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Consenso utilizzo carta: quando è valido per la Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un individuo condannato per l’uso indebito di una carta di pagamento. L’imputato sosteneva di avere un consenso implicito all’uso, ma la Corte ha stabilito che tale tesi è infondata di fronte alla dichiarazione esplicita della persona offesa di non aver mai dato la carta né il codice di utilizzo a nessuno. La mancanza di un’autorizzazione esplicita rende la difesa del consenso utilizzo carta insostenibile.

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Pubblicato il 5 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Consenso Utilizzo Carta: La Cassazione chiarisce quando è inefficace

L’uso di strumenti di pagamento elettronici è ormai quotidiano, ma cosa succede quando una persona utilizza la carta di un’altra? La questione centrale diventa la prova del consenso utilizzo carta da parte del titolare. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 9527/2024) offre un chiarimento fondamentale: un presunto consenso implicito non ha alcun valore se smentito categoricamente dalla persona offesa.

Questo principio è cruciale per comprendere i limiti della responsabilità penale in casi di utilizzo indebito di carte di credito o debito, sottolineando l’importanza di un’autorizzazione chiara e inequivocabile.

I Fatti del Caso

La vicenda giudiziaria ha origine dalla condanna di un soggetto da parte della Corte d’Appello per l’utilizzo non autorizzato della carta di pagamento di un’altra persona. L’imputato, per difendersi, ha presentato ricorso in Cassazione, basando la sua difesa su un unico motivo: il presunto mancato riconoscimento di un’esimente, ovvero l’esistenza di un consenso, seppur implicito, da parte del titolare della carta.

Secondo la tesi difensiva, l’utilizzo della carta sarebbe avvenuto con l’autorizzazione del proprietario. Tuttavia, questa affermazione si scontrava con le prove emerse durante il processo.

La Decisione della Corte di Cassazione sul Consenso Utilizzo Carta

La Settima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo “generico e manifestamente infondato”. La decisione dei giudici supremi si è basata su un elemento fattuale decisivo: la dichiarazione della persona offesa.

La Corte ha evidenziato come la tesi di un consenso implicito fosse stata “del tutto smentita dal fatto che la persona offesa ha dichiarato specificatamente di non avere dato la carta a nessuno e di non avere tantomeno fornito il codice di utilizzo”. Questa netta presa di posizione del titolare della carta ha reso implausibile qualsiasi ipotesi di autorizzazione.

Di conseguenza, l’imputato è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro alla Cassa delle ammende.

Le Motivazioni della Decisione

Il cuore della motivazione risiede nell’analisi della plausibilità della difesa. La Cassazione ha ritenuto che l’argomentazione difensiva sul consenso utilizzo carta fosse priva di qualsiasi fondamento logico e probatorio. La Corte d’Appello aveva già chiarito nel suo provvedimento (il decisum) le ragioni per cui la tesi del consenso implicito non poteva essere accolta.

La dichiarazione della vittima, che negava non solo di aver prestato la carta ma anche di aver condiviso il PIN, è stata considerata una prova schiacciante. Per i giudici, questo fatto “all’evidenza esclude la possibilità di ritenere plausibilmente di avere un’autorizzazione ad usarla”. In altre parole, senza la condivisione del codice segreto, l’idea stessa di un’autorizzazione, anche implicita, perde ogni credibilità. Il ricorso è stato quindi giudicato superficiale e non meritevole di un esame nel merito.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza ribadisce un principio giuridico e di buonsenso di fondamentale importanza: il permesso di utilizzare uno strumento di pagamento personale e segreto, come una carta con PIN, non può essere presunto o desunto da circostanze ambigue. Deve essere, al contrario, esplicito e provato.

Le implicazioni pratiche sono significative:

1. Onere della prova: Chi utilizza la carta altrui deve essere in grado di dimostrare di aver ricevuto un’autorizzazione esplicita. Non spetta al titolare dimostrare di non averla data.
2. Valore delle dichiarazioni: La dichiarazione chiara e specifica della persona offesa ha un peso determinante nel confutare tesi difensive basate su consensi impliciti o presunti.
3. Irrilevanza del consenso implicito: In materia di strumenti di pagamento, l’idea di un “consenso implicito” è una linea difensiva estremamente debole, destinata a fallire di fronte a prove di segno contrario, come la mancata comunicazione del PIN.

In conclusione, la decisione della Suprema Corte funge da monito: l’utilizzo di carte di pagamento altrui senza un’autorizzazione chiara, diretta e inequivocabile costituisce un illecito, e tentare di giustificarlo con un vago “consenso implicito” è una strategia processuale destinata all’insuccesso.

Il consenso all’utilizzo di una carta di pagamento può essere implicito?
Secondo questa ordinanza, un presunto consenso implicito è completamente smentito e reso inefficace se il titolare della carta dichiara specificamente di non aver mai dato la carta a nessuno e, soprattutto, di non aver fornito il codice di utilizzo (PIN).

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato giudicato inammissibile perché ritenuto generico e manifestamente infondato. La tesi difensiva del ricorrente era in netto contrasto con le prove, in particolare con la dichiarazione della persona offesa, rendendo la sua argomentazione implausibile e non meritevole di un esame nel merito.

Quali sono le conseguenze per il ricorrente a seguito della dichiarazione di inammissibilità?
Il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, a causa della sua colpa nell’aver proposto un ricorso palesemente infondato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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