La Continuazione tra Reati: Limiti e Criteri secondo la Cassazione
La Suprema Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha fornito importanti chiarimenti sui presupposti per l’applicazione della continuazione tra reati, un istituto fondamentale del nostro diritto penale. Il caso analizzato riguarda la negazione del vincolo di continuazione tra il reato di associazione per delinquere e un omicidio, poiché quest’ultimo è risultato essere la conseguenza di un evento improvviso e non programmato. Analizziamo la decisione per comprendere meglio i confini di questa figura giuridica.
Il Caso in Esame
Un soggetto condannato per appartenenza a un’associazione criminale e per un omicidio ha presentato ricorso in Cassazione avverso l’ordinanza della Corte d’Assise d’Appello che aveva respinto la sua richiesta di riconoscere la continuazione tra i due delitti. Secondo la difesa, l’omicidio rientrava nel medesimo disegno criminoso che lo aveva portato ad affiliarsi al clan.
La Corte territoriale, tuttavia, aveva stabilito che l’omicidio in questione non era stato pianificato, ma era stato deliberato estemporaneamente dal capo clan come ritorsione per un precedente agguato subito da un membro del sodalizio per mano della vittima. Di conseguenza, mancava il requisito della preordinazione, essenziale per configurare la continuazione.
La Decisione della Corte sulla Continuazione tra Reati
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando in toto la valutazione del giudice dell’esecuzione. I giudici supremi hanno ribadito che le censure del ricorrente si risolvevano in una richiesta di rivalutazione del merito dei fatti, attività preclusa in sede di legittimità. Le argomentazioni giuridiche, inoltre, sono state ritenute manifestamente infondate.
La Corte ha stabilito che la decisione impugnata ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali in materia, escludendo il vincolo della continuazione tra reati a causa dell’assenza di un unico e originario disegno criminoso.
Le Motivazioni della Sentenza
L’ordinanza si fonda su un’analisi rigorosa dei presupposti dell’articolo 81, secondo comma, del codice penale.
L’Imprevedibilità dell’Omicidio
Il punto cruciale della motivazione risiede nella natura imprevedibile e sopravvenuta del delitto di omicidio. La Corte ha evidenziato come l’uccisione della vittima sia stata una reazione immediata a un evento specifico e non prevedibile al momento dell’adesione del ricorrente al clan. L’omicidio fu una vendetta, organizzata in risposta a un’azione ostile subita dal gruppo criminale. Questa circostanza spezza il nesso programmatico richiesto per la continuazione, poiché l’imputato non poteva aver ‘programmato’ di commettere quel delitto anni prima, quando si affiliò all’organizzazione.
L’Irrilevanza delle Dichiarazioni del Collaboratore
Il ricorrente aveva tentato di valorizzare le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che collocavano la sua affiliazione al clan in un periodo antecedente di circa due anni rispetto all’omicidio. Secondo la Cassazione, tale elemento è privo di decisività. Anche se l’adesione fosse avvenuta molto tempo prima, ciò non cambierebbe la natura estemporanea della decisione omicidiaria. Ciò che conta non è l’arco temporale, ma la preordinazione del singolo reato all’interno di un piano unitario iniziale. Se il piano omicidiario nasce da contingenze successive, il legame della continuazione non può sussistere.
Le Conclusioni e le Implicazioni Pratiche
Questa pronuncia rafforza un principio fondamentale: la continuazione tra reati non è un beneficio automatico per chi commette più crimini nel contesto di un’associazione criminale. È necessaria una prova rigorosa del ‘medesimo disegno criminoso’, inteso come un’unica ideazione che abbracci sin dall’inizio tutti i reati poi effettivamente commessi. I delitti che, pur coerenti con le finalità del clan, scaturiscono da eventi occasionali e imprevedibili, devono essere considerati autonomi e sanzionati separatamente. Questa interpretazione ha importanti conseguenze sul trattamento sanzionatorio, impedendo ingiustificati sconti di pena in contesti di criminalità organizzata dove le azioni delittuose sono spesso frutto di dinamiche reattive e non di una programmazione a lungo termine.
È possibile riconoscere la continuazione tra il reato di associazione a delinquere e un omicidio commesso successivamente?
No, secondo questa ordinanza, se l’omicidio non era parte del programma criminoso iniziale ma è scaturito da un evento sopravvenuto e imprevedibile, come una vendetta decisa sul momento dal capo clan.
Cosa si intende per ‘medesimo disegno criminoso’ ai fini della continuazione?
Si intende un piano criminale unico, ideato e programmato nelle sue linee essenziali fin dall’inizio, che lega tra loro le diverse violazioni di legge. Un reato commesso per ragioni contingenti e non preordinate non rientra in tale disegno.
Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile perché le censure proposte non contestavano vizi di legittimità, ma miravano a una nuova valutazione dei fatti già accertati dal giudice di merito, attività non consentita in sede di Cassazione. Inoltre, le questioni giuridiche sollevate sono state giudicate manifestamente infondate.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 26756 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 26756 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 14/02/2024 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Visti gli atti.
Esaminati il ricorso e l’ordinanza impugnata.
Ritenuto che le censure articolate da NOME COGNOME a sostegno dell’impugnazione non superano il vaglio preliminare di ammissibilità in quanto sollecitano, nella sostanza, non consentiti apprezzamenti di merito e, laddove pongono questioni giuridiche, risultano manifestamente infondate o generiche.
1.1. Il Giudice dell’esecuzione, in puntuale applicazione dei principi in materia di continuazione come declinati dalla giurisprudenza di legittimità, ha ineccepibilmente osservato che ostano al riconoscimento del vincolo di cui all’art. 81, secondo comma, cod. pen. tra il reato associativo e quello di omicidio, con rilievo decisivo, la circostanza accertata in sede di cognizione che l’uccisione della vittima, NOME COGNOME, era stata decretata dal capo clan, NOME COGNOME, con il coinvolgimento di COGNOME nella fase esecutiva, a seguito di un accadimento sopravvenuto e non prevedibile. L’omicidio, più precisamente, era stato organizzato per colpire COGNOME, reo di avere poco tempo prima partecipato personalmente ad un omicidio ai danni di un esponente del clan di appartenenza di COGNOME, il quale, di conseguenza, non aveva potuto programmare la sua partecipazione fin dall’adesione al sodalizio camorristico avvenuta anni prima.
Le censure del ricorrente sollecitano una lettura alternativa del compendio probatorio tratto dalle sentenze in esecuzione da sovrapporre a quella, non manifestamente illogica, del giudice di merito.
Oggetto di doglianza è l’omessa considerazione delle dichiarazioni di un collaboratore, NOME COGNOME, che avrebbe collocato l’adesione di COGNOME al clan COGNOME “nel 2001 2003”. Si tratta con tutta evidenza di una censura priva di decisività poiché anche a prestare credito al propalato di COGNOME rimarrebbe comunque valida l’argomentazione su cui è imperniato l’apparato giustificativo della decisione ovvero l’estemporaneità della deliberazione omicidiaria e la conseguente impossibilità della sua preordinazione sin dal momento dell’adesione di COGNOME al clan, in ipotesi risalente anche a due anni prima l’omicidio, considerato che COGNOME è stato ucciso il 3 gennaio 2003.
Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che ritiene equa, di euro tremila a favore della cassa delle ammende.
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Dichiara inammissibile il ricorso e condanna IO ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa del ammende.
Così deciso, in Roma 20 giugno 2024.