Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 36079 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 36079 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 19/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 20/12/2023 del TRIBUNALE di NOLA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del AVV_NOTAIO, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 20 dicembre 2023, il Tribunale di Noia ha respinto l’istanza, presentata nell’interesse di NOME COGNOME, volta al riconoscimento del vincolo della continuazione, in executivis, tra i reati per cui ella è stata condannata con due separate sentenze.
NOME COGNOME propone, con l’assistenza dell’AVV_NOTAIO, ricorso per cassazione affidato a due motivi, con entrambi i quali denuncia violazione di legge e vizio di motivazione.
Con il primo motivo, si duole del rigetto della richiesta con riferimento al rapporto tra il reato associativo ex art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, commesso tra luglio 2013 ed aprile 2014, e quello, qualificato ai sensi del precedente art. 73, consumato il 13 febbraio 2015.
Con il secondo, ascrive al giudice dell’esecuzione di avere illegittimamente disatteso l’istanza in relazione al legame intercorrente tra i reati ex art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, separatamente accertati nell’ambito dei due procedimenti.
Osserva, sotto entrambi gli aspetti, che all’esito del processo per il delitto associativo è stata riconosciuta la continuazione tra lo stesso e tutti i reati fine oggetto, in quella sede, di addebito, ivi compresi quelli che ella ha commesso dopo che, alla fine del 2013, si è resa, unitamente al compagno NOME COGNOME, autonoma dalla compagine di appartenenza – il clan guidato da NOME COGNOME – nella gestione della piazza di spaccio di Vico Marina ai Due Palazzi di San Giovanni a Teduccio; ciò che, a suo modo di vedere, dimostra che ella, all’atto dell’ingresso nella societas RAGIONE_SOCIALE, si è preventivamente rappresentata, in linea generale, la commissione di tutti gli illeciti successivamente realizzati, in attuazione o meno del programma associativo.
Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché vertente su censure manifestamente infondate.
La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al vincolo della continuazione in sede di esecuzione, ha individuato gli elementi da cui desumere
l’ideazione unitaria, da parte del singolo agente, di una pluralità di condotte illecite, stabilendo che le violazioni dedotte ai fini dell’applicazione della continuazione ex art. 671 cod. proc. pen. devono costituire parte integrante di un unico programma criminoso deliberato per conseguire un determinato fine, per il quale si richiede l’originaria progettazione di una serie ben individuata di illeciti, già concepiti almeno nelle loro caratteristiche essenziali (Sez. 1, n. 11564 del 13/11/2012, COGNOME, Rv. NUMERO_DOCUMENTO).
Tale programma, a sua volta, non deve essere confuso con la sussistenza di una concezione di vita ispirata all’illecito, perché in tal caso «la reiterazione della condotta criminosa è espressione di un programma di vita improntato al crimine e che dal crimine intende trarre sostentamento e, pertanto, penalizzata da istituti quali la recidiva, l’abitualità, la professionalità nel reato e la tendenza a delinquere, secondo un diverso ed opposto parametro rispetto a quello sotteso all’istituto della continuazione, preordinato al favor rei» (Sez. 5, n. 10917 del 12/01/2012, COGNOME, Rv. 252950).
La verifica di tale preordinazione – ritenuta meritevole di più benevolo trattamento sanzionatorio attesa la minore capacità a delinquere di chi si determina a commettere gli illeciti in forza di un singolo impulso, anziché di spinte criminose indipendenti e reiterate – investendo l’inesplorabile interiorità psichica del soggetto, non può essere compiuta sulla base di indici meramente presuntivi ovvero di congetture processuali, essendo necessario dimostrare che i reati che si ritengono avvinti dal vincolo della continuazione invocato siano stati concepiti ed eseguiti nell’ambito di un programma criminoso unitario (Sez. 1, n. 37555 del 13/11/2015, COGNOME, Rv. 267596).
Ne discende che «Il riconoscimento della continuazione, necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea» (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, COGNOME, Rv. 270074).
Non è, per converso, necessaria la concomitante ricorrenza di tutti i predetti indicatori, potendo l’unitarietà del disegno criminoso essere apprezzata anche al cospetto di soltanto alcuni di detti elementi, purché
significativi (in questo senso cfr., tra le tante, Sez. 1, n. 8513 del 09/01/2013, COGNOME, Rv. 254809; Sez. 1, n. 44862 del 05/11/2008, COGNOME, Rv. 242098).
L’accertamento di tali indici è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, quando il convincimento del giudice sia sorretto da una motivazione adeguata e congrua, senza vizi logici e travisamento dei fatti.
3. Tanto premesso sul piano dei principi, ritiene il Collegio che il Tribunale di Nola vi si sia, nel complesso, attenuto, pervenendo al rigetto dell’istanza ex art. 671 cod. proc. pen. proposta nell’interesse di NOME COGNOME sulla scorta di considerazioni logiche e coerenti e, comunque, esenti da vizi rilevanti in sede di legittimità.
Il giudice dell’esecuzione ha, invero, considerato che, quantunque i reati de quibus agitur siano connotati da omogenea offensività, la loro riconducibilità ad un unico disegno criminoso sia preclusa, da un canto, dallo iato temporale, stimabile in circa dieci mesi, che separa la fine dell’attività criminosa accertata nel primo procedimento e l’episodio che è valso alla COGNOME l’ulteriore condanna e, dall’altro, la sicura estraneità della più recente manifestazione antisociale alla dimensione associativa nella quale vanno iscritti i reati fine commessi sino alla fine del 2013.
Il giudice dell’esecuzione ha, quindi, sviluppato un tessuto argomentativo sintonico con la descritta cornice ermeneutica, che la ricorrente contesta ponendosi in un’ottica sostanzialmente confutativa – in quanto tale non idonea ad abilitare l’intervento censorio del giudice di legittimità – che si impernia su elementi che, frutto di una opposta esegesi delle risultanze istruttorie, non valgono a connotare in chiave di illegittimità la decisione impugnata, che si incentra su dati di fatto, correttamente esposti dal giudice dell’esecuzione, che le garantiscono un adeguato supporto razionale in quanto idonei ad orientare l’esercizio della discrezionalità giudiziale, frutto della prevalenza degli elementi ostativi all’accoglimento dell’istanza ex art. 671 cod. proc. pen. su quelli che il Tribunale, senza esorbitare dall’ambito della libertà di apprezzamento che gli è normativamente attribuita, ha, invece, stimato recessivi.
La ricorrente pone, in particolare, l’accento sul pregresso riconoscimento della continuazione tra il reato associativo ed i reati ex art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, che ella ha commesso dopo avere abbandonato la consorteria, ovvero su una decisione adottata nella sede di cognizione che – sebbene, in sé, non più sindacabile – non vincola in alcun modo l’apprezzamento demandato al
giudice dell’esecuzione il quale, spendendo argomentazioni logicamente e giuridicamente ineccepibili, si è diversamente orientato.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere pertanto, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n 186, della Corte costituzionale, rilevato che, nella fattispecie, non sussis elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declarator dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa dell ammende.
Così deciso il 19/04/2024.