Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 3354 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 3354 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a TORINO il 02/04/1983
avverso la sentenza del 28/02/2024 della CORTE APPELLO di TRIESTE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
Lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 28.2.2024 la Corte di Appello dì Trieste ha dichiarato inammissibile l’appello proposto – ottenuta la rimessione in termini per impugnare – nell’interesse di NOME COGNOME avverso la pronuncia emessa in primo grado in data 23,3.2006 nei confronti della predetta, che l’aveva dichiarata colpevole del reato di furto in abitazione, aggravato.
2.Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l’imputata, tramite il difensore di fiducia, deducendo, con l’unico motivo di seguito enunciato nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, dísp. att. cod. proc. pen., la violazione dell’ar 81 cod. pen., nonché la manifesta illogicità della motivazione e, comunque, la contraddittorietà della stessa. In particolare, si rappresenta che la redazione del motivo n. 6 dell’atto di appello, seppur sintetica, era chiara: l’appellante in riforma della sentenza n. 464/2006 del Tribunale di Udine chiedeva, tra l’altro, alla Corte di appello l’applicazione dell’istituto della continuazione in quanto l’episodio di furto considerato in detta sentenza era in stretta contiguità temporale con altro furto commesso dalla prevenuta, giudicato con sentenza n. 295/2006 del Tribunale di Udine, oramai definitiva per non essere stata accolta dalla Corte d’appello di Trieste l’istanza di rimessione in termini, come da ordinanza che era stata allegata all’atto di appello come documento n. 2. E’ evidente l’errore in cui è incorsa la Corte di appello nella parte in cui afferma che l’oggetto della sentenza impugnata era un furto commesso in data 15 giugno 2004 e come tale non coincidente con la data del 14 giugno 2003 dedotta dall’appellante. La Corte di appello non ha tenuto conto della correzione disposta dal giudice dell’esecuzione del Tribunale di Udine con ordinanza annotata in calce alla sentenza con cui veniva corretto l’errore materiale presente nel capo di imputazione sostituendo la data del 15 giugno 2004 con quella corretta del 14 giugno 2003.
Una volta appurato che la data citata dalla difesa era corretta, si critica anche l’altra parte della motivazione in cui la Corte dì appello afferma che il riferimento alla sentenza n. 295/2006 non sarebbe comprensibile in quanto la sentenza citata non è quella impugnata che è la n. 464 del 23/03/2006 e non è neppure quella indicata in calce all’impugnazione, non allegata.
Ebbene, si osserva al riguardo che è assolutamente inconferente il richiamo operato alla sentenza n. 464/2006 oggetto del presente procedimento ‘dal momento che la formulazione del motivo di appello era chiara in quanto si chiedeva che la pena di cui alla sentenza n. 464/2006 fosse posta in continuazione con la pena comminata in un’altra sentenza oramai divenuta irrevocabile per mancata concessione della rimessione in termini per impugnare da parte della Corte d’appello di Trieste. Dall’analisi dell’appello e dei documenti ad esso allegati si sarebbe dovuto desumere, fuori di ogni dubbio, che la sentenza da utilizzare come base di pena su cui effettuare l’aumento per la continuazione era una sentenza già irrevocabile rispetto alla quale la Corte di appello di Trieste aveva rigettato la richiesta di rimessione in termini per impugnare (il documento n. 2 allegato all’atto di appello è proprio l’ordinanza del
30/11/2020 della Corte di appello dì Trieste di rigetto dell’istanza di rimessione in termini).
La Corte di Trieste, pure a fronte degli errori materiali contenuti nell’atto dì appello, aveva tutti gli elementi per individuare la sentenza su cui operare la continuazione. Il motivo n. 6 di appello fa riferimento alla sentenza del Tribunale di Udine n. 295 del 26 Marzo 2006, ma in tutta evidenza si era sbagliata l’indicazione dell’anno che era il 2009, come veniva d’altra parte chiarito dall’ordinanza del 30/11/2020 di rigetto dell’istanza di restituzione in termini.
E’ indubbia, si ribadisce, l’esistenza di alcuni errori materiali nella redazione dell’atto di appello ma è altrettanto indubbia la carenza e/o illogicità della motivazione della sentenza impugnata.
Ne consegue dunque l’erroneità della pronuncia di inammissibilità dell’appello relativamente alla mancata applicazione, così come richiesto dall’imputata, dell’aumento per la continuazione ai sensi dell’art. 81 cod. pen. in luogo della pena piena comminata nella sentenza n. 464/2006 impugnata con l’atto di appello dichiarato erroneamente inammissibile.
Il ricorso, proposto successivamente al 30.6.2024, è stato trattato – ai sensi dell’art. 611 come modificato dall’art. 35 del d.lgs. del 30.12.2022 n. 150 senza l’intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto:
il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è inammissibile.
1.1.E’ pur vero che la sentenza della Corte di Appello impugnata fa erroneamente riferimento alla data del commesso reato, “15.6.2004”, come riportata, sbagliata, nel capo di imputazione originario, senza, cioè, tener conto del fatto che tale data era stata corretta dal giudice dell’esecuzione del Tribunale di Udine – che con provvedimento del 12.6.2008 aveva disposto correggersi l’errore materiale presente nell’imputazione sostituendo la data “15.6.2004” con la data corretta “14.6.2003” che era quella indicata nell’atto di appello all’epoca proposto nell’interesse dell’imputata -, e che di tale errore avrebbe potuto e dovuto accorgersi la Corte territoriale, ma è altrettanto vero che l’esatta individuazione della data del commesso reato oggetto del presente procedimento non sarebbe stata di per sé sufficiente a superare le incertezze che hanno
contraddistinto l’atto di appello, segnatamente il motivo n. 6, a cui si fa espresso riferimento il ricorrente, avente ad oggetto la richiesta di continuazione cd. esterna del cui mancato accoglimento si duole il ricorso in scrutinio.
Tale motivo n. 6 non è affatto chiaro nell’indicare la sentenza passata in giudicato cui riferire la continuazione esterna, limitandosi esso a chiedere, nei seguenti termini testuali, “l’applicazione della continuazione sulla sentenza del Tribunale di Udine n. 295/2006 resa in data 26.3.2006, con condanna ad anni tre e mesi sei, per la quale la Corte di Trieste ha ritenuto di non applicare la normativa della rimessione nei termini e oggetto di un eventuale ricorso per cassazione, in relazione alla stretta contiguità temporale (14 giugno 2003 per il fatto di cui all’impugnazione e la data del 3 luglio 2003 per il fatto di cui all sentenza in giudicato allegata)”, laddove al marzo del 2006 risale la emissione della sentenza di primo grado impugnata nel presente procedimento con l’appello di cui si discute, che aveva condannato l’imputata alla pena di anni tre di reclusione ed euro 400 di multa.
D’altra parte, lo stesso ricorso in esame ammette le imprecisioni in cui è incorso l’atto di appello nell’indicare la sentenza in parola, ma ritiene che i suoi estremi esatti sarebbero stati evincibili dal contenuto del provvedimento di rigetto dell’istanza di rimessione in termini emesso dalla Corte di appello di Trieste il 30.11.2020, allegato all’appello – in luogo della sentenza medesima.
Tuttora il ricorrente rimanda sempre e solo al provvedimento di remissione in termini che tuttavia contiene a sua volta un errore circa l’esatta individuazione della sentenza in parola che viene indicata nel corpo della motivazione come quella n. 295/2006 emessa il 26 Marzo 2006 dal Tribunale di Udine e in dispositivo come quella n. 295/2009 emessa dal Tribunale di Udine il 26 marzo 2009; né potrebbe ovviamente assumere rilievo, ora per allora, il fatto che la pronuncia in argomento risulti allegata al ricorso per cassazione in scrutinio.
A ciò si aggiunga che il ricorso è anche assolutamente privo di riferimenti specifici ai fatti oggetto della sentenza passata in giudicato che in alcun modo erano evincibili dal provvedimento di rigetto della rímessione in termini che ha avuto ad oggetto le fasi del processo e le varie questioni processuali sollevate dall’istante e non i fatti-reato che erano fuori dal fuoco della decisione.
Sicché in definitiva non può ritenersi devoluto al giudice dell’appello il tema della continuazione in mancanza degli estremi minimi essenziali – il reato già giudicato rispetto al quale si invoca il riconoscimento della continuazione cd. esterna – necessari per una compiuta valutazione della richiesta di applicazione dell’istituto della continuazione di cui all’art. 81 cod. pen.
1.2.Devono al riguardo operarsi delle precisazioni.
Innanzitutto, è pur vero che il giudice d’appello – come ha avuto modo di affermare anche questa Corte a Sezioni Unite, cfr. Sez. U, Sentenza n. 1 del 19/01/2000, Rv. 216238 – 01; Sez. 2, n. 990 del 13/12/2019, dep. 13/01/2020, Rv. 278678 – 01 – investito della richiesta di applicazione della continuazione con reato separatamente giudicato, non può esimersi dal compito di esaminare tale richiesta riservandone la soluzione al giudice dell’esecuzione, ma è altrettanto vero che il motivo di appello che abbia introdotto il tema della continuazione come indicano le stesse pronunce testé indicate – deve essere specifico, deve cioè pur sempre rispondere ai parametri che il sistema processuale impugnatorio richiede.
Con tale dictum deve, altresì, coordinarsi il principio affermato anche di recente da questa Corte (Sez. 2, n. 7132 del 11/01/2024, Rv. 285991 – 01) che il Collegio condivide per l’ampiezza dei validi argomenti in diritto su cui si poggia – secondo cui in tema di giudizio di appello, la richiesta di applicazione della continuazione in relazione a reato giudicato con sentenza di condanna divenuta irrevocabile dopo la scadenza del termine per impugnare è ammissibile solo se avanzata con i motivi nuovi ex art. 585, comma 4, cod. proc. pen. e per quanto qui rileva – sempre che sia accompagnata dall’allegazione, precisa e completa, delle sentenze definitive rilevanti ai fini del decidere (in motivazione, questa Corte ha evidenziato la natura eccezionale dell’istituto rispetto alla struttura del giudizio di appello e l’assenza di qualsiasi pregiudizio per l’imputato, che può sempre vedersi riconoscere la continuazione in sede esecutiva, ex art. 671 cod, proc. pen.).
Dall’impostazione seguita nella pronuncia suindicata, si desume che l’obbligo di pronuncia sulla richiesta di applicazione della cd. continuazione esterna da parte del giudice di appello – investitone tempestivamente (nel caso di specie con l’atto di appello trattandosi di sentenza passata in giudicato dopo la pronuncia di primo grado) – obbligo che si pone al di fuori dello standard tipico cognitivo del giudice dì appello – vada commisurato ai tratti del motivo di appello che ha introdotto il tema della continuazione. Nel senso che se il motivo dì appello è aspecifico, non indicando – come nel caso di specie – neppure le ragioni per le quali dovrebbe ravvisarsi la continuazione tra i reati, né, tanto meno, i dati fattuali del reato rispetto al quale porsi in continuazione quello sub iudice, non altrimenti evincibili, o è addirittura non chiaro – sempre come nel caso di specie – nell’indicare la sentenza passata in giudicato rispetto alla quale si invoca la continuazione, non potrà che giungersi ad un giudizio in termini di inammissibilità dello stesso per insussistenza dei parametri minimi necessari per operare la valutazione che la continuazione sottende.
Nel caso dì specie la difesa non solo non indicava in maniera corretta la sentenza definitiva rispetto alla quale si invocava la continuazione e si limitava a fare riferimento ad essa attraverso il provvedimento di rigetto di istanza di restituzione in termini, che a sua volta conteneva un errore nell’indicare la sentenza irrevocabile, e che, ovviamente, tenuto conto dell’oggetto trattato, non faceva alcuna menzione al fatto di reato giudicato, ma neppure argomentava alcunché in ordine alla sussistenza della medesimezza del disegno criminoso, oltre al mero riferimento alla contiguità temporale dei fatti-reato.
Sicché il giudice di appello, non avendo avuto, in buona sostanza, a disposizione elementi idonei per la applicazione dell’istituto della continuazione, essendo necessario ai fini della delibazione al riguardo conoscere oltre che le date di consumazione dei fatti, quanto meno, anche i luoghi e le modalità di perpetrazione degli stessi in modo da potere effettivamente ritenere i distinti reati avvinti da un’unica deliberazione criminosa, correttamente è giunto alla conclusione dell’inammissibilità dell’appello anche in relazione al motivo sulla continuazione esterna; non avendo avuto, in altri termini, la possibilità di valutare l’analogia delle condotte commesse, tale da potere giustificare una valutazione di unicità del disegno criminoso, la Corte di appello ha dovuto prendere atto della inammissibilità dell’appello – anche – sul punto.
Il ricorso in scrutinio che non considera tale fondamentale aspetto, limitandosi ad evidenziare e dolersi della mancata rilevazione da parte della Corte di appello degli errori nonostante la loro evidenza, è, evidentemente, esso, a sua volta inammissibile.
Né potrebbe condurre ad un diverso epilogo il principio affermato da questa Corte nella pronuncia Sez. 3, n. 30272 del 08/06/2021, Rv, 282475 – 01, secondo cui il giudice di appello, investito della richiesta di applicazione della continuazione con fatti già coperti da giudicato, non può sottrarsi alla decisione o demandarla al giudice dell’esecuzione a fronte dell’omessa produzione dei provvedimenti da cui desumere l’esistenza dell’unicità del disegno criminoso, incombendo sulla parte richiedente un mero onere di allegazione, osservato il quale, ove la richiesta sia stata proposta tempestivamente, è necessario provvedere, anche mediante l’acquisizione d’ufficio degli atti indicati, dal momento che come si precisa in tale stessa pronuncia – che quanto all’onere di allegazione va in senso opposto rispetto a quella suindicata e qui condivisa affinché il giudice di appello si attivi a fronte della mer allegazione/prospettazione della parte occorre comunque che tale allegazione sia specifica, laddove nel caso di specie, come sopra detto, non risultava affatto
chiaro quale dovesse essere la sentenza passata in giudicato da tenere in considerazione ai fini della invocata continuazione esterna.
Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 13/11/2024.