla lettera indicata nel primo motivo di ricorso, e su tali elementi il ricorso nulla osserva; c) la realizzazione dei ‘marchi Richmond’ nel 2016 non può dirsi avvenuta legittimamente solo per le modalità di previsione della penale; d) il bene giuridico tutelato dall’art. 473 cod. pen. tutela l’affidamento del pubblico sul fatto che
quanto essi si apprestano a comprare sia effettivamente determinato dalle scelte di chi possiede i diritti sui relativi marchi; e) l’idoneità ingannatoria del marchio ‘Rich’ è rilevabile dal persistente accostamento negli anni di questo marchio al marchio ‘RAGIONE_SOCIALE‘ da parte del medesimo produttore.
Il difensore delle parti civili ‘RAGIONE_SOCIALE, Avv. NOME COGNOME ha presentato memoria, nella quale si associa alla richiesta di declaratoria di inammissibilità formulata dal Procuratore generale, e svolge considerazioni ulteriori a supporto.
In particolare, si osserva: a) quanto al primo motivo, che la lettera del 26 giugno 2016 era già stata allegata alla memoria prodotta dalla parte civile nel corso del giudizio di primo grado, e che il trasferimento dei ‘nomi a dominio’ alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘ serviva proprio a sottrarsi all’ordine del giudice civile; b) quanto al secondo motivo, che il provvedimento del giudice civile riguardava anche la persona fisica dell’attuale ricorrente, e che la previsione della penale conferma proprio l’illiceità dell’uso del marchio; c) quanto al terzo motivo, che la fattispecie di cui all’art. 473 cod. pen. tutela la fede pubblica contro l’uso di marchi apposti senza l’esplicita volontà di chi ne è titolare, che ‘RAGIONE_SOCIALE‘, ossia la società produttrice dei beni di cui ai capi di imputazione b) e c), non è stata mai né titolare, né licenziataria dei marchi in contestazione, che non vi sono elementi per ricondurre la produzione di detti beni ad epoche anteriori, e che l’annullamento del marchio registrato dall’attuale ricorrente è avvenuto in ragione della malafede del medesimo all’atto del suo deposito; d) quanto al quarto motivo, che lo stesso non si confronta con le argomentazioni della sentenza impugnata e con quelle dei giudici civili, le cui statuizioni nel frattempo sono passate in giudicato; e) quanto agli ulteriori motivi, che non si confrontano con i rilievi della sentenza impugnata.
Il ricorrente ha depositato memoria, sottoscritta dall’Avv. NOME COGNOME nella quale si sviluppano le censure formulate nel primo motivo di ricorso.
In particolare, si osserva che la memoria depositata dalle parti civili nel giudizio di primo grado sollecitava l’acquisizione della lettera del 29 giugno 2016 a norma degli artt. 523 e 507 cod. proc. pen., e che, però, il Tribunale non ha mai disposto al provvedimento in proposito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate.
In parte prive di specificità e nel resto manifestamente infondate sono le censure esposte nel primo motivo, riprese nella memoria, le quali contestano l’affermazione di responsabilità per il delitto di cui all’art. 388 cod. pen., nella parte relativa alla condotta di elusione dell’obbligo di trasferire i ‘nomi a dominio’ alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘, deducendo che la sentenza impugnata ha posto a fondamento della decisione un documento mai acquisito agli atti del processo, la mail del 29 giugno 2016, che in ogni caso il trasferimento a terzi dei ‘nomi a dominio’ non integra la fattispecie tipica contestata, e che, comunque, il reato, al momento della sentenza impugnata, era estinto per prescrizione, in quanto databile al 29 giugno 2016.
2.1. Le censure che contestano l’utilizzabilità della mail del 29 giugno 2016, deducendo la mancata acquisizione della stessa agli atti del processo, sono prive di specificità, perché non si confrontano compiutamente con le argomentazioni svolte dalla Corte d’appello.
In effetti, la prima, fondamentale ed autonoma ragione dell’affermazione di responsabilità in ordine alla condotta di elusione dell’obbligo di trasferire alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘ i ‘nomi a dominio’ riconducibili a quest’ultima, obbligo imposto dal Tribunale di Milano con ordinanze del 20 giugno 2016 e del 15 settembre 2016 all’imputato quale amministratore e socio di maggioranza delle società RAGIONE_SOCIALE, ‘RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE‘, è individuata, anche nella sentenza impugnata (cfr. pag. 1 e pag. 9), nel trasferimento effettuato dal medesimo, dei precisati ‘nomi a dominio’, tra il giugno e l’ottobre 2016, ad un terzo, la ‘RAGIONE_SOCIALE‘, amministrata dalla figlia NOME COGNOME così da rendere ineseguibili i richiamati provvedimenti giudiziari.
La mail del 29 giugno 2016, spedita dagli avvocati di RAGIONE_SOCIALE‘ all’attuale ricorrente, nella sua qualità, invece, è stata richiamata solo per completezza, e precisamente per evidenziare come fosse infondata anche l’ulteriore affermazione del medesimo ricorrente di non essere mai stato invitato dalla predetta ditta ad ottemperare agli ordini del giudice civile sopra precisati (cfr. sentenza impugnata pag. 9).
2.2. La condotta dell’imputato di trasferire i ‘nomi a dominio’, tra il giugno e l’ottobre 2016, ad un terzo, la ‘RAGIONE_SOCIALE‘, amministrata dalla figlia NOME COGNOME nonostante l’ordine impartitogli dal Tribunale di Milano con ordinanze del 20 giugno 2016 e del 15 settembre 2016 di effettuare il trasferimento alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘, integra la fattispecie di cui all’art. 388, primo e secondo comma, cod. pen.
Invero, la condotta descritta, ammessa nella sua materialità dall’imputato (cfr. sentenza impugnata pag. 9), non si limita ad un rifiuto di adempiere l’ordine del giudice, ma costituisce un comportamento specificamente diretto a renderne impossibile o comunque più difficile l’attuazione, implicando, quanto meno, la
necessità di richiedere un ulteriore provvedimento giudiziario, al fine di dichiarare l’inefficacia del trasferimento a terzi del bene da consegnare.
Di conseguenza, la condotta indicata costituisce comportamento pienamente idoneo ad offendere non solo l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, ma anche l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione.
Con riferimento al profilo della colpevolezza, poi, l’esclusione del dolo non può essere ritenuta solo sulla base della mancata prova della notifica dei provvedimenti del Tribunale all’imputato. Invero, la finalità di sottrarsi ad un provvedimento del giudice può essere liberamente ricostruita dal giudice penale, e, nella specie, la condotta dell’imputato di trasferire i ‘nomi a dominio’ alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘, amministrata dalla figlia, è stata realizzata quando era già pendente la lite giudiziaria con la ‘RAGIONE_SOCIALE‘ proprio con riguardo al trasferimento dei ‘nomi a dominio’. D’altro canto, la sentenza impugnata evidenzia che l’imputato, in proposito, si è limitato ad affermare, in sede di spontanee dichiarazioni, di non aver potuto eseguire il provvedimento del giudice perché ‘RAGIONE_SOCIALE non si era mai attivata per ottenere a suo volto il trasferimento, ma non a negare la conoscenza dell’oggetto dei procedimenti giudiziari e delle relative decisioni.
2.3. Il reato integrato dalla condotta appena descritta nel § 2.2., per la parte successiva al 21 ottobre 2016, non può nemmeno ritenersi estinto per prescrizione alla data della pronuncia della sentenza impugnata.
Invero, la sentenza impugnata è stata emessa il 21 giugno 2024, la condotta di elusione dell’obbligo di trasferire alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘ i ‘nomi a dominio’ riconducibili a quest’ultima mediante il trasferimento degli stessi alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘ è stata realizzata fino a tutto il mese di ottobre 2016, e deve inoltre tenersi conto di una sospensione del corso della prescrizione per sessanta giorni (cfr. sentenza impugnata, pag. 1 e pag. 12).
Diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure formulate nel secondo motivo, le quali contestano l’affermazione di responsabilità per il delitto di cui all’art. 388 cod. pen., nella parte relativa alla condotta di elusione del divieto giudiziale di far uso di marchi identici o simili a quelli ‘Richmond’, deducendo che detto divieto non era opponibile alle società le quali avrebbero fatto uso di tali segni distintivi, e che comunque questi sarebbero stati apposti nel 2016, mentre il precisato divieto doveva ritenersi decorrente dal gennaio 2017.
La sentenza impugnata premette che il divieto di far uso dei marchi e segni distintivi ‘RAGIONE_SOCIALE‘ era stato disposto con l’ordinanza del Tribunale di Milano del 20 giugno 2016 nei confronti dell’attuale ricorrente in proprio, nonché nei confronti di RAGIONE_SOCIALE‘, di RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE, di cui il medesimo imputato era amministratore unico, ed era stato poi reiterato il 15 settembre 2016,
salvo il differimento all’1 gennaio 2017 dell’applicazione della penale per ogni giorno di ritardo nell’adempimento, per consentire un tempo congruo per la dismissione dell’uso dei segni inibiti. Precisa che il differimento appena indicato «non aveva ‘spostato in avanti’ il termine entro il quale alla società di RAGIONE_SOCIALE era consentita la produzione o commercializzazione dei prodotti Richmond, bensì si era limitato a differire – in questo caso sì, alla fine del 2016 – la decorrenza del momento a partire dal quale la società avrebbe dovuto pagare la penale stabilita nella prima ordinanza ‘per ogni ulteriore prodotto fabbricato, pubblicizzato, offerto in vendita o commercializzato in violazione dei diritti Richmond’», ed aggiunge: «ciò non toglie che, anche prima di tale data, l’utilizzo di quei medesimi diritti fosse comunque vietato».
Rappresenta, inoltre, che le società facenti capo all’imputato avevano continuato a realizzare e ad esporre in vendita capi di abbigliamento con i marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘ sia a Milano e in Lombardia, sia a Ravenna.
In particolare, per quanto concerne la Lombardia, segnala che: a) un sopralluogo effettuato il 31 gennaio 2017 aveva consentito di individuare esposti per la vendita, nei locali della ‘RAGIONE_SOCIALE‘, prodotti recanti i marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘RAGIONE_SOCIALE‘; b) un sopralluogo effettuato il 20 aprile 2017 aveva consentito di rinvenire ancora prodotti a marchio ‘RAGIONE_SOCIALE‘ nei predetti locali, sebbene non esposti in vetrina; c) un sopralluoghi del 30 maggio 2017 permetteva di constatare che, all’ingresso del punto vendita della ‘RAGIONE_SOCIALE‘ era ancora presente l’insegna ‘RAGIONE_SOCIALE‘; d) un sopralluogo dell’11 febbraio 2017 aveva fatto rilevare come l’attuale ricorrente avesse occupato, presso il salone internazionale delle calzature di Rho, una postazione riservata a ‘RAGIONE_SOCIALE label ‘ ed avesse anche inizialmente esposto il logo ‘RAGIONE_SOCIALE‘, mentre nella seconda.
Per quanto attiene a Ravenna, evidenzia che: a) un sopralluogo del 31 gennaio 2017 presso la sede della ‘RAGIONE_SOCIALE‘, costituita il 7 gennaio 2016, ed amministrata dall’attuale ricorrente, aveva fatto trovare matrici per imprimere marchi ‘Richmond’, ‘NOME COGNOME‘, ‘RAGIONE_SOCIALE‘, ‘RAGIONE_SOCIALE‘, materiale per il confezionamento di capi di abbigliamento, nonché decine di migliaia di capi di abbigliamento recanti i predetti marchi, e fatture relative a questi ultimi, tutte intestate alla predetta ‘RAGIONE_SOCIALE‘; b) la ‘RAGIONE_SOCIALE‘ non era mai stata titolare o licenziataria di marchi ‘Richmond’, a differenza della ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e della ‘RAGIONE_SOCIALE‘, entrambe all’epoca già dichiarate fallite; c) i beni della ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e della ‘RAGIONE_SOCIALE‘ erano stati inventariati e custoditi in locali separati, sicché non era possibile confondere tra gli stessi e quelli della ‘RAGIONE_SOCIALE‘; d) il sopralluogo in pari data presso il punto vendita aveva consentito di rinvenire l’inventario dei beni presenti, e, tra questi, di 730 capi di abbigliamento o accessori recanti marchi ‘Richmond’ e ‘Rich’.
A fronte di questi elementi di fatto estremamente dettagliati e precisi, le deduzioni formulate nel ricorso, le quali contestano che i capi di abbigliamento rinvenuti siano stati prodotti prima del 2017, ad esempio in ragione di uno scarto temporale tra realizzazione e messa in vendita, sono sostanzialmente assertive, e comunque espongono rilievi funzionali esclusivamente ad una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, operazione non consentita in sede di legittimità.
Inoltre, anche la sola detenzione dei capi di abbigliamento con marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘ nei punti vendita dopo il giorno 1 gennaio 2017 costituisce inequivocabile violazione dei provvedimenti del Tribunale di Milano, avendo questo Giudice fissato a partire da tale data l’obbligo del pagamento di una penale ‘per ogni ulteriore prodotto fabbricato, pubblicizzato, offerto in vendita o commercializzato in violazione dei diritti RAGIONE_SOCIALE‘.
Manifestamente infondate sono le censure enunciate nel terzo motivo, le quali contestano l’affermazione di responsabilità per il delitto di cui all’art. 473 cod. pen., deducendo che non vi è stata contraffazione dei marchi ‘Richmond’, in quanto gli stessi, fino al 2017, erano stati sempre prodotti da società facenti capo all’attuale ricorrente, che la revoca della licenza, da parte delle società titolari, è avvenuta nell’aprile 2017, che la registrazione, da parte dell’imputato, di tale segno distintivo è stata dichiarata nulla dall’EUIPO sono con decisioni del 2019 e del 2021, e che in ogni caso il reato è estinto per prescrizione.
4.1. Occorre in primo luogo precisare che il reato di contraffazione di marchi o segni distintivi di prodotti industriali è integrato anche chi appone o usa gli stessi senza esserne più legittimato, pur dopo averne in precedenza fatto uso in modo legittimo.
Invero, i marchi e segni distintivi tutelati dalle disposizioni normative sulla proprietà intellettuale o industriale servono a far individuare il soggetto cui il prodotto è riferibile e che di questo se ne assume la ‘paternità’. Di conseguenza, chi fa uso di marchi o altri segni distintivi ‘tutelati’ senza esserne più titolare, o comunque senza esserne più autorizzato, illegittimamente attribuisce agli occhi del pubblico i prodotti recanti tali segni ad un soggetto che, però, non è, né può ritenersi, ‘autore’ o comunque ‘responsabile’ degli stessi. E, perciò, sotto questo profilo, è del tutto indifferente che i prodotti recanti segni distintivi abusivamente apposti abbiano gli stessi livelli qualitativi dei prodotti realizzati quando l’autore della condotta illecita poteva fare legittimamente uso dei precisati segni distintivi.
In questo senso, del resto, si è già espressa la giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che i reati previsti dagli articoli 473 e 474 cod. pen. tutelano la pubblica fede con riferimento ai segni distintivi di un determinato prodotto ed hanno come presupposto l’attività fraudolenta del soggetto, esplicatasi mediante
alterazione o contraffazione di marchi, etichette o sigilli originali, sicché, in tale contesto normativo, il riutilizzo, dopo la scadenza della relativa licenza, di un’etichetta o di un marchio vero su un prodotto non originale rientra nel concetto di contraffazione (Sez. 5, n. 22503 del 07/01/2016, COGNOME, Rv. 266857 – 01).
4.2. Ciò posto, va poi evidenziato che, in punto di fatto, la sentenza impugnata ha spiegato perché le società facenti capo all’attuale ricorrente non potevano utilizzare i marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘.
La Corte d’appello, in particolare, ha osservato che: a) la ‘RAGIONE_SOCIALE‘, ossia l’unica ditta produttrice attiva a partire dal 2016, non era mai stata titolare, né licenziataria, dei marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘; b) anche la ‘RAGIONE_SOCIALE‘, precedentemente operativa e poi dichiarata fallita, non avrebbe più potuto utilizzare i marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘ a partire dal 20 novembre 2015, in quanto da tale data i relativi diritti erano della ‘RAGIONE_SOCIALE‘, la quale non aveva rilasciato alle società dell’attuale ricorrente alcuna licenza; c) già alla fine del 2015, ‘RAGIONE_SOCIALE‘ aveva inviato una diffida all’attuale ricorrente in cui rappresentava di aver acquisto i diritti relativi ai marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e rammentava di non aver concesso alle società del medesimo alcuna facoltà di utilizzo di precisati segni distintivi; d) i beni ai quali si riferiscono le contestazioni di contraffazione del marchio sono stati prodotti nel 2016 e nel 2017, come si evince dalle fatture e dalla documentazione extra-contabile rinvenuta; e) la registrazione del marchio ‘RAGIONE_SOCIALE‘ effettuata dall’attuale ricorrente nel 2014 era avvenuta in mala fede, ed approfittando di una disciplina, secondo la quale il deposito della domanda consente l’immediata titolarità del diritto, salvo un controllo solo ‘successivo’ ed ‘eventuale’; f) in ogni caso, all’epoca dei fatti, il legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE‘ era il curatore fallimentare, dott. COGNOME
4.3. Da quanto esposto in precedenza, deve ritenersi che la conclusione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza del reato di contraffazione o alterazione di marchi o segni distintivi, relativamente ai fatti di cui ai capi di imputazione b) e c), è correttamente motivata.
Innanzitutto, infatti, nella specie, la sentenza impugnata espone in modo puntuale che i marchi sono stati utilizzati da un soggetto giuridico, la ‘RAGIONE_SOCIALE‘, il quale mai aveva avuto titolo ad utilizzarli.
In secondo luogo, e in ogni caso, come si è detto al § 4.1., il reato di cui all’art. 473 cod. pen. è comunque integrato quando chi appone o usa marchi o altri segni distintivi tutelati dalle disposizioni normative sulla proprietà intellettuale o industriale non è in quel momento a ciò legittimato, sebbene ne abbia in precedenza fatto uso in modo legittimo.
4.4. Deve inoltre escludersi che i reati di cui ai capi di imputazione b) e c) si siano estinti per prescrizione alla data della pronuncia della sentenza impugnata.
In proposito, infatti, deve osservarsi che: a) la sentenza impugnata è stata emessa il 21 giugno 2024; b) le condotte di cui ai capi b) e c) sono state realizzate almeno fino al 30 maggio 2017; c) deve inoltre tenersi conto di una sospensione del corso della prescrizione per sessanta giorni; d) la sentenza impugnata ha dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui ai capi b) e c) commessi fino al 21 ottobre 2016 (cfr. sentenza impugnata, pag. 12).
In parte manifestamente infondate e in parte diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure proposte con il quarto motivo, le quali contestano l’affermazione di responsabilità per il delitto di cui all’art. 517 cod. pen., deducendo che il rilievo della Corte d’appello, secondo cui il marchio ‘Rich’ costituisce una mera imitazione del marchio ‘Richmond’, è meramente assertiva, che all’attuale imputato è stata riconosciuta la legittimità della rivendicazione del marchio ‘Rich RAGIONE_SOCIALE Richmond’, e che, in ogni caso, non vi è prova del dolo.
È utile premettere che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, ai fini della configurabilità del reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 cod. pen.) – che ha per oggetto la tutela dell’ordine economico – è sufficiente la mera imitazione del marchio, non necessariamente registrato o riconosciuto, purché idonea a trarre in inganno l’acquirente sull’origine, qualità o provenienza del prodotto da un determinato produttore (cfr., per tutte, Sez. 2, n. 27376 del 17/02/2017, Lu, Rv. 270312 – 01, e Sez. 5, n. 9389 del 04/02/2013, Zhu, Rv. 255227 – 01).
La sentenza impugnata, poi, in particolare, rappresenta che: a) il marchio ‘Rich’ aveva caratteristiche fortemente similari a quelle dei marchi registrati da ‘RAGIONE_SOCIALE‘ ed era stato utilizzato per anni in combinazione con i marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘John COGNOME‘ dalla titolare di questi ultimi, la ‘RAGIONE_SOCIALE‘; b) l’imputato era consapevole della confondibilità del marchio ‘Rich’ con i marchi ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘John COGNOME‘, perché nel gennaio 2017, gli operanti avevano rinvenuto, nel corso di una perquisizione, tra i capi in attesa di essere spediti, l’istruzione di «far cambiare targa da Richmond a Rich»; c) il Tribunale di Milano, con provvedimento cautelare del 20 aprile 2017, aveva vietato all’attuale ricorrente anche l’uso del marchio ‘Rich’, e ciononostante, il 30 maggio 2017, era ancora apposta l’insegna ‘RAGIONE_SOCIALE‘ all’ingresso del punto vendita della ‘RAGIONE_SOCIALE
A fronte di questi elementi di fatto estremamente dettagliati e precisi, deve escludersi che l’affermazione della sentenza impugnata circa l’idoneità decettiva del marchio ‘Rich’ sia meramente assertiva. Inoltre, le ulteriori deduzioni formulate nel ricorso in tema di legittimità del preuso del marchio ‘Rich’ e di insussistenza del dolo per un verso non si confrontano con le indicazioni della sentenza impugnata e, sotto altro profilo, lungi dall’evidenziare vizi logici o
giuridici, espongono rilievi funzionali esclusivamente ad una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, operazione non consentita in sede di legittimità.
Manifestamente infondate sono le censure enunciate nel quinto motivo, le quali contestano l’affermazione di sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 474ter cod. pen., o la sua subvalenza rispetto alle circostanze attenuanti generiche, e, più in generale la determinazione della pena, anche per gli aumenti apportati a titolo di continuazione.
La sentenza impugnata, infatti, correttamente osserva che: a) l’aggravante di cui all’art. 474ter cod. pen. deve ritenersi integrata in quanto le condotte di contraffazione o uso di marchi o segni distintivi è avvenuta avvalendosi di uno stabilimento produttivo, quello da ultimo intestato alla ‘RAGIONE_SOCIALE‘; b) non vi sono elementi tali da dover determinare un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto all’aggravante di cui all’art. 474ter cod. pen.
Deve aggiungersi che le pene sono state fissate in misura estremamente contenuta, perché: a) la pena base, stabilita per il reato di cui all’art. 473 cod. pen. contestato al capo b), è stata determinata in nove mesi di reclusione, ossia in misura molto inferiore alla media edittale e in prossimità del minimo; b) gli aumenti per la continuazione sono stati modesti, anche in considerazione delle cornici edittali delle relative fattispecie incriminatrici, perché pari a due mesi per l’ulteriore reato di cui all’art. 473 cod. pen. contestato al capo c), a tre mesi per il reato di cui all’art. 388 cod. pen. contestato capo a), e a quattro mesi per il reato di cui all’art. 517 cod. pen. contestato capo d).
Manifestamente infondate sono le censure esposte nel sesto motivo, le quali contestano la condanna generica al risarcimento dei danni civili, deducendo che gli stessi non sarebbero provati, che la parte civile ‘RAGIONE_SOCIALE ha acquistato la titolarità dei marchi solo nel maggio 2017, e che la parte civile RAGIONE_SOCIALE è stata dichiarata fallita e il curatore della stessa non si è costituito come prevede il diritto del Lussemburgo, applicabile a detta ultima società.
Costituisce insegnamento ampiamente maggioritario nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è necessaria la prova della concreta esistenza di danni risarcibili, essendo sufficiente l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell’esistenza di un nesso di causalità tra questo e il pregiudizio lamentato, desumibile anche presuntivamente (cfr., ad esempio, Sez. 1, n. 51160 del 31/10/2023, COGNOME, Rv. 285612 – 01).
Nella specie, la sentenza impugnata rappresenta, tra l’altro, che: a) l’elusione dei provvedimenti del giudice civile e la prosecuzione dell’attività di fabbricazione
e messa in circolazione di prodotti caratterizzati da segni distintivi abusivi sono condotte le quali hanno comportato inevitabilmente l’insorgenza di confusione nel consumatore e quindi quantomeno un danno all’immagine delle società titolari dei marchi abusivi contraffatti o imitati, per sua natura richiedente molto tempo per essere eliminato; b) la protrazione nel tempo degli effetti pregiudizievoli delle condotte, anche dopo la fine delle attività di fabbricazione e messa in circolazione dei prodotti illeciti, rende ragionevole l’ipotesi di un danno in capo anche alla ‘RAGIONE_SOCIALE. Deve aggiungersi, inoltre, che la Corte d’appello ha ritenuto sussistenti condotte illecite anche alla data del 30 maggio 2017, ad esempio quella costituita dalla perdurante esposizione, ancora in quel giorno, dell’insegna ‘Rich’ all’ingresso del punto vendita della ‘RAGIONE_SOCIALE
Quanto al tema del difetto di legittimazione della parte civile ‘RAGIONE_SOCIALE, perché dichiarata fallita e perché il curatore della stessa non si è costituito come prevede il diritto lussemburghese, è sufficiente rilevare come detta questione è stata formulata solo in questa sede, e non risulta supportata da alcuna allegazione, necessaria per valutare applicabilità e violazione del diritto straniero.
Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, infine, sono le censure proposte con il settimo motivo, le quali contestano la mancata adozione di provvedimenti di trasmissione degli atti al P.M. con riguardo ai reati di falsa testimonianza e di consulenza infedele.
Invero, le norme che prevedono per il giudice obblighi di trasmissione degli atti al P.M., come l’art. 207 e 241 cod proc. pen., sono norme processuali non sanzionate da nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza.
Del resto, che l’inosservanza delle norme del codice di rito non comporti necessariamente una nullità o altra sanzione processuale è espressamente previsto dall’art. 124 cod. proc. pen.
E, secondo il disposto dell’art. 606, comma 1, lett. c) , cod. proc. pen., con ricorso per cassazione può essere censurata l’inosservanza di norme processuali solo se queste sono «stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza».
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, al versamento a favore della cassa delle ammende, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civil i ‘RAGIONE_SOCIALE e ‘RAGIONE_SOCIALE c he liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge
Così deciso il 14/04/2024