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Consumo di gruppo: quando non è reato per la Cassazione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13290/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per detenzione di stupefacenti. La Corte ha ribadito che per configurare il ‘consumo di gruppo’, e quindi escludere il reato, è necessario dimostrare rigorosamente che l’acquisto sia stato effettuato fin dall’inizio per conto di un gruppo di persone ben identificate, cosa non avvenuta nel caso di specie. L’appello è stato giudicato generico e non critico verso la sentenza impugnata, portando alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese e di una sanzione pecuniaria.

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Pubblicato il 10 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Consumo di gruppo: La Cassazione traccia la linea tra illecito e reato

L’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti rappresentano un’area del diritto penale complessa e delicata. Una delle questioni più dibattute è la distinzione tra la detenzione a fini di spaccio, penalmente rilevante, e quella destinata all’uso personale. In questo contesto si inserisce la figura del consumo di gruppo, una situazione che, a determinate condizioni, può escludere il reato e configurare un mero illecito amministrativo. Con la recente ordinanza n. 13290 del 2024, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su questo tema, ribadendo i rigorosi presupposti necessari per invocare tale scriminante.

I Fatti di Causa

Il caso analizzato dalla Suprema Corte nasce dal ricorso presentato da un soggetto contro la sentenza della Corte d’Appello che lo aveva condannato per reati legati agli stupefacenti. La difesa del ricorrente sosteneva che la detenzione della sostanza non fosse finalizzata allo spaccio, ma rientrasse nell’ipotesi del consumo di gruppo, chiedendo quindi l’annullamento della condanna. Secondo la tesi difensiva, l’acquisto era stato effettuato per conto proprio e di altri consumatori, configurando così un’ipotesi non penalmente rilevante.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. I giudici hanno ritenuto che l’appello fosse di contenuto puramente ‘valutativo’, ovvero si limitasse a proporre una diversa interpretazione dei fatti senza sollevare specifiche censure di legittimità contro la motivazione della sentenza impugnata. La Corte ha sottolineato come mancasse una necessaria analisi critica delle argomentazioni dei giudici di merito, che avevano logicamente escluso la configurabilità del consumo di gruppo.
Di conseguenza, stante l’inammissibilità del ricorso e l’assenza di una scusabile ignoranza della causa di inammissibilità, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 3.000 euro a favore della Cassa delle ammende, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale.

Le Motivazioni della Decisione sul consumo di gruppo

Il cuore della pronuncia risiede nelle motivazioni con cui la Cassazione ha respinto la tesi del consumo di gruppo. La Corte ha richiamato il consolidato insegnamento delle Sezioni Unite (sentenza n. 25401/2013), che ha fissato i paletti per distinguere il consumo di gruppo (illecito amministrativo ex art. 75 d.P.R. 309/90) dalla detenzione illecita (reato ex art. 73 d.P.R. 309/90). Le condizioni, che devono sussistere congiuntamente, sono:

1. L’acquirente deve essere uno degli assuntori: Chi compra la sostanza deve far parte del gruppo che la consumerà.
2. L’acquisto deve avvenire sin dall’inizio per conto degli altri: Il mandato all’acquisto collettivo deve essere preesistente e non successivo.
3. L’identità dei mandanti deve essere certa e la loro volontà manifesta: È cruciale che i membri del gruppo siano identificati o chiaramente identificabili sin dall’inizio e che abbiano espresso la volontà di procurarsi la sostanza tramite uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente.

Nel caso specifico, la Corte ha rilevato che non era stato provato che il ricorrente detenesse lo stupefacente nell’interesse di ‘più persone riunite’. Mancava la prova fondamentale: l’individuazione, anche a posteriori, dei soggetti interessati a cui sarebbe stata destinata una parte della provvista. Senza questa prova, l’ipotesi del mandato collettivo cade e la detenzione rimane illecita ai sensi della legge penale.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche

L’ordinanza in esame rafforza un principio fondamentale: la configurabilità del consumo di gruppo non può essere presunta ma deve essere rigorosamente provata. Chi invoca questa scriminante ha l’onere di dimostrare che l’acquisto è stato il risultato di un accordo preventivo e congiunto tra un gruppo di consumatori ben definiti. Non è sufficiente affermare genericamente che la droga era per ‘amici’ o per ‘un gruppo’. È necessario fornire elementi concreti che attestino l’esistenza di un mandato collettivo sin dalla fase dell’acquisto. Questa pronuncia serve da monito: i ricorsi in Cassazione devono basarsi su vizi di legittimità specifici e non su una mera rilettura dei fatti, specialmente in materie dove la giurisprudenza ha già tracciato confini netti e precisi.

Quando l’acquisto di droga per un gruppo è considerato un illecito amministrativo e non un reato?
Secondo la Corte, l’acquisto si qualifica come illecito amministrativo solo se rispetta tre condizioni cumulative: a) l’acquirente è anche uno dei consumatori; b) l’acquisto è effettuato fin dall’inizio per conto degli altri membri del gruppo; c) l’identità dei mandanti e la loro volontà di acquistare sono certe sin dall’inizio, con un contributo anche finanziario all’acquisto.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile perché il suo contenuto era ‘valutativo’ e non svolgeva una critica giuridica specifica alle argomentazioni della sentenza precedente. Inoltre, il ricorrente non è riuscito a provare i presupposti del ‘consumo di gruppo’, in particolare l’esistenza di un gruppo predefinito e identificabile di persone per cui la sostanza era stata acquistata.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
In base all’art. 616 del codice di procedura penale, quando un ricorso è dichiarato inammissibile per colpa del ricorrente, quest’ultimo è condannato al pagamento delle spese del procedimento e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, che nel caso di specie è stata fissata in 3.000 euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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