Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 39285 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 39285 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 27/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato in Germania il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 24/05/2024 della CORTE DI APPELLO DI LECCE udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, NOME COGNOME, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza del 24 maggio 2024 la Corte d’appello di Lecce, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha respinto l’istanza di NOME COGNOME di applicazione della disciplina della continuazione tra i reati oggetto di tre sentenze di condanna emesse nei suoi confronti.
In particolare, nel respingere l’istanza, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto non vi fossero elementi che potessero deporre per la programmazione unitaria dei reati, evidenziando in particolare con riferimento al rapporto tra i reati oggetto della sentenza del Tribunale di Brindisi del 13 aprile 2005 (la partecipazione ad una associazione di tipo mafioso) e quelli delle altre due sentenze oggetto dell’istanza (delle estorsioni) che gli stessi erano stati commessi a distanza di
tempo; inoltre, i secondi erano stati commessi con soggetti diversi da quelli appartenenti al sodalizio di cui alla prima condanna; con riferimento, invece, al rapporto tra i reati oggetto della sentenza del Tribunale di Lecce del 18 febbraio 2009 e quelli della sentenza del Tribunale di Brindisi del 6 luglio 2012, essi sono stati giudicati commessi a distanza temporale consistente, in luoghi diversi e con correi diversi.
Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso il condannato, per il tramite del difensore, con unico motivo in cui deduce violazione di legge per essere stata respinta l’istanza nonostante che la programmazione unitaria dei reati fosse desumibile dalla circostanza che il reato associativo ha natura permanente, e che la forza di intimidazione del vincolo associativo è ciò che il giudice dell’esecuzione ha definito “fama criminale” dell’autore del reato, mentre la tendenza a commettere reati, ritenuta caratterizzare il ricorrente secondo la ordinanza impugnata, non è che la parcellizzazione dell’unitaria volontà delittuosa espressa dall’interessato.
Con requisitoria scritta il Procuratore Generale, NOME COGNOME, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
Il ricorso deduce che il reato associativo per cui è stato condannato il ricorrente ha carattere permanente, ma la deduzione è inammissibile in quanto inconferente con il percorso logico dell’ordinanza impugnata, perché la permanenza copre soltanto il periodo per cui c’è accertamento di responsabilità che nel caso in esame è limitato al segmento temporale tra il marzo 1997 e l’ottobre 2000, mentre la prima delle estorsioni per cui vi è condanna nelle ulteriori sentenze oggetto dell’istanza è dell’aprile del 2006. Il giudice dell’esecuzione, infatti, non può fondare il proprio giudizio su circostanze di fatto contrarie agli accertamenti contenuti in sentenze irrevocabili(Sez. 5, n. 12788 del 24/01/2023, Bifone, Rv. 284264).
Il ricorso deduce che la circostanza che i reati commessi successivamente al periodo in cui è accertata la partecipazione del ricorrente a sodalizio di criminalità organizzata siano stati perpetrati con complici estranei ad esso non esclude la forza di intimidazione che deriva dal vincolo associativo, ma l’argomento è inammissibile in quanto anch’esso inconferente con il percorso logico dell’ordinanza impugnata.
Infatti, anche a voler ritenere legati anche tali reati alla pregressa partecipazione del ricorrente all’organizzazione criminale, ciò non sarebbe sufficiente a far ritenere esistente un unico disegno criminoso tra essi, posto che la giurisprudenza di legittimità ritiene che non ogni reato-fine commesso nell’ambito di una associazione a delinquere è necessariamente sorretto da volizione unitaria con la partecipazione alla stessa (Sez. 1, n. 23818 del 22/06/2020, Toscano, Rv. 279430: È ipotizzabile la continuazione tra il reato di partecipazione ad associazione mafiosa e i reati fine, a condizione che il giudice verifichi puntualmente che questi ultimi siano stati programmati al momento in cui il partecipe si è determinato a fare ingresso nel sodalizio. In motivazione, la Corte ha aggiunto che, ove si ritenesse sufficiente la programmazione dei reati fine al momento della costituzione del sodalizio, si finirebbe per configurare una sorta di automatismo nel riconoscimento della continuazione e del conseguente beneficio sanzionatorio, in quanto tutti i reati commessi in ambito associativo dovrebbero ritenersi in continuazione con la fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen.; nello stesso senso Sez. 1, n. 40318 del 04/07/2013, Corigliano, Rv. 257253), e nel caso in esame, peraltro, neanche saremmo in presenza di reati fine ma solo, al più, di reati commessi con la forza intimidatrice derivante dalla fama criminale del ricorrente (secondo l’ordinanza) o dalla forza di intimidazione del ricorrente generata dal pregresso vincolo associativo (secondo il ricorso).
Il ricorso deduce che ciò che l’ordinanza ha definito tendenza a delinquere del ricorrente non è altro che la manifestazione in forme concrete dell’unica volizione a delinquere formatasi nel ricorrente, ma l’argomento è inammissibile in quanto generico e meramente congetturale, atteso che l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 81, secondo comma, cod. pen. consegue ad un giudizio sul rapporto esistente tra singoli, e specifici, reati, perché, per riconoscerne la sussistenza, si deve giungere alla conclusione che “al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali” (cfr. Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074), talché la pretesa del ricorso di individuare una unica volizione a delinquere nella scelta di vita criminale effettuata dall’interessato si rivela troppo generica e del tutto inidonea ad aggredire il percorso logico del provvedimento del giudice dell’esecuzione.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata resiste alle censure che le sono state rivolte, e che il ricorso deve essere ritenuto manifestamente infondato.
Ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., alla decisione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma determinata, in via equitativa, nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 27 settembre 2024.