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Continuazione tra reati: no se c’è abitualità

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato che chiedeva il riconoscimento della continuazione tra reati. La Corte ha stabilito che la notevole distanza temporale e spaziale tra i crimini, le diverse modalità di esecuzione e le differenti vittime sono elementi che ostacolano l’applicazione di questo istituto. Tali circostanze, secondo i giudici, non indicano un unico disegno criminoso, ma piuttosto una abitualità criminosa dell’agente, che non merita l’applicazione di istituti di favore.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Continuazione tra Reati: Quando l’Abitualità Prevale sul Disegno Criminoso

Il concetto di continuazione tra reati è un pilastro del nostro sistema sanzionatorio penale, pensato per mitigare la pena di chi commette più violazioni della legge penale in esecuzione di un unico piano. Tuttavia, la sua applicazione non è automatica e richiede una valutazione attenta da parte del giudice. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 11509/2024) chiarisce i confini di questo istituto, negandone l’applicazione quando i fatti indicano non un disegno unitario, ma una vera e propria ‘abitualità criminosa’.

I fatti del caso

Un soggetto condannato per diversi reati, tra cui resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali, presentava ricorso al Tribunale in funzione di giudice dell’esecuzione per ottenere il riconoscimento del vincolo della continuazione tra i vari illeciti commessi. L’obiettivo era ottenere un trattamento sanzionatorio più favorevole, unificando le pene sotto la logica di un presunto unico disegno criminoso. Il Tribunale, tuttavia, respingeva la richiesta.

Contro questa decisione, l’interessato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando un presunto difetto di motivazione da parte del giudice dell’esecuzione.

La decisione della Corte di Cassazione e la negazione della continuazione tra reati

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando in toto la decisione del Tribunale. I giudici di legittimità hanno ritenuto la motivazione del provvedimento impugnato pienamente corretta e in linea con i principi consolidati della giurisprudenza, in particolare quella delle Sezioni Unite.

Secondo la Corte, diversi elementi concreti ostacolavano in modo decisivo il riconoscimento della continuazione tra reati:

* Distanza spazio-temporale: Le violazioni erano state commesse in luoghi e momenti significativamente distanti tra loro.
* Diverse modalità esecutive: I reati erano stati perpetrati con metodi differenti.
* Diversità delle persone offese: Le vittime dei reati non erano le medesime.
* Carattere estemporaneo: Le condotte di resistenza e lesioni apparivano come reazioni spontanee e occasionali, non come tappe di un piano preordinato.

Le motivazioni: perché l’abitualità esclude la continuazione tra reati

Il cuore della decisione risiede nella distinzione tra ‘disegno criminoso’ e ‘abitualità criminosa’. La Corte ha osservato che i fatti, nel loro complesso, non erano riconducibili a un’unica risoluzione criminosa iniziale, ma rappresentavano piuttosto ‘autonome risoluzioni criminose’. Questa pluralità di decisioni di delinquere è stata interpretata come espressione dell’abitualità criminosa dell’agente. In altre parole, l’individuo non stava eseguendo un piano, ma semplicemente manifestava una tendenza consolidata a commettere reati. L’abitualità è una condizione che, per sua natura, non merita l’applicazione di istituti di favore come la continuazione, la cui ratio è proprio quella di premiare chi, pur commettendo più reati, lo fa all’interno di un singolo e circoscritto progetto illecito. La Corte ha inoltre sottolineato come le argomentazioni del ricorrente fossero generiche e mirassero a una ‘rilettura’ dei fatti, operazione non consentita in sede di legittimità, dove il giudizio è sulla corretta applicazione del diritto, non sulla ricostruzione della vicenda.

Le conclusioni: implicazioni pratiche della sentenza

Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale: per ottenere il beneficio della continuazione, non basta la semplice somiglianza dei reati commessi. È necessario dimostrare, con elementi concreti, l’esistenza di un’unica programmazione iniziale che leghi tutte le condotte illecite. In assenza di tale prova, e in presenza di indicatori come la distanza temporale, la diversità delle modalità e delle vittime, i giudici tenderanno a qualificare il comportamento come espressione di abitualità a delinquere. La conseguenza è l’esclusione di qualsiasi trattamento sanzionatorio di favore, con l’applicazione di pene distinte per ogni reato commesso. La decisione serve quindi da monito: la continuazione è un beneficio riservato a casi specifici e non uno strumento per alleggerire sistematicamente le conseguenze di una carriera criminale.

Quando viene esclusa la continuazione tra reati?
La continuazione tra reati viene esclusa quando elementi come la notevole distanza spazio-temporale tra le violazioni, le differenti modalità di esecuzione e la diversa identità delle vittime indicano che i reati non fanno parte di un unico disegno criminoso, ma sono piuttosto espressione dell’abitualità criminosa dell’agente.

Cosa intende la Cassazione per abitualità criminosa in questo contesto?
Per abitualità criminosa, la Cassazione intende la commissione di reati che non derivano da un piano preordinato, ma da autonome risoluzioni criminose. Queste azioni sono viste come l’espressione di una tendenza a delinquere dell’individuo, una condizione che non merita l’applicazione di istituti di favore come la continuazione.

Perché un ricorso in Cassazione può essere dichiarato inammissibile?
Un ricorso in Cassazione può essere dichiarato inammissibile quando le argomentazioni presentate (doglianze) sono generiche e si limitano a sollecitare una rilettura delle circostanze fattuali già valutate dal giudice precedente. Questa operazione non è consentita in sede di legittimità, dove la Corte valuta solo la corretta applicazione della legge e non può riesaminare i fatti del caso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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