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Continuazione reati: no se c’è propensione al crimine

La Corte di Cassazione ha negato il riconoscimento della continuazione reati a una professionista condannata per un reato fallimentare e diverse truffe ai danni di clienti, commessi in un arco temporale di sei anni. La Corte ha stabilito che la diversità dei reati e l’ampio lasso di tempo non configurano un unico disegno criminoso, ma piuttosto una generale propensione al crimine, escludendo così l’applicazione del trattamento sanzionatorio più favorevole.

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Pubblicato il 11 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Continuazione Reati: Quando un Piano Diventa Stile di Vita

L’istituto della continuazione reati rappresenta una chiave di volta nel diritto penale, offrendo un trattamento sanzionatorio più mite a chi commette più violazioni di legge in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Tuttavia, la sua applicazione non è automatica. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 5220/2025) chiarisce i confini tra un singolo progetto illecito e una più generale ‘propensione al crimine’, specialmente quando i reati sono eterogenei e commessi su un lungo arco temporale.

I Fatti del Caso

Il caso esaminato riguarda una professionista che ha presentato ricorso per ottenere il riconoscimento della continuazione tra diversi reati per i quali era stata condannata con sentenze definitive. Le condotte illecite, che includevano un reato fallimentare e una serie di truffe perpetrate ai danni dei suoi clienti, si erano svolte in un periodo di tempo significativo, tra il 2006 e il 2012.

La Corte di Appello aveva già respinto la richiesta, sottolineando due elementi ostativi: l’eterogeneità dei reati commessi e l’ampiezza dell’arco temporale. Secondo i giudici di merito, questi fattori indicavano non un unico piano, ma una tendenza consolidata a delinquere, incompatibile con i presupposti della continuazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, confermando la decisione della Corte di Appello. I giudici di legittimità hanno ribadito che per applicare la disciplina della continuazione reati, è indispensabile dimostrare l’esistenza di un programma criminoso unitario, deliberato in anticipo almeno nelle sue linee essenziali.

La Corte ha specificato che la reiterazione di condotte criminose non può essere confusa con un unico disegno. Se i reati sono espressione di un ‘programma di vita improntato al crimine’, dal quale il soggetto intende trarre sostentamento, entrano in gioco altri istituti giuridici come la recidiva, l’abitualità e la professionalità nel reato, che hanno una finalità opposta a quella del ‘favor rei’ (favore per l’imputato) che caratterizza la continuazione.

Le motivazioni: quando non si applica la continuazione reati

Le motivazioni della sentenza si concentrano sulla distinzione fondamentale tra due concetti.

Unico Disegno Criminoso vs. Propensione al Crimine

Il cuore della decisione risiede nella netta separazione tra l’unicità del disegno criminoso e la mera propensione al crimine. L’articolo 81 del codice penale richiede che i reati siano frutto di una singola e originaria deliberazione. Nel caso di specie, la varietà delle condotte (da reati fallimentari a truffe) e il lungo periodo in cui sono state poste in essere (sei anni) rendevano inverosimile una programmazione unitaria iniziale. La Corte ha interpretato questa sequenza di illeciti non come l’attuazione di un piano preordinato, ma come una scelta di vita basata sull’attività criminale.

Eterogeneità dei Reati e Arco Temporale

Un altro punto cruciale è l’analisi dell’eterogeneità tipologica dei reati e dell’ampio intervallo di tempo. La Corte ha osservato che questi elementi, valutati insieme, sono forti indicatori dell’assenza di un vincolo di continuazione. Anziché essere tappe di un unico percorso criminoso, i diversi reati apparivano come episodi distinti, espressione di una generale inclinazione a violare la legge. Il fatto che fossero stati commessi nell’ambito della stessa attività professionale non è stato ritenuto sufficiente a creare quel collegamento unitario richiesto dalla norma, ma anzi, è stato visto come un ‘modus operandi’ professionale difforme dai canoni deontologici.

Le conclusioni: implicazioni pratiche

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: per beneficiare della continuazione reati, non basta che i crimini siano commessi dalla stessa persona, anche se in un contesto simile. È necessario fornire la prova di un’unica ideazione a monte. In assenza di tale prova, e di fronte a reati diversi commessi a grande distanza di tempo, la giustizia tende a vedere non un singolo piano, ma uno stile di vita criminoso, che non merita il più mite trattamento sanzionatorio previsto per la continuazione. Questa decisione serve da monito, chiarendo che la reiterazione di illeciti, lungi dal poter essere unificata sotto un’unica egida, viene considerata un fattore aggravante che denota una pericolosità sociale del soggetto.

Cos’è la ‘continuazione dei reati’ e quando si applica?
È un istituto giuridico che permette di considerare più reati, commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, come un unico reato continuato, applicando una pena più mite. Si applica solo se esiste la prova di un’unica programmazione iniziale che lega tutte le condotte illecite.

Perché la Corte ha negato la continuazione in questo caso?
La Corte ha negato la continuazione perché ha ritenuto che i reati commessi fossero troppo diversi tra loro (eterogeneità tipologica, includendo reati fallimentari e truffe) e distribuiti su un arco temporale troppo lungo (sei anni). Questi elementi indicavano una generale propensione al crimine e uno stile di vita illegale, piuttosto che l’esecuzione di un singolo piano prestabilito.

Commettere reati nell’esercizio della propria professione aiuta a ottenere il riconoscimento della continuazione?
No, anzi. Nel caso specifico, la Corte ha considerato che svolgere i reati nell’ambito dell’attività professionale non creava il legame richiesto, ma piuttosto dimostrava un ‘modus operandi’ professionale contrario ai doveri deontologici, rafforzando l’idea di una scelta di vita orientata al crimine piuttosto che di un singolo piano.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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