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Continuazione tra reati: no se il delitto è estemporaneo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36588/2024, ha rigettato il ricorso di un condannato che chiedeva il riconoscimento della continuazione tra reati di associazione mafiosa e un omicidio. I giudici hanno stabilito che non può esserci continuazione tra reati se il delitto più grave (in questo caso l’omicidio) non era stato programmato al momento dell’adesione al sodalizio criminale, ma è scaturito da una causa occasionale ed estemporanea, come una vendetta per un torto specifico.

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Pubblicato il 21 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Continuazione tra reati: niente vincolo se il delitto è occasionale

La Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata su un tema cruciale del diritto penale: la continuazione tra reati. Con la sentenza in esame, ha chiarito i presupposti per riconoscere un unico disegno criminoso tra l’appartenenza a un’associazione mafiosa e i singoli delitti commessi dai suoi affiliati. La decisione sottolinea che non può esserci un automatismo: il ‘reato fine’ deve essere stato programmato, almeno nelle sue linee essenziali, sin dal momento dell’adesione al sodalizio.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine dal ricorso di un individuo, condannato con più sentenze definitive per reati gravissimi, tra cui partecipazione ad associazione di stampo mafioso e un duplice omicidio. L’interessato si era rivolto al giudice dell’esecuzione per ottenere il riconoscimento del vincolo della continuazione tra tutti i reati a lui ascritti. In particolare, sosteneva che l’omicidio, commesso anni prima, fosse legato da un medesimo disegno criminoso alla sua successiva e duratura partecipazione al clan.

Secondo la difesa, il delitto era stato compiuto nel contesto di uno scontro tra clan rivali, con lo scopo di eliminare esponenti della cosca avversaria per rafforzare la propria. Questa finalità, a suo dire, dimostrava che l’omicidio era stato programmato fin dalla costituzione dell’associazione di cui faceva parte.

La Decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione del Tribunale di Parma. I giudici hanno escluso la sussistenza di un unico disegno criminoso tra il reato di associazione a delinquere e l’omicidio. La Corte ha ribadito un principio consolidato: per applicare l’istituto della continuazione, non è sufficiente che i reati siano omogenei o commessi a breve distanza di tempo, ma è necessario provare che i reati successivi fossero già stati pianificati, almeno nelle linee generali, al momento della commissione del primo.

Le motivazioni sulla continuazione tra reati

Il cuore della motivazione risiede nella distinzione tra programmazione criminale e occasionalità. La Cassazione, richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite, ha spiegato che la continuazione tra reati richiede una deliberazione iniziale di una pluralità di condotte in vista di un unico fine. Nel rapporto tra il reato associativo e i ‘reati fine’, questo principio si traduce in una regola precisa: il vincolo della continuazione è ipotizzabile solo se si dimostra che il reato fine era stato programmato al momento dell’adesione al sodalizio.

Nel caso specifico, le sentenze di merito avevano accertato che la causa del duplice omicidio era da rinvenirsi in una ragione ‘occasionale ed estemporanea’: la volontà di vendicare un torto subito da un altro affiliato del clan (l’amputazione di un dito). Sebbene l’omicidio potesse oggettivamente rafforzare il predominio del clan, la sua genesi non derivava da un piano strategico preesistente, ma da una reazione a un evento specifico e imprevisto.

La Corte ha quindi concluso che l’intento di acquisire il predominio su un clan rivale non è, di per sé, un elemento sufficiente a dimostrare la programmazione del reato-fine al momento dell’ingresso nell’associazione. La deliberazione criminosa relativa all’omicidio era maturata successivamente all’adesione al clan, rendendolo un episodio autonomo e non parte del disegno criminoso originario.

Conclusioni

Questa sentenza ribadisce l’interpretazione rigorosa dei requisiti per la continuazione tra reati. Si nega qualsiasi automatismo tra l’appartenenza a un’organizzazione criminale e i delitti commessi nel suo interesse. La decisione impone al giudice dell’esecuzione un’analisi approfondita e puntuale, che vada oltre la mera appartenenza contestuale e verifichi se, al momento dell’adesione al patto criminale, il singolo delitto fosse già stato deliberato come parte di un unico piano. In assenza di tale prova, ogni reato mantiene la sua autonomia, con le conseguenti implicazioni sul trattamento sanzionatorio.

Quando è possibile riconoscere la continuazione tra il reato di associazione criminale e i singoli reati commessi dall’affiliato (i cosiddetti ‘reati fine’)?
Secondo la Corte, il vincolo della continuazione è ipotizzabile solo a condizione che venga puntualmente verificato che i reati fine fossero stati programmati, almeno nelle loro linee essenziali, già al momento in cui il partecipe si è determinato a entrare nel sodalizio criminale.

Perché nel caso di specie è stata negata la continuazione tra l’associazione mafiosa e l’omicidio?
La continuazione è stata negata perché, secondo quanto accertato dai giudici, l’omicidio non era parte di un piano originario, ma è scaturito da una ‘ragione occasionale ed estemporanea’, ovvero la volontà di vendicare un torto specifico subito da un altro affiliato. Mancava quindi la programmazione iniziale richiesta.

Commettere un reato per rafforzare il proprio clan è sufficiente per ottenere il riconoscimento della continuazione?
No. La sentenza chiarisce che l’intento di acquisire il predominio rispetto a un clan rivale non costituisce di per sé un elemento sufficiente a dimostrare la programmazione del reato-fine al momento dell’ingresso nell’associazione. La decisione di commettere il reato può infatti essere maturata in un momento successivo, per cause impreviste.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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