Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 26149 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 26149 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 23/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto dal nel procedimento a carico di
Procuratore generale presso la Corte d’appello di Catania COGNOME NOME nata a Modica il DATA_NASCITA; avverso la sentenza del 10 maggio 2023 del Tribunale di Sirac:usa; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; udito il AVV_NOTAIO Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore, AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso o, in subordine, per il suo rigetto.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME è stata tratta a giudizio per rispondere del reato di furto aggravato (ai sensi dell’art. 625 nn. 2 e 7 cod. pen.) di energia elettrica.
Aperto il dibattimento, ammesse le prove richieste dalle parti, il processo veniva rinviato, per l’assenza dei testi del pubblico ministero, all’udienza del 21 dicembre 2022, nella quale veniva escusso NOME COGNOME, verificatore e, all’esito, acquisito il verbale di verifica.
Alla successiva udienza del 10 maggio 2023, il Tribunale ha dato atto della sopravvenuta modifica del regime di procedibilità (in conseguenza delle modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022) e dell’attuale mancanza di querela.
In quella sede, il AVV_NOTAIO Ministero di udienza procedeva ad effettuare la contestazione suppletiva della circostanza aggravante di cui all’art. 625 n. 7 cod. pen., idonea a rendere quel reato procedibile di ufficio, ma il Tribunale, ritenendo che la stessa fosse stata effettuata dopo il maturare della causa di improcedibilità (verificatasi il 30 marzo 2023, quando era scaduto, senza iniziative della persona offesa, il termine di tre mesi assegnato dal legislatore alla persona offesa che aveva visto mutare il regime di procedibilità), dichiarava non doversi procedere per difetto di querela.
Osservava il Tribunale che l’accertata mancanza della necessaria condizione di procedibilità precludeva lo svolgimento di qualsiasi attività processuale e imponeva al giudice di dichiararla, immediatamente e preliminarmente, in termini analoghi al verificarsi di una condizione di estinzione del reato, categoria che lo stesso art. 129 cod. proc. pen. equipara ai fini della medesima pronuncia di non doversi procedere.
Propone ricorso per cassazione il AVV_NOTAIO Ministero, per saltum, articolando un unico motivo d’impugnazione a mezzo del quale si deduce violazione di legge, nella parte in cui il Tribunale, ritenendo che, in presenza delle condizioni per una declaratoria da pronunciarsi ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., alcuna ulteriore attività potesse essere svolta, ha di fatto precluso al AVV_NOTAIO Ministero di contestare la circostanza aggravante del fatto commesso su cosa destinata a pubblico servizio (art. 625, comma 1, n. 7, cod. pen.), impedendo un accertamento sulla reale procedibilità (d’ufficio) del reato e, quindi, sulla real esistenza dei presupposti per operare una pronuncia ai sensi dell’art. 529 del codice di procedura penale.
Con memoria del 2 maggio 2024, l’AVV_NOTAIO, nell’interesse della ricorrente, ha depositato una memoria difensiva con la quale chiede rilevarsi l’inammissibilità del ricorso (limitatosi alla mera enunciazione di astratti princi giuridici) o, comunque, la sua infondatezza (stante la tardività della contestazione).
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato, in quanto è stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per mancanza di querela con riferimento ad una fattispecie di reato da ritenersi, invece, procedibile d’ufficio in quanto, alla luce della lettera formulazione del capo di imputazione, aggravato dell’essere stato, il bene sottratto, destinato a pubblico servizio.
La questione è quella della possibilità o meno di una “contestazione in fatto” dell’aggravante di cui al n. 7, ultima parte, dell’art. 625 cod. pen., e, quindi, del natura (valutativa o meno) di tale aggravante; una questione già rimessa alle Sezioni Unite, ma con la quale occorrerà confrontarsi, rivalutandola (nel rispetto del provvedimento di restituzione, reso ai sensi dell’art. 172 clisp. att. cod. proc. pen.) alla luce dei principi affermati da questa Corte con la sentenza Sorge (Sez. U., n. 24906 del 18/04/2019).
Va premesso che per «contestazione in fatto» deve intendersi una formulazione dell’imputazione che non sia espressa nell’enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell’indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all’imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi (Sez. U. n. 24906, cit.).
Una esigenza, quella di un’informazione dettagliata, chiara e precisa, che trova il suo riferimento non solo dalle plurime norme codicistiche che descrivono la modalità con la quale deve essere effettuata la contestazione, ma anche e soprattutto nei principi convenzionali (art. 6, par. 3, lett. a, C:EDU) in materia d diritti fondamentali, qual è, per l’appunto, quello inerente alla difesa dell’imputato nel processo.
Indicata l’esigenza da assolvere, l’idoneità della formulazione letterale del capo d’imputazione a soddisfare tale interesse, non può essere valutata in astratto, ma deve tener conto delle “particolari connotazioni” con le quali l’aggravante è stata costruita nelle norme che la prevedono; in funzione di queste particolari connotazioni va individuato, di volta in volta, il “livello di precisione e determinatezza che rende l’indicazione di tali elementi, nell’imputazione contestata, sufficiente a garantire la puntuale comprensione del contenuto dell’accusa da parte dell’imputato”.
Cosicché, se la fattispecie integratrice della circostanza aggravante è, per così dire “autoevidente”, in quanto si struttura in semplici comportamenti descritti nella loro materialità (attraverso l’indicazione di mezzi o oggetti determinati nelle loro
caratteristiche oggettive) “l’indicazione di tali fatti materiali è idonea a riportare nell’imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutiv rendendo possibile l’adeguato esercizio dei diritti di difesa dell’imputato”.
Ove, invece, la previsione normativa include (anche) componenti valutative, la necessità dell’enunciazione in forma chiara e precisa del contenuto dell’imputazione impone che i risultati di questa valutazione (operata dal pubblico ministero con la formulazione del capo d’imputazione) debbano essere esplicitati, attraverso la loro chiara indicazione nella formulazione dell’imputazione.
Ritiene il Collegio, tuttavia, che l’esplicitazione di tali risultati non necess di forme determinate, necessariamente ripetitive della formulazione normativa: ciò che rileva è che la componente valutativa che caratterizza la fattispecie aggravata sia portata a conoscenza dell’imputato; risultato che ben può essere raggiunto utilizzando perifrasi o “espressioni evocative” che, descrivendo il dato fattuale sul quale si struttura la fattispecie aggravata, appaiono idonee a prendere il posto della contestazione formale (quella cioè effettuata mediante l’indicazione dell’articolo di legge o del comma in cui è menzionata l’aggravante).
Di tanto dà atto esplicitamente anche lo stesso principio, per come enunciato nella sua formulazione letterale dalla Sezioni unite nella più volte richiamata sentenza “Sorge”, nella parte in cui riconosce, anche per le aggravanti con contenuto valutativo, come quella di cui all’art. 476 comma 2, cod. pen., la possibilità dell’utilizzo di “formule equivalenti” che, per la loro capacità evocativ siano idonee a sostituire la formale contestazione del dato normativo.
Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene che la circostanza aggravante dell’essere il bene, oggetto di furto, destinato a pubblico servizio contenga elementi valutativi; e ciò in quanto richiede un apprezzamento, da parte dell’interprete, in ordine alla dimensione pubblica e collettiva dell’interesse eventualmente attinto nel caso concreto.
Ciò che rileva, invero, non è l’astratta idoneità del bene-energia a soddisfare un interesse collettivo (dato pacifico del quale ne sono chiara testimonianza i plurimi interventi normativi, primari e secondari, volti a disciplinare la produzione e la distribuzione di tale bene con regolamentazione derogatoria, assoggettando il gestore al dovere di imparzialità e ai poteri di ingerenza e intervento della pubblica amministrazione), ma la sua concreta destinazione; destinazione che non può ritenersi connotazione ontologica dell’energia (all’evidenza insussistente in tutte le ipotesi nelle quali questa, ad esempio, è stata autoprodotta), ma il frutto di un’attività ulteriore, attraverso la quale, al bene (astrattamente suscettibile d soddisfare un interesse collettivo), viene impressa concretamente tale destinazione. E ciò a prescindere (in un’ottica di progressiva privatizzazione dell’agire pubblico e permanendo, comunque, in capo all’amministrazione di poteri
di ingerenza e di intervento) dalla natura, pubblica o privata, del soggetto erogatore del servizio o del relativo regime economico.
Ricostruiti in questi termini i caratteri dell’aggravante in esame e se, quindi, ciò che rileva è l’apprezzamento della concreta destinazione del bene al soddisfacimento di un interesse collettivo, la necessità dell’enunciazione in forma chiara e precisa del contenuto dell’imputazione, prevista dalla legge processuale, impone solo di dar conto di quel dato dal quale poter chiaramente evincere la concreta destinazione del bene, rendendo manifesto all’imputato che dovrà difendersi dalla accusa di avere sottratto un bene posto al servizio di un interesse della intera collettività e diretto a vantaggio della stessa. E, in concreto, tale scop appare raggiunto quando nel capo di imputazione si faccia menzione di una condotta di furto di energia posta in essere mediante allaccio diretto alla rete di distribuzione dell’ente gestore, in quanto immediatamente evocativo di un servizio (la rete di distribuzione), destinato a raggiungere le utenze terminali di un numero indeterminato di persone, per soddisfare la loro esigenza (di rilevanza “pubblica”) di disporre del bene energia.
Da ciò la violazione dell’art. 129 cod. proc. pen., avendo I giudice dichiarato non doversi procedere per difetto di querela in relazione ad una fattispecie di reato che, alla luce della letterale formulazione del capo d’imputazione, doveva ritenersi procedibile d’ufficio.
3. Ma la violazione dell’art. 129 cod. proc. pen. sussiste anche a voler ritenere la formulazione del capo d’imputazione inidonea ad assicurare una piena ed effettiva informazione in ordine al dato fattuale costitutivo della fattispeci aggravata, in quanto la declaratoria d’improcedibilità sarebbe stata comunque preclusa dalla legittima contestazione effettuata dal AVV_NOTAIO Ministero alla prima udienza utile successiva alla modifica normativa; contestazione che il Tribunale ha ritenuto priva di rilevanza, sull’erroneo presupposto per cui l’accertata mancanza della necessaria condizione di procedibilità impedisce lo svolgimento di qualsiasi attività processuale imponendo al giudice di dichiararla immediatamente e preliminarmente.
La questione attiene al rapporto esistente tra l’art. 129 cod. proc. pen. (che impone l’immediata declaratoria delle cause di non punibilità) e il potere/dovere, riconosciuto, dall’art. 517 cod. proc. pen., al pubblico ministero, di contestare le circostanze aggravanti in termini corrispondenti a quanto emerge dal fascicolo; un rapporto che, nell’ipotesi in cui oggetto della contestazione sia una circostanza aggravante capace di incidere su alcuni caratteri del reato rilevanti ai fini della punibilità, impone di perimetrare le attribuzioni del giudice e delineare le parallele facoltà delle parti.
Va premesso, sotto tale profilo che l’art. 129 cod. proc. pen. non attribuisce al giudice un potere ulteriore ed autonomo, ma descrive solo una regola di giudizio, che, pur imponendo l’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità (cristallizzando la cognizione del giudice “allo stato degli atti), comunque calata nel contesto procedimentale proprio del grado e della fase all’interno della quale la pronuncia deve essere resa (artt. 425, 469, 529, 530 e 531 cod. proc. pen.).
Ebbene, tale pronuncia, incidendo negativamente sulla partecipazione al procedimento del pubblico ministero (al quale viene precluso l’esercizio delle facoltà tese eventualmente a meglio definire e suffragare l’accusa) e dell’imputato (al quale viene interdetto l’esercizio di facoltà esperibili solo nell’ambito della fa o del grado in essere), deve avvenire nel contraddittorio di tutte le parti processuali, affinché ciascuna di esse possa liberamente esercitare le proprie prerogative: dell’imputato, che può chiedere una valutazione nel merito della propria posizione o la definizione della sua posizione con riti alternativi, può presentare memorie e produrre documenti, può richiedere un incidente probatorio o sollecitare una sia pure limitata integrazione probatoria su temi nuovi o incompleti al fine di meglio precisare il thema decidendum; della persona offesa, che può dichiarare di costituirsi parte civile, rappresentando la propria valutazione della vicenda per fare valere le sue legittime aspettative; del pubblico ministero, che può, per l’appunto, modificare l’imputazione (Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, COGNOME, Rv. 230531).
In questi termini, quindi, l’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità limita, sì, la cognizione del giudice (precludendo l’esercizio di poter istruttori relativi al thema decidendum), ma non incide, in linea di principio, sulle determinazioni assunte dalle parti all’esito del contraddittorio introdotto da giudice e, quindi, non preclude quelle attività processuali, conseguenti all’esercizio delle predette facoltà, ove non dirette ad indagare sul fatto contestato.
All’interno di questo perimetro, deve, tuttavia, darsi conto dei principi affermati in altra pronuncia di questa Corte, a Sezioni Unite (Sez. U. n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, Rv. 285517), che, pur nel dichiarato intento di dare continuità ai principi espressi nella sentenza da ultimo richiamata (Sez. U, n. 12283, COGNOME), nel valutare se, “ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale rilevi anche se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato”, ha ribaltato il rapporto fra la contestazione (suppletiva) e la causa di estinzione (la prescrizione),
precedentemente perfezionatasi; nel senso che questa, per quanto dotata di forza giuridica per effetto della sentenza conclusiva della fase o del grado, la acquisisce “ora per allora” con riferimento al momento non della sua dichiarazione formale ma a quello della sua maturazione, precludendo ogni attività processuale eventualmente svolta in momento successivo al suo perfezionarsi.
La ratio di tale soluzione appare riconducibile all’apprezzamento, del tutto condivisibile, dei principi costituzionali sottesi alla prevalenza della causa di non punibilità e alla “immediatezza” con la quale deve essere dichiarata: il principio, cioè, della ragionevole durata del processo.
Ebbene, il Collegio ritiene che le ragioni che hanno condivisibilmente condotto, per la prescrizione, a precludere, per il periodo successivo al suo maturarsi, ogni attività, anche meramente processuale, non possono essere esportate al caso processuale in esame.
In primo luogo, perché una declaratoria d’improcedibilità “ora per allora” non potrebbe trovare le medesime giustificazioni fondanti la soluzione adottata per la prescrizione: non la ragionevole durata del processo, in quanto la procedibilità non attiene, come la prescrizione, all’attualità della pretesa punitiva, ma alla sola prosecuzione di un processo, correttamente introdotto e talvolta integralmente istruito; ma, a ben vedere, neppure la presunzione di innocenza, che non si traduce in un presunto diritto dell’imputato al proscioglimento anticipato, ma solo in una garanzia processuale che si ripercuote sulla distribuzione dell’onere della prova, sull’utilizzabilità di presunzioni legali, sul principio di non au incriminazione, sulla pubblicità e su eventuali dichiarazioni premature circa la colpevolezza di un imputato (Corte EDU Allen c. Regno Unito, n. 25424/09, 12 luglio 2013).
In secondo luogo, perché l’operatività “ora per allora” di una (sopravvenuta) mancanza della condizione di procedibilità, presenterebbe evidenti segni di frizione con i principi della parità di trattamento tra le parti e dell’obbligatorietà dell’azio penale.
Sotto il primo profilo, perché preclude al pubblico ministero l’esercizio di una facoltà (riportare il processo sui binari della procedibilità) espressamente riconosciuta alla persona offesa (artt. 2 e 85 del d. Igs. n. 150 del 2022). E ciò anche quanto, come nel caso in esame, sia mancato un segmento processuale utile (per assenza di attività processuale da un momento antecedente alla entrata in vigore della riforma Cartabia – 30 dicembre 2022 – ad un momento successivo a quello di maturazione effettiva della nuova causa di improcedibilità – 30 marzo 2023) ove il pubblico ministero abbia potuto consapevolmente assumere l’iniziativa necessaria per adeguare il processo alle nuove regole. E che il mutamento del regime di procedibilità incida sui diritti e le facoltà riconosciute alle
parti, è chiaramente desumibile da una lunga serie di interventi della Corte Costituzionale (nn. 265 del 1994, 333 del 2009; 184 del 2014, 139 del 2015; 41 del 2018 e 146 del 2022), nella riconosciuta necessità, a fronte di contestazione “tardiva” di circostanze aggravanti “idonee a determinare un significativo mutamento del quadro processuale anche riguardo al regime di procedibilità del reato”, di restituire in termini l’imputato ai fini del concreto esercizio delle facoltà.
Sotto il secondo profilo, perché l’esercizio del potere di contestazione suppletiva dell’aggravante è diretta manifestazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che non prevede decadenze o limitazioni, neppure nel caso in cui l’elemento di fatto aggravatore fosse emerso già prima dell’esercizio della azione penale; un potere che oggi – dopo la riforma Cartabia – trova la sua collocazione tipica anche nei casi di citazione diretta a giudizio, in una apposita udienza (predibattimentale: art. 554-bis cod. proc. pen.) dove operare, anche su sollecitazione del giudice, le necessarie modifiche all’imputazione. Ebbene, la prospettata operatività “ora per allora” anche della causa d’improcedibilità farebbe dipendere la prosecuzione di un giudizio, correttamente introdotto, potenzialmente già istruito, alla tempistica con la quale il pubblico ministero – in base ad una scelta non libera, ma condizionata dai rinvii processuali – reagisce (rectius: ha la possibilità di reagire), nelle sue scelte processuali, al mutamento delle regole processuali “in corso” di giudizio (non essendo revocabile in dubbio che la contestazione suppletiva della aggravante, effettuata entro il 29 marzo 2023, sarebbe produttiva di effetti).
Da tutto quanto osservato, discende, quindi, che, a fronte del mutato regime di procedibilità, deve essere riconosciuta piena efficacia giuridica e operativa alla contestazione suppletiva effettuata dal pubblico ministero di udienza, non potendosi applicare, in questo caso, lo stesso regime di operatività adottato con riferimento alla dichiarazione di una causa di estinzione del reato.
E che le diverse situazioni processuali evocate nell’art. 129 cod. proc. pen. non sempre ricevano un trattamento omogeneo è dato che trova ampio riscontro nel diritto positivo: non nell’applicazione della regola della prevalenza del proscioglimento nel merito, quando evidente, alla quale la condizione di procedibilità non è soggetta (art. 129, comma 2, cod. proc. pen.); non nella valutazione dell’incidenza sul giudicato sostanziale, prevalendo solo la remissione di querela e non le cause di estinzione del reato, che recedono (Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, COGNOME, Rv. 227681); non nel rapporto con il divieto del ne bis in idem, potendo dar luogo, la sentenza che dichiara non doversi procedere per mancanza di querela, solo ad un giudicato instabile, che non impedisce il nuovo esercizio dell’azione penale (art. 345 cod. proc. pen.).
Tutto ciò premesso, e dovendosi dare atto che la ragione dell’accoglimento del ricorso del AVV_NOTAIO Ministero, come detto, è, nel caso concreto, quella della ritenuta attitudine dell’originaria contestazione di reato a renderlo procedibile di ufficio, la sentenza impugnata deve essere annullata e il rinvio va disposto, ai sensi dell’art. 569 comma 4 cod. proc. pen., alla Corte di appello di Catania per il relativo giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Catania.
Così deciso il 23 maggio 2024
Il Co • lierè estensore
Presidente