Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 31133 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 31133 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 06/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOMECOGNOME nato in Egitto il 28 agosto 1986;
avverso la sentenza n. 7424/2024 della Corte di appello di Roma del 17 giugno 2024;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore gen Dott. NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso;
letta, altresì, la memoria scritta redatta nell’interesse del ricorrente dal NOME COGNOME del foro di Roma, con la quale si è insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Roma, con sentenza pronunziata in data 17 giugno 2024, ha integralmente confermato la precedente decisione con la quale, in data 3 dicembre 2018, il Tribunale di Civitavecchia, in esito a giudizio celebrato nelle forme ordinarie, aveva dichiarato la penale responsabilità di NOME in ordine al reato a lui contestato, avente ad oggetto la violazione della normativa in materia di tributi doganali dovuti per la importazione di tabacco, e lo aveva, pertanto, condannato alla pena ritenuta di giustizia.
Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione il prevenuto, sviluppando tre motivi di impugnazione.
Il primo motivo attiene alla violazione di legge per essere stato notificato il decreto di citazione a giudizio in grado di appello direttamente al difensore del prevenuto ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., senza avere prima tentato la notificazione presso il domicilio eletto dell’imputato.
Ha precisato il ricorrente che, sebbene la circostanza fosse stata tempestivamente eccepita con la memoria redatta dalla difesa del prevenuto ai sensi dell’art.598-bis cod. proc. pen., la Corte di appello non aveva in alcun modo fornito una risposta alla questione.
Con un secondo motivo di ricorso la difesa del prevenuto ha reiterato, deducendo la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel non accogliere il motivo di gravame, la eccezione di nullità del giudizio di primo grado, già sollevata in sede di appello, avente ad oggetto la mancata traduzione in una lingua conosciuta dal prevenuto di una serie di atti del procedimento, a partire dal verbale di sequestro del corpo del reato, dell’avviso di chiusura delle indagini preliminari, della richiesta di rinvio giudizio e del successivo decreto fino alla sentenza di primo grado.
Infine con il terzo motivo di impugnazione la difesa dell’imputato si è doluta del fatto che i giudici del merito siano pervenuti ad una sentenza di condanna, sebbene, stante le modalità di accertamento della percentuale di tabacchi lavorati esteri presenti nel compendio di beni sequestrati all’imputato – si è, infatti, proceduto ad un esame a campione di uno solo degli involucri contenenti la sostanza da lui fatta entrare nel territorio dello Stato – no poteva dirsi raggiunta la piena prova del fatto che fosse stata superata la soglia di punibilità prevista per il reato in contestazione.
Ha, peraltro, osservato il ricorrente che, essendo la pena pecuniaria stabilita per il predetto reato calcolata in funzione della quantità di tabacco illecitamente sottratta ai tributi doganali, l’omessa precisa individuazione di tale quantità non avrebbe consentito la corretta determinazione della sanzione pecuniaria irrogata a carico dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, nei termini che saranno indicati, è fondato e, pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio.
Quanto al primo motivo di impugnazione, riguardante omessa motivazione in relazione alla eccezione di nullità della notificazione del decreto di citazione a giudizio in grado di appello in quanto eseguita, ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. in data 5 aprile 2024, tramite inoltro telematico inviato a mani del difensore fiduciario del prevenuto senza che fosse stata antecedentemente tentata la notificazione presso il domicilio eletto del ricorrente, il Collegio osserva quanto segue: una tale modalità di comunicazione degli atti del processo, integra, effettivamente, una ipotesi di nullità, avendo il legislatore del rito penale consentito che la notificazione degli atti all’imputato possa avvenire attraverso la consegna dell’atto al difensore di questo solo nella ipotesi in cui manchi ovvero sia insufficiente o inidonea la notificazione presso il domicilio da questo eletto o dichiarato.
Una tale nullità, che costituisce una ipotesi di nullità assoluta ed insanabile (Corte di cassazione, Sezione II penale, 31 gennaio 2023, n. 3967, rv 284310), risulta che sia stata effettivamente dedotta dal ricorrente con la memoria depositata dalla sua difesa in data 11 giugno 2024; di tale eccezione e della risposta da fornire ad essa, effettivamente non vi è traccia nella motivazione della sentenza impugnata.
Ritiene il Collegio che, tuttavia, siffatta omissione non sia tale da giustificare l’automatico annullamento della sentenza impugnata.
Come, infatti, questa Corte ha già a suo tempo affermato, ed una tale statuizione appare tuttora condivisibile, nel giudizio di cassazione l’omessa motivazione in ordine ai motivi nuovi ritualmente depositati dall’appellante non comporta l’automatica nullità della sentenza di appello, dovendo il giudice di legittimità valutare se non si tratti di motivi manifestamente infondati o altrimenti inammissibili (Corte di cassazione, Sezione II penale 16 luglio 2019, n. 31278, rv 276982); verifica che, in questo caso, oltre ad essere resa più
agevole dalla natura processuale della eccezione formulata dalla difesa dell’imputato, il che consente l’ampio accesso di questa Corte di legittimità agli atti del procedimento, consente di verificare la manifesta infondatezza della eccezione trascurata in sede di gravame.
Invero, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente difesa, la notificazione del decreto di citazione a giudizio del prevenuto di fronte alla Corte di appello è stata tentata presso il domicilio da lui eletto ma in quella occasione la stessa non poté andare a buon fine in quanto, per quanto emerge dalla relazione di fallita notificazione (che, si rammenta, è atto fidefacente limitatamente alle operazioni eseguite dall’ufficiale notificatore) il prevenuto era risultato trasferito; non essendo emerse aliunde indicazioni sulla domiciliazione del ricorrente, correttamente si è proceduto alla notificazione dell’anno nelle forme di cui all’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. (sulla correttezza del procedimento secondo le modalità seguite, cfr.: Corte di . cassazione, Sezione VI penale, 21 novembre 2023, n. 46788, rv 285565).
La infondatezza della eccezione formulata dalla difesa del ricorrente di fronte alla Corte di appello rende irrilevante il vizio di omessa motivazione in cui la stessa Corte era effettivamente incorsa.
Parimenti infondato è il secondo motivo di doglianza; esso ha ad oggetto il mancato accoglimento del motivo di ricorso riguardante la omessa traduzione in un idioma conosciuto dall’imputato degli atti del procedimento, in particolare del verbale di sequestro della merce in ipotesi introdotta nel territorio nazionale senza la corresponsione dei diritti doganali e del contestuale decreto di convalida del provvedimento, dell’avviso ex art. 415bis cod. proc. pen., della richiesta di rinvio a giudizio e del pedissequo decreto nonché della sentenza di primo grado.
Sul punto è sufficiente rilevare che, secondo la migliore giurisprudenza anche di questa Corte l’eventuale omessa traduzione degli atti processuali in una lingua che sia conosciuta dall’imputato integra una ipotesi di nullità a regime intermedio, soggetta, pertanto, alla sanatoria per la decorrenza del termine per la sua rilevazione (per tutte: Corte di cassazione, Sezione V penale, 11 maggio 2023, n. 20035, rv 284515); considerato che, nella specie, non risulta che nel corso del giudizio di primo grado siano state formulate eccezioni in relazione alla omessa traduzione degli atti compiuti anteriormente alla apertura del dibattimento di fronte al Tribunale di Civìtavecchia, la questione, sollevata in occasione della formulazione dei motivi di gravame
avverso la sentenza di primo grado, deve ritenersi, in ogni caso, intempestivamente formulata e, pertanto, non suscettibile di costituire ora, in relazione alla decisione adottata dalla Corte territoriale, valido motivo di ricorso per Cassazione.
Quanto alla eccezione avente ad oggetto la mancata traduzione della sentenza emessa dal giudice di primo grado, osserva, il Collegio – a prescindere dalla circostanza che in tema di traduzione degli atti, l’imputato alloglotto che si dolga dell’omessa traduzione della sentenza ha l’onere, in coerenza con la natura generale a regime intermedio della nullità che nella specie viene in rilievo, di indicare l’esistenza di un interesse a ricorrere concreto, attuale e verificabile, Legato alla effettiva avvenuta lesione del suo diritto alla difesa, non essendo sufficiente la mera allegazione di un pregiudizio astratto o potenziale (Corte di cassazione, Sezione I penale, 3 dicembre 2024, n. 44251, rv 287282), cosa che il ricorrente non ha, quanto meno in relazione alla presente sede, fatto, laddove, ai fini della esauriente specificità del ricorso, tale precisazione sarebbe stata necessaria anche in occasione della presentazione del ricorso per cassazione – che, seppure genericamente investita della questione, la Corte di appello capitolina ha rilevato che in esito alla istruttoria svolta era emerso che l’imputato avesse una, sia pur basilare, conoscenza della lingua italiana, tanto che egli aveva adeguatamente colloquiato con i soggetti che, all’atto dell’accertamento sul bagaglio al momento del suo arrivo sul suolo nazionale, avevano riscontrato la presenza della merce non dichiarata.
Si tratta di un accertamento di fatto, coerentemente motivato dalla Corte di appello, la quale ha espressamente e puntualmente richiamato il contenuto una delle testimonianze assunte nel corso del giudizio, di tal che lo stesso non è suscettibile di essere rivalutato nella presente sede di legittimità.
Va, peraltro, ricordato che il grado di conoscenza della lingua nazionale che è richiesto per non dovere procedere alla traduzione dell’atto non è tale da avere comportato la piena ed integrale comprensione anche sotto il profilo tecnico giuridico del contenuto dell’atto in questione; ciò, infatti, stante la presumibile elevata “tecnicalità” del documento non sarebbe pretendibile senza la mediazione di un soggetto, quale è l’avvocato difensore dotato di una specifica e professionale competenza nella materia giuridica – neppure da un soggetto ordinariamente parlante la lingua italiana ma non fornito di una adeguata formazione culturale; è, invece, sufficiente che l’alloglotto possa intendere il senso dell’atto in questione, la sua finalità e l’effetto principale che
da esso scaturisce, cosa che è consentita anche da una conoscenza della lingua italiana limitata alla sue basi fondamentali.
E’, infine e contrariamente ai precedenti, fondato il terzo motivo di impugnazione.
Va, segnalato un aspetto singolare della presente vicenda; all’imputato, è stata contestata, in relazione a diverse norme del dPR n. 633 del 1972, la violazione dell’art. 291-bis, comma 1, del dPR n. 43 del 1973, per avere detenuto in zona di vigilanza doganale, in assenza della prescritta documentazione comprovante la legittima introduzione nel territorio dello Stato e la corresponsione dei dovuti diritti doganali, una quantità convenzionalmente determinata in oltre 76 kg di “tabacco melassato”; si tratta, quindi, non della introduzione dell’ordinario tabacco trinciato confezionato in sigarette o in altri analoghi manufatti, ma del diverso prodotto denominato, appunto, “tabacco melassato” o, forse più correttamente, “melassa di tabacco”.
Si tratta di un prodotto, utilizzato principalmente nelle zone del vicino e medio Oriente per lo più dalle popolazioni di cultura araba per essere fumato o con strumenti assimilabili alla pipa o, più frequentemente, attraverso l’utilizzo del narghilè (altrimenti detta pipa ad acqua, a cagione della particolare modalità di fruizione del fumo che, in sintesi, viene inalato dall’utilizzatore dopo che lo stesso è stato raffreddato e filtrato attraverso i suo passaggio in un piccolo bacino stagno contenente appunto acqua), costituito da foglie di tabacco mescolate ad altri prodotti di diversa natura, quali glicerina, miele, frutta essiccata, menta od altre spezie che, data anche la loro prevalenza quantitativa sulle prime, rendono caratteristico l’aroma che si sprigiona da tale eterogenea mescolanza di ingredienti allorché essa viene com busta e “fumata”.
Esaminando, a questo punto, partitamente le questioni che la presente fattispecie sottopone allo scrutinio del giudicante, ritiene il Collegio, stante l sua evidente pregiudizialità, necessario esaminare prioritariamente la astratta rilevanza penale della condotta ascritta al prevenuto, se cioè essa sia prevista quale reato da una norma di legge ovvero da altra disposizione avente la forza di legge tuttora vigente o, comunque, applicabile alla fattispecie.
Il tema trova una sua complessità per effetto della intervenuta abrogazione della disposizione la cui violazione è stata espressamente contestata all’imputato; si tratta, infatti, dell’art. 291-bis del dPR n. 43 d
1973, il quale prevedeva, per limitarci alla ipotesi ora rilevante, che chiunque introduce nel territorio dello Stato un quantitativo di tabacco lavorato estero superiore a 10 kg convenzionali è punito con la multa di 5 euri per ogni grammo convenzionale di prodotto, come definito dall’art. 9 della legge n. 76 del 1985, e con la reclusione da 2 a 5 anni.
Come accennato siffatta disposizione, in occasione del riordino della normativa in materia di contrabbando doganale, attuata a seguito della entrata in vigore del dpr n. 141 del 2024, è stata abrogata e sostituita dall’art. 84 del provvedimento da ultimo citato il quale, a sua volta, prevede che “chiunque introduce (…) a qualunque titolo nel territorio dello Stato un quantitativo di tabacco lavorato di contrabbando superiore a 15 chilogrammi convenzionali, come definiti dall’articolo 39-quinquies del Tu n. 504 del 1995, è punito con la reclusione da due a cinque anni”.
Come è agevole vedere si tratta di disposizione che, lungi dall’abrogare seccamente la ipotesi di reato precedentemente disciplinata dall’art. 291-bis del dPR n. 43 del 1973, ne rimodula sia il contenuto, elevando la soglia di punibilità da 10 kg convenzionali a 15 kg convenzionali ed esclude, in caso di rilevanza penale della condotta, la previsione della pena pecuniaria congiunta a quella detentiva.
Pertanto, per un verso, stante la evidente continuità normativa, non può affermarsi la irrilevanza penale della condotta attribuita al prevenuto per effetto di una, insussistente nel caso in esame, aboliti° criminis, mentre, per altro verso, deve affermarsi, data la evidente maggiore mitezza della normativa sopravvenuta, la quale prevede sia una più elevata soglia di punibilità sia la esclusione della concorrente pena pecuniaria, la applicazione della stessa, data la previsione di cui all’art. 2, comma quarto, cod. peri., all presente fattispecie.
Un secondo profilo problematico attiene alla applicabilità dell’allora art. 291-bis del dPR n. 43 del 1973, ora dell’art. 84 del dPR n. 141 del 2024, alla ipotesi della introduzione sul territorio dello Stato della “melassa di tabacco”.
La questione ha dato luogo talune precedenti decisioni di questa Corte, non univocamente indirizzate.
Infatti, ad un orientamento, che appare quanto meno sotto il profilo quantitativo (pur nella scarsissima casistica evidenziabile), maggiormente rappresentato, secondo il quale la “melassa di tabacco” da narghilè, in quanto
suscettibile di essere fumata senza una sua successiva trasformazione industriale, rientra nella categoria dei prodotti assimilati ai tabacchi lavorati, prevista dagli artt.39-bis, comma 2, lettere d) ed e) e 39-ter, comma 4, del dlgs n. 504 del 1995, rilevante ai fini della integrazione del reato di contrabbando di tabacchi lavorati esteri (Corte di cassazione, Sezione III penale, 6 settembre 2022, n. 32754, rv 283485, nonché Corte di cassazione, Sezione III penale, 3 luglio 2015, n. 38549, non massinnata sul punto; ed ancora: Corte di cassazione, Sezione III penale, 21 novembre 2012, n. 45525) ora contestato al ricorrente.
A tale orientamento se ne è contrapposto uno diverso secondo il quale, invece, la “melassa di tabacco” da narghilè non rientra nella definizione di tabacco lavorato rilevante ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 291-bis del dPR n. 43 del 1973 (Corte di cassazione, Sezione III penale, 29 novembre 2018, n. 53636, rv 275182).
Ritiene il Collegio di doversi senz’altro assestare sulla prima delle due interpretazioni proposte.
Infatti, la secondMelle,due tesi esposte risulta essere argomentata in funzione della interpretazione – da intendersi necessariamente restrittiva in quanto si tratta di norma integratrice di disposizione penale precettiva – della elencazione (già) contenuta nell’art. 2 della legge n. 76 del 1985, secondo la quale sono considerati tabacchi lavorati: a) í sigari e sigaretti; b) le sigarette; c) il tabacco da fumo: 1) il tabacco trinciato a taglio fino da usarsi per arrotolare le sigarette; 2) gli altri tabacchi da fumo; d) il tabacco da fiuto; e) il tabacco da masticare; in particolare quanto alla nozione di tabacco da fumo, essa è stata chiarita dal legislatore, sempre secondo la previsione di cui al citato art. 2 della legge n. 76 del 1985, nel senso che per tale deve intendersi: 1) il tabacco trinciato o in altro modo frazionato, filato o compresso in tavolette, che può essere fumato senza successiva trasformazione industriale; 2) i cascami di tabacco preparati per la vendita al minuto, non compresi nelle precedenti lettere a) e b) e che possono essere fumati; è, infine, precisato che sono assimilati (…) al tabacco da fumo i prodotti costituiti esclusivamente o parzialmente da sostanze diverse dal tabacco, ma che rispondono agli altri criteri di cui alla lettera c) del secondo comma dell’articolo 2 (cioè che abbiano le caratteristiche del tabacco da fumo).
Deve, preliminarmente, rilevarsi come la disposizione legislativa dianzi ricordata sia stata oggetto di abrogazione a seguito della entrata in vigore del
dIgs n. 48 del 2010, il quale, tuttavia, agli artt. 39-bis e 39-ter, contiene un serie di definizioni e di indicazioni, peraltro già contenute nel citato dlgs n. 504 dei 1995. che sostanzialmente riproducono il precedente testo legislativo.
Ritiene, a questo punto, il Collegio che, pur operando, come fatto da Corte di Cassazione, Sezione III penale, n. 53636 del 2018 cit., una interpretazione doverosamente restrittiva della nozione di tabacco da fumo offerta dal legislatore, non vi siano dubbi sul fatto che la “melassa di tabacco” – pur costituendo essa un prodotto, integrato in misura più o meno ampia anche da sostanze diverse dalle foglie della pianta del tabacco – essendo essa suscettibile di essere fumata senza alcuna successiva trasformazione industriale, corrisponda alla nozione legislativa di “tabacco lavorato”, rientrando in particolare nella categoria dei prodotti assimilati al “tabacco da fumo” di cui all’art. 39-ter, comma 2, del dPR n. 48 del 2010, e, pertanto, se importato dall’estero, soggetto al versamento dei diritti doganali (in tale senso si veda anche la accurata disamina normativa contenuta nella sentenza di Corte di cassazione, Sezione III penale, 6 settembre 2022, n. 32754, da pag. 3 a pag. 4 della motivazione).
La introduzione della stessa, pertanto, se realizzata in assenza del versamento dei dovuti diritti doganali, integra, ora, ai sensi dell’art. 84 del dPR n. 141 del 2024, un illecito pubblicisticamente rilevante.
Si tratta ora di vedere se, quanto al caso di specie, siffatto illecito stante la previsione normativa di una soglia di punibilità che opera quale discrimine fra la natura meramente amministrativa ovvero penale del predetto illecito – ricada nella prima o nella seconda categoria dianzi segnalata.
Confermato che, stante la più volte ricordata modifica legislativa la soglia di punibilità, anteriormente attestata sulla indicazione dei 10 kg convenzionali, è stata innalzata sino alla misura dei 15 kg convenzionali; la ricordata natura di lex mitior della disciplina ora introdotta ne impone la applicazione al caso in esame.
Il punto – che, d’altra parte costituisce il thema svolto nel terzo dei motivi di ricorso in cui si compendia la impugnazione ora in esame – è come vada calcolata in una fattispecie quale la presente la entità ponderale della “melassa di tabacco”.
Infatti, mentre per ciò che attiene a “sigari”, “sigaretti” e “sigarette” (espressioni lessicali che trovano nel ricordato dPR n. 48 del 2010 una precisa
definizione normativa che ne delimita, per ciascuna di esse, la nozione giuridica), il legislatore ha dettato, all’art. 39-quinquies del dlgs n. 504 del 1995 una puntuale tabella di equiparazione convenzionale del numero degli esemplari del prodotto con il loro peso (corrispondendo, convenzionalmente un kg di prodotto, rispettivamente, a 200 “sigari”, a 400 “sigaretti” ed a 1000 “sigarette”) una tale indicazione di tipo convenzionale non è stata operata per ciò che attiene ai restanti “tabacchi da fumo”.
La questione non è evidentemente priva di importanza, posto che, solo a seguito della verifica dell’avvenuto superamento della dianzi ricordata soglia di punibilità, sarà possibile discriminare un fatto solo amministrativamente punibile da un fatto, invece, sanzionabile penalmente (senza considerare che, laddove il fatto sia punito con la sola sanzione amministrativa pecuniaria, la circostanza che questa sia puntualmente commisurata al peso del prodotto illecitamente oggetto di importazione, impone che ad esso sia attribuita una precisa entità ponderale).
Nell’occuparsi di analoga vicenda questa Corte ebbe a segnalare come l’applicabilità dell’allora vigente art. 291-bis del dPR n. 43 del 1973 (ed oggi dell’art. 84 del dPR n. 141 del 2024), non potesse ritenersi negativamente condizionata dalla circostanza che per il tabacco sfuso – cioè quello non confezionato in sigari, sigaretti o sigarette – non fosse prevista la determinazione convenzionale del peso; nella occasione la Corte, rifacendosi, peraltro, ad un ulteriore precedente giurisprudenziale, osservò come il riferimento contenuto nell’art. 291-bis del dPR n. 43 del 1973, al peso convenzionale, risponde, infatti, all’esigenza pratica di evitare di procedere, ai fini della verifica del superamento della soglia di punibilità ed ai fini della determinazione della (ora eventuale) sanzione pecuniaria, alla pesatura dei “sigari”, dei “sigaretti” o delle “sigarette”; operazione resa ancor più complessa dalla necessità di scomputare da tale peso eventuali componenti estranei, quali filtri o carta (si ricorda quanto al caso che interessa la “melassa di tabacco” è costituita solo in misura recessiva, dalle foglie essiccate e trinciate della pianta in questione); nel caso, invece, dei tabacchi sfusi, non esistendo unità minime di confezionamento – quali, appunto, le “sigarette”, i “sigari” o i “sigaretti” – l’operazione di pesatura è, evidentemente, sempre necessaria, per determinare il peso effettivo che corrisponde, per tale tipologia di prodotti, al peso convenzionale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 3 luglio 2015, n. 38549, non massimata sul punto; Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 ottobre 2012, non massimata).
Nel caso in esame non risulta che tale operazione sia stata eseguita, avendo i verificatori proceduto all’esame puntuale di una sola delle confezioni di “melassa di tabacco” ed avendo ritenuto superata la soglia di punibilità sulla sola base della ritenuta omogeneità tipologica delle diverse confezioni di prodotto nella cui detenzione è stato sorpreso l’imputato (in particolare ritenendo costante la percentuale, pari al 29,7% dell’intero prodotto, del tabacco presente in ogni singola confezione), sebbene si trattasse di prodotti fra loro diversi per marchio di origine e per tipologia di confezionamento.
Nei limiti di cui sopra, dovendosi ritenere necessari più stringenti elementi dimostrativi dell’avvenuto superamento della soglia di punibilità prevista ora dall’art. 84 del dPR n. 141 del 2024, e dovendo, ove si ritenesse comunque superata detta soglia, rideterminarsi la sanzione inflitta, attesa la esclusione della concorrenza fra sanzione pecuniaria e sanzione detentiva frutto della più volte ricordata modifica legislativa introdotta a seguito della entrata in vigore del citato dPR n. 141 del 2024, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma che, alla luce dei rilievi che precedono, riesaminerà il tema della rilevanza penale della condotta ascritta al prevenuto e della eventuale sanzione della quale lo stesso risultasse meritevole.
PQM
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 6 maggio 2025
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Il Consigliere estensore
Il Pres ente