Continuazione tra reati: quando il tempo spezza il disegno criminoso
La continuazione tra reati, disciplinata dall’articolo 81 del codice penale, è un istituto fondamentale del nostro ordinamento che permette di mitigare il trattamento sanzionatorio quando più crimini sono frutto di un’unica ideazione. Tuttavia, la sua applicazione non è automatica e richiede una rigorosa verifica dei presupposti. Con l’ordinanza n. 5409/2024, la Corte di Cassazione torna a precisare i confini di questo istituto, sottolineando l’importanza dell’originaria identità del disegno criminoso e il peso della distanza temporale tra i fatti.
I fatti del caso: la richiesta di unificazione delle pene
Il caso in esame riguarda un ricorso presentato da un soggetto condannato per due distinti gruppi di reati. La prima condanna, risalente al 1999, riguardava la detenzione di armi commessa nel 1997. La seconda, del 2015, era per il reato di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.) per fatti commessi fino al 2003.
In sede di esecuzione, il condannato aveva richiesto di applicare la disciplina della continuazione tra reati, sostenendo che anche i reati relativi alle armi fossero inseriti nel medesimo contesto associativo mafioso. A supporto della sua tesi, richiamava un provvedimento di prevenzione che attestava la sua contiguità a un clan mafioso fin dal 1997.
La Corte d’Assise d’Appello, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva però rigettato la richiesta. Da qui, il ricorso per Cassazione.
Il diverso criterio tra procedimento di prevenzione e continuazione tra reati
Uno dei punti centrali sollevati dal ricorrente era il presunto errore del giudice nel non aver considerato adeguatamente le risultanze del procedimento di prevenzione. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha chiarito in modo netto la distinzione tra i due ambiti.
Il procedimento di prevenzione ha lo scopo di accertare la pericolosità sociale di un individuo, basandosi su un quadro indiziario complessivo. L’istituto della continuazione tra reati, invece, richiede una prova rigorosa dell’esistenza di un’unica programmazione criminosa che abbracci tutti gli illeciti sin dall’inizio. Le valutazioni incidentali fatte nel primo contesto, quindi, non possono essere automaticamente trasferite nel secondo per dimostrare l’unicità del disegno criminoso.
Le motivazioni della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza, condividendo pienamente le argomentazioni del giudice dell’esecuzione. Le motivazioni si basano su due pilastri fondamentali.
La necessità di un disegno criminoso originario
Il requisito cardine per l’applicazione della continuazione è che l’identità del disegno criminoso sia rintracciabile sin dalla commissione del primo reato. Non è sufficiente che i reati siano semplicemente commessi in un arco di tempo più o meno lungo o che siano legati da una generica inclinazione a delinquere. È necessaria una deliberazione unitaria e preventiva che comprenda tutti gli episodi delittuosi. Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto che non vi fossero elementi per affermare che, nel 1997, il reato di detenzione di armi fosse già parte del programma criminoso associativo che si sarebbe manifestato pienamente solo negli anni successivi.
La distanza temporale come indicatore di separatezza
Un altro elemento decisivo è stata la “rilevantissima distanza temporale” tra i due gruppi di reati. Un lungo lasso di tempo tra la commissione dei crimini (in questo caso, diversi anni) rende meno probabile, se non implausibile, l’esistenza di un’unica programmazione iniziale. La Corte ha inoltre evidenziato come le attività criminose del 1997 fossero state giudicate come aventi natura e scopo diversi rispetto alla successiva appartenenza al clan mafioso. Mancava, in sostanza, quello specifico indicatore che potesse collegare in un unico filo logico e programmatico episodi così distanti e differenti.
Le conclusioni: implicazioni pratiche della decisione
L’ordinanza ribadisce un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità: per ottenere il beneficio della continuazione tra reati, non basta allegare una generica connessione tra i fatti, ma occorre dimostrare concretamente che tutti i crimini erano stati previsti e deliberati in un unico momento iniziale. La distanza temporale, pur non essendo un ostacolo assoluto, diventa un fattore di valutazione cruciale che, in assenza di prove contrarie forti, milita a favore della separatezza delle condotte criminose. Questa decisione serve come monito sulla necessità di una prova rigorosa e puntuale per l’applicazione di un istituto di favore come quello della continuazione.
Quando deve esistere il “disegno criminoso” per poter applicare la continuazione tra reati?
Secondo la Corte, l’identità del disegno criminoso deve essere rintracciabile e sussistere sin dal momento della commissione del primo reato.
Una notevole distanza temporale tra due reati impedisce di riconoscere la continuazione?
Sì, nel caso specifico la Corte ha ritenuto che una “rilevantissima distanza temporale” tra la commissione dei reati fosse un elemento che, insieme ad altri, indicava l’assenza di un unico disegno criminoso e la separatezza delle condotte.
Le valutazioni fatte in un procedimento di prevenzione possono essere usate per dimostrare la continuazione tra reati?
No, la Corte ha specificato che il procedimento di prevenzione e quello di esecuzione penale applicano criteri decisori diversi. Le considerazioni sulla pericolosità di un soggetto, tipiche della prevenzione, non possono incidere direttamente sulla verifica della sussistenza della continuazione tra reati.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 5409 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 5409 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 25/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a PALMI il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 21/09/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di REGGIO CALABRIA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
Rilevato che con il provvedimento impugnato la Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria, quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato la richiesta di COGNOME NOME di ritenere ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen. la continuazione tra i reati di cui alle sentenze della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria del 27/7/2015 per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. commesso fino in Palmi e altrove del 2003 e della Corte di Appello di Reggio Calabria dell’8/4/1999 per i delitti di cui agli artt. 12 L. 497/1974, 23 L. 110/1975 e 648 cod. pen. relativi alla detenzione di alcune armi, commessi in data 27/10/1997;
Rilevato che con il ricorso si denuncia la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 81 cod. pen. evidenziando che la conclusione del giudice sarebbe errata in quanto non avrebbe adeguatamente valutato quanto emerge dalla motivazione con il quale la Corte d’Appello di Reggio Calabria, Sezione Misure di Prevenzione, ha applicato al ricorrente la misura della prevenzione speciale ritenendo che la contiguità dello stesso al clan RAGIONE_SOCIALE risalisse all’anno 1997 e che le condotte poste in essere in relazione alle armi erano inserite nel medesimo contesto associativo;
Rilevato che il provvedimento impugnato ha adeguatamente motivato quanto alla necessità che l’identità del disegno criminoso debba essere rintracciabile sin dalla commissione del primo reato e come questo non sia desumibile dagli atti -dai quali risulta una rilevantissima distanza temporale tra la commissione dei due reati e che il ricorrente era nell’anno 1997 dedito ad attività criminose che nulla a che vedere avevano con l’appartenenza al clan, ciò anche tenendo conto del diverso criterio decisorio applicato nel procedimento di prevenzione citato, il cui fine è quello di verificare la pericolosità del ricorrente senza che eventuali considerazioni incidentali possano incidere nella verifica circa la sussistenza o meno della continuazione tra reati- non emerge alcuno specifico indicatore che consenta di applicare l’invocata disciplina di favore (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, COGNOME, Rv. 270074 – 01; Sez. 5, n. 20900 del 26/04/2021, COGNOME, Rv. 281375 – 01; Sez. 6, n. 51906 del 15/09/2017, COGNOME, Rv. 271569 01 Sez. 1, n. 13609 del 22/03/2011, COGNOME, Rv. 249930 – 01);
Ritenuto pertanto che il ricorso è inammissibile in quanto le doglianze sono manifestamente infondate e in parte tese a sollecitare una diversa e alternativa lettura che non è consentita in questa sede (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv 280601);
Considerato che alla inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – valutato il contenuto del ricorso e in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento della somma, ritenuta congrua, di euro tremila in favore della cassa delle ammende. ·
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 25/1/2024