Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 22958 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 22958 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 10/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME (ALIAS SECK BAYE) nato il 03/02/2000
avverso la sentenza del 17/12/2024 della CORTE APPELLO di TORINO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
Motivi della decisione
NOME COGNOME alias NOME COGNOME ricorre, a mezzo del proprio difensore, avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di Appello di Torino ha confermato la pronuncia del Tribunale locale dell’8 aprile 2024 in ordine al reato di cui all’art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/1990.
Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione del vincolo della continuazione ex art. 81 cod. pen. tra il reato in contestazione e i fatti accertati dal medesimo tribunale con sentenza passata in giudicato il 26 maggio 2021, nonché violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla eccessività della pena e alla mancata esclusione della recidiva contestata.
Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, in quanto proposto con motivi non deducibili in questa sede di legittimità. Gli stessi, in particolare, lungi d confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato, si limitano a reiterare profili di censura già adeguatamente e correttamente vagliati e disattesi dalla Corte di appello.
2.1. Quanto al primo motivo, i giudici del gravame del merito, con motivazione logica e congrua, hanno dichiarato infondata la richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione sull’assunto che la circostanza che l’attività di spaccio di sostanze stupefacenti costituisca la fonte di sostentamento dell’imputato non è un dato di per sé solo sufficiente a dimostrare che i reati a tal fine commessi siano espressione di un unico disegno criminoso (cfr. pagina 5 della sentenza impugnata), il quale deve essere positivamente e rigorosamente provato, non giovando a tal fine la mera omogeneità dei due reati.
Ciò sul fondato rilievo che l’esistenza di un siffatto disegno è di per sé esclusa dal lungo lasso di tempo trascorso tra l’uno e l’altro reato, che infatti sono distanziati nel tempo da circa otto mesi, nel corso dei quali, oltre a subire un periodo di custodia cautelare in carcere, non risulta che l’imputato abbia commesso altri reati della stessa o diversa indole.
La Corte territoriale ha, pertanto, ritenuto che nel caso in esame non vi fosse alcun concreto elemento dal quale si potesse desumere l’esistenza di una preventiva e unitaria deliberazione dei due reati commessi quantomeno nei loro rispettivi tratti essenziali, dovendosi richiamare al riguardo l’insegnamento di legittimità alla stregua del quale la mera inclinazione a reiterare violazioni della
stessa specie, anche se dovuta ad una determinata scelta di vita, o ad un programma generico di attività delittuosa da sviluppare nel tempo secondo contingenti opportunità, non integra di per sé l’unitaria e anticipata ideazione di più condotte costituenti illecito penale, già insieme presenti nella mente del ro, che caratterizza l’istituto disciplinato dall’art. 81, secondo comma, cod. pen. (Sez. 1, n. 39222 del 26/02/2014, Rv. 260896-01; Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2026, Rv. 266625-01). In altre parole, la scelta di trarre dall’attività di spaccio la fonte de proprio sostentamento, nel delineare un possibile movente dell’agire criminoso, non costituisce ex se una dimostrazione della medesimezza della determinazione delittuosa, ma rappresenta soltanto un indizio- giusta la rilevanza assegnata ex lege- che deve essere, nondimeno, calato nel quadro degli altri elementi del caso di specie per apprezzarne la significanza ai fini della prova dell’identità del disegno criminoso.
2.2. Quanto al secondo motivo, lo stesso afferisce al trattamento punitivo benché sorretto da sufficiente e non illogica motivazione e da adeguato esame delle deduzioni difensive.
Va ricordato l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui il giudice ha il compito di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito s sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247838).
In linea con tale principio, questa Corte ha altresì affermato che: in tema di recidiva facoltativa ritualmente contestata, il giudice è tenuto a verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, escludendo l’aumento di pena, con adeguata motivazione sul punto, ove non ritenga che dal nuovo delitto possa desumersi una maggiore capacità delinquenziale (Sez. F, n. 35526 del 19/08/2013, De Silvio, Rv. 256713); ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale elemento sintomatico di un’accentuata pericolosità sociale del prevenuto, e non come fattore meramente descrittivo dell’esistenza di precedenti penali per delitto a carico dell’imputato, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull’arco temporale in cui questi risultano consumati, essendo egli tenuto ad esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen.,
il rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se ed in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato sub iudice (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 270419).
Tanto premesso sui principi giurisprudenziali operanti in materia, la Corte di merito, con motivazione non manifestamente illogica, ha motivatamente ritenuto di confermare l’applicazione della recidiva, avendo l’imputato riportato precedenti specifici, dimostrando una spiccata abitualità nel compimento di reati connotati da un evidente fine di lucro, atteso che lo stesso risultava privo di una lecita e documentata attività lavorativa e, rimasto ristretto in regime di custodia cautelare per il medesimo titolo di reato in contestazione, era già nuovamente attivo sul mercato dello spaccio di stupefacenti nemmeno sette mesi dopo la scarcerazione avvenuta il 22 maggio 2020.
Ne ha desunto, perciò, che i fatti oggetto di processo costituiscono espressione di ingravescenza della pericolosità sociale dell’imputata e di accentuata rimproverabilità della condotta, dal momento che, pur avendo riportato condanne e scontato periodi di espiazione pena per fatti della medesima indole, il ricorrente ha nuovamente violato la legge penale, dedicandosi in modo sistematico allo spaccio di sostanze stupefacenti e psicotrope.
I giudici del gravame del merito hanno, dunque, operato una concreta verifica in ordine alla sussistenza degli elementi indicativi di una maggiore capacità a delinquere del reo, di talché la sentenza impugnata non presenta i denunciati profili di censura.
Con riferimento, infine, alla dedotta eccessività della pena base, occorre ricordare che una specifica e dettagliata motivazione in merito ai criteri seguiti dal giudice nella determinazione della pena si richiede solo nel caso in cui la sanzione sia quantificata in misura prossima al massimo edittale o comunque superiore alla media, risultando insindacabile, in quanto riservata al giudice di merito, la scelta implicitamente basata sui criteri di cui all’art. 133 cod. pen. di irrogare – come disposto nel caso di specie – una pena in misura media o prossima al minimo edittale (così, tra le altre: Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 27124301; Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, COGNOME, Rv. 258356- 01; Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, COGNOME, Rv. 256464-01; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, COGNOME, Rv. 256197-01).
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al
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R.G.
pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della san- zione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle am-
mende.
Così deciso in Roma il 10/06/2025
r DEPOSITATA