Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 5220 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 5220 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nata a Perugia il 13/07/1966
avverso l’ordinanza emessa il 16/09/2024 dalla Corte di appello di Firenze;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 16 settembre 2024 la Corte di appello di Firenze, quale Giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza avanzata da NOME COGNOME finalizzata a ottenere il riconoscimento della continuazione, ai sensi degli artt. 81, secondo comma, cod. pen., e 671 cod. proc. pen., in relazione ai reati giudicati dalle sentenze irrevocabili di cui ai punti 1 e 2 del provvedimento impugnato, GLYPH ritenendo ostativa all’applicazione della disciplina GLYPH invocata l’eterogeneità esecutiva che connotava le condotte illecite oggetto di vaglio e l’ampiezza dell’arco temporale nel quale tali comportamenti si erano concretizzati, compreso tra il 2006 e il 2012.
Avverso questa ordinanza NOME COGNOME a mezzo dell’avv. NOME COGNOME ricorreva per cassazione, deducendo la violazione di legge e il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, in riferimento agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., e 671 cod. proc. pen., conseguenti all’omesso riconoscimento della continuazione in sede esecutiva, che si imponeva tenuto conto della correlazione esistente tra i delitti giudicati dalle decisioni irrevocabili richiamate dal condannato.
Questa correlazione era stata svalutata dalla Corte di appello di Firenze, che, attraverso un percorso argomentativo incongruo, aveva disatteso l’incontrovertibile collegamento esecutivo esistente tra i comportamenti criminosi della ricorrente, che dovevano essere valutati unitariamente, essendo collegati allo svolgimento della professione di avvocato, esercitata dalla condannata nell’arco temporale oggetto di vaglio.
Le considerazioni esposte imponevano l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato.
Osserva il Collegio che la giurisprudenza di legittimità, da tempo consolidata, con specifico riferimento al vincolo della continuazione invocato dalla ricorrente, ha individuato gli elementi da cui desumere l’ideazione unitaria da parte del singolo agente di una pluralità di condotte illecite, affermando che le violazioni dedotte ai fini dell’applicazione della continuazione, ex art. 671 cod. proc. pen., devono costituire parte integrante di un unico programma criminoso, che deve essere deliberato per conseguire un determinato fine, per il quale si
richiede l’originaria progettazione di una serie ben individuata di reati, già concepiti nelle loro caratteristiche essenziali (tra le altre, Sez. 1, n. 11564 del 13/11/2012, Daniele, Rv. 255156 – 01; Sez. 1, n. 44862 del 05/11/2008, COGNOME, Rv. 242098 – 01).
L’unicità del programma criminoso, a sua volta, non deve essere assimilata a una concezione esistenziale fondata sulle attività illecite del condannato, perché in tal caso «la reiterazione della condotta criminosa è espressione di un programma di vita improntata al crimine e che dal crimine intende trarre sostentamento e, pertanto, penalizzata da istituti quali la recidiva, l’abitualità, la professionalità nel reato e la tendenza a delinquere, secondo un diverso ed opposto parametro rispetto a quello sotteso all’istituto della continuazione, preordinato al “favor rei”» (Sez. 5, n. 10917 del 12/01/2012, COGNOME, Rv. 252950 – 01).
Deve, infine, precisarsi che la verifica della preordinazione criminosa, indispensabile per il riconoscimento della continuazione invocata dall’odierno ricorrente, non può essere compiuta dall’autorità giudiziaria sulla base di indici di natura meramente presuntiva ovvero di congetture processuali, essendo necessario, di volta in volta, dimostrare che i reati che si ritengono avvinti dal vincolo invocato siano stati concepiti ed eseguiti nell’ambito di un programma criminoso che, almeno nelle sue linee fondamentali, risulti unitario e imponga l’applicazione della disciplina prevista dagli artt. 81, comma secondo, e 671 cod. proc. pen. (tra le altre, Sez. 1, n. 37555 del 13/11/2015, COGNOME, Rv. 267596 01; Sez. 5, n. 49476 del 25/09/2009, Notaro, Rv. 245833 – 01).
Tanto premesso, deve rilevarsi che ostavano all’applicazione della disciplina della continuazione invocata da NOME COGNOME le modalità con cui le condotte criminose oggetto di vaglio erano state eseguite e l’ampiezza dell’arco temporale nel quale tali comportamenti si erano concretizzati, che esprimevano una spiccata propensione al crimine della condannata, incompatibile con il vincolo di cui si chiedeva il riconoscimento.
Si consideri, in proposito, che le condotte illecite per le quali la Corte di appello di Firenze escludeva l’unicità del disegno criminoso riguardavano fattispecie di reato connotate da obiettiva eterogeneità tipologica, concernendo un reato fallimentare e una pluralità di truffe, poste in essere in danno di alcuni clienti della ricorrente, che, all’epoca dei fatti, svolgeva la professione di avvocato.
Tali eterogenee fattispecie, inoltre, si perfezionavano in un arco temporale particolarmente ampio, compreso tra il 2006 e il 2012, che rendeva
ulteriormente problematica l’applicazione del vincolo della continuazione invocato dalla difesa della ricorrente.
Queste connotazioni, invero, rendevano evidente come le condotte J2 delinquenziali presupposte4 erano connotate da eterogeneità ed esprimevano caratteristiche comportamentali incompatibili con la preordinazione criminosa invocata dal suo difensore, rispetto alle quali priva di rilievo appare la i professione foreTe – svolta dalla condannata all’epoca dei fatti, che, al contrario, appare espressiva di un modus operandi professionale difforme dagli ordinari parametri deontologici.
Deve, per altro verso, evidenziarsi che la reiterazione di condotte illecite non può essere espressione di un programma di vita improntato al crimine e che dallo stesso intende trarre sostentamento, come nel caso di NOME COGNOME, a maggior ragione se collegato di un’attività professionale svolte con modalità difformi dagli ordinari canoni deontologici. In queste ipotesi, infatti, la proclività al crimine del condannato deve ritenersi disciplinata da istituti differenti dalla continuazione, quali la recidiva, l’abitualità, la professionalità nel reato e la tendenza a delinquere, secondo un diverso e opposto parametro normativo rispetto a quello sotteso all’istituto in esame, che, viceversa, appare orientato a favorire il soggetto attivo dei vari reati, applicandogli un trattamento sanzionatorio mitigato dagli effetti del combinato disposto degli artt. 81, comma secondo, cod. pen., e 671 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 10917 del 12/01/2012, Abbassi, cit.)
Le considerazioni esposte impongono conclusivamente il rigetto del ricorso proposto da NOME COGNOME con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 22 gennaio 2025.