Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 6583 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 6583 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Roma il 05/08/1965
avverso l’ordinanza del 11/07/2024 del G.i.p. del Tribunale di Catanzaro
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria redatta dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
letta la memoria del difensore, avv. NOME COGNOME del foro di Catanzaro, che insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnata ordinanza, decidendo quale giudice dell’esecuzione all’esito del procedimento camerale instaurato a seguito di opposizione ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen., il G.i.p. del Tribunale di Catanzaro ha respinto la richiesta, avanzata nell’interesse di NOME COGNOME, di revoca della confisca di un impianto di prodotti petroliferi, disposta, ai sensi dell’art. 44 d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, con decreto di archiviazione emesso per prescrizione del reato nei confronti di NOME COGNOME, fratello dell’odierno ricorrente, già indagato per il reato di cui all’art. 40, comma 1, lett. c), dello stesso testo unico.
Avverso l’indicato provvedimento, COGNOME AntonioCOGNOME quale terzo interessato, per il tramite del difensore di fiducia nonché procuratore speciale, propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
2.1. Con un primo motivo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 40, 44 d.lgs. n. 504 del 1995, 240, comma 2, n. 2, e 4, cod. pen., 301 d.P.R. n. 43 del 1973, 666, 667, 191 e 192 cod. proc. pen. Dopo aver ampiamente ricapitolato la vicenda processuale, premette il difensore che l’impianto confiscato è stato realizzato nel 1970 da NOME COGNOME, defunto padre dei germani NOME e NOME COGNOME, su un terreno di sua proprietà; ad avviso del difensore, il bene strumentale realizzato dal privato è quindi stato acquisito a titolo originario alla proprietà del fondo ai sensi dell’art. 934 cod. civ. Ciò posto, secondo la prospettazione difensiva, la confisca, da qualificarsi come sanzione penale, è stata disposta in assenza di accertamento di merito sulla sussistenza oggettiva e soggettiva del reato, a causa del mancato esercizio dell’azione penale; il g.i.p. non avrebbe tenuto adeguatamente conto dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di confisca obbligatoria, violando il diritto della difesa di “difendersi provando” e i principi di legalità e di presunzione di innocenza, sanciti dalla Costituzione e dalla fonti sovranazionali, tanto più che il materiale indiziario posto a fondamento del provvedimento ablativo è stato raccolto unilateralmente dagli inquirenti, senza che l’incolpato abbia avuto la possibilità di esaminare i testimoni a carico e di citare quelli a discarico, né di rinunciare alla prescrizione, in violazione di quanto recentemente affermato sia dalla Corte costituzionale – si indica la sentenza n. 41 del 2024 -, sia dalla Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui la confisca di cui all’art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato determinata dalla prescrizione, purché la sussistenza del fatto sia stata già accertata, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il
pieno contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo , restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio, in applicazione dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., non può proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento (Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870), e considerando, infine, che il g.i.p. ha rigettato tutte le richieste istruttorie che erano state formulate ai sensi dell’art. 666, comma 5, cod. proc. pen.
2.2. Con un secondo motivo, lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 240, comma 2, n. 2, e 4, cod. pen., 301 d.P.R. n. 43 del 1973, 666, comma 5, cod. proc. pen. e 934 cod. civ. La motivazione, secondo il difensore, sarebbe errata e illogica laddove, per un verso, ha escluso la legittimazione attiva del ricorrente, posto che, da un lato, si pone in antitesi logica rispetto al provvedimento genetico di confisca emesso nei confronti dell’indagato NOME COGNOME e, dall’altro, pur ritenendo dimostrata la titolarità in capo al ricorrente del fondo su cui insiste l’impianto, poi assume, in maniera disancorata dai dati investigativi, che il bene, ai sensi dell’art. 952 cod. civ., può astrattamente essere ceduto separatamente dal suolo; per altro verso, nega la sussistenza della buona fede in capo al ricorrente, disattendendo, con motivazione apodittica, e quindi viziata, tutte le richieste probatorie avanzate dalla difesa, le quali, ove fossero state assunte, avrebbero, invece, dimostrato la buona fede del ricorrente.
In ogni caso, il ricorrente chiede, in via preliminare, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 40 e 44 d.lgs. n. 504 del 1995, i combinato disposto con l’art. 301 d.P.R. n. 43 del 1973, nella parte in cui si prevede l’obbligatorietà della confisca di un bene illecito anche in assenza dell’esercizio dell’azione penale, per contrasto con gli artt. 3, 24, 27, 41, 111, 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
In via subordinata, si chiede che sia sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite la questione in merito alla possibilità di disporre la confisca ex artt. 40 e 44 d.lgs. n. 504 del 1995 contestualmente al provvedimento di archiviazione, ovvero
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Va premesso che, con sentenza n. 18294 emessa da questa Terza Sezione il 4 marzo 2020 – la cui analitica e approfondita motivazione è ampiamente riportata nel corpo del provvedimento impugnato -, è stato
dichiarato inammissibile il ricorso proposto da NOME COGNOME allegando di essere proprietario dell’impianto confiscato, avverso il provvedimento emesso il 31 ottobre 2019 dal G.i.p. del Tribunale di Catanzaro, nella veste’ di giudice dell’esecuzione, che aveva rigettato la richiesta di revoca della confisca di un impianto di prodotti petroliferi, sottoposto a sequestro preventivo nell’ambito di un procedimento relativo al reato di cui all’art. 40, comma 1, lett. c), d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504 e confiscato, ex art. 44 dello stesso testo unico, con decreto di archiviazione del procedimento emesso per prescrizione del reato.
Ciò posto, nell’illustrare le sue tesi, il ricorrente non si confronta puntualmente con le rationes decidendi del provvedimento impugnato, con particolare riferimento alla ritenuta carenza di legittimazione a richiedere la restituzione dei beni fatti oggetto di confisca, che, come emerge dal decreto di archiviazione (cfr. p. 1), erano “di proprietà della società dei fratelli COGNOME“, circostanza, del resto, che trova conferma nei provvedimenti emessi da questa Sezione in ambito cautelare; si vedano, in particolare, le sentenze n. 16785 del 2012, cha ha rigettato il ricorso proposto da NOME COGNOME avverso l’ordinanza con cui il Tribunale per il riesame di Catanzaro ha confermato il decreto di sequestro preventivo del 17 febbraio 2012 emesso dal G.i.p. dello stesso Tribunale relativamente all’impianto di prodotti petroliferi della “RAGIONE_SOCIALE” e degli automezzi utilizzati nell’attività di vendita, nonché la sentenza n. 41274 del 2018, in cui si legge che “il sig. NOME COGNOME ricorre per l’annullamento dell’ordinanza del 12 ottobre 2017 del Tribunale di Catanzaro che ha rigettato l’appello avverso il provvedimento dell’Il aprile 2017 del G.i.p. di quel medesimo Tribunale che aveva respinto l’istanza di revoca del sequestro dell’impianto petrolifero della società RAGIONE_SOCIALE di cui è legal rappresentante, disposto a fini preventivi per la ritenuta sussistenza indiziaria del reato di cui all’art. 40, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 504 del 1995″. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Orbene, a fronte di tale chiaro elemento, ossia che nell’ambito di tutto il procedimento – dalla fase cautelare siano a quella esecutiva – si è accertato che l’impianto petrolifero fosse di propria della società RAGIONE_SOCIALE – prova ne è che NOME COGNOME, durante la fase cautelare, non ha mai avanzato alcuna richiesta di restituzione dei beni sequestrati – il giudice dell’esecuzione ha correttamente osservato come, in relazione a tale pretesa legittimazione, nessun rilievo possa attribuirsi alla “visura per immobile” emessa dall’Agenzia delle Entrate relativa al Foglio 83, particella 866, sub 1, Zona 3 Cat. D/7, asseritamente corrispondente a quello del manufatto confiscato, rispetto alla cui area NOME COGNOME risulta essere proprietario nella misura del 50% e, per il
restante 50%, di proprietà del fratello COGNOME NOME, nei cui confronti il provvedimento di confisca è divenuto definitivo.
Il giudice, infatti, ha ribadito che i provvedimenti ablatori emessi nel corso del procedimento – sequestro preventivo prima, confisca poi – avevano ad oggetto beni di proprietà della società RAGIONE_SOCIALE, oggi dichiarata fallita.
A prescindere dagli istituti civilistici evocabili nel caso di specie, il dat dirimente è costituito dal fatto non è spiegato in base a quale titolo vi è stata l’edificazione dell’impianto di idrocarburi sul terreno di proprietà dei fratell COGNOME, e, più in generale, non è dato sapere i rapporti (ammesso che vi siano stati) tra la società – nei cui confronti, si ribadisce, sono stati emessi provvedimenti ablatori – e i fratelli COGNOME quale asseriti proprietari dei beni edificati sul terreno di loro proprietà.
In altri termini, ammesso e non concesso che l’impianto non fosse di proprietà della società che svolgeva l’attività petrolifera, non si può non osservare che, per una elementare quanto evidente ragione di certezza dei rapporti giuridici, l’eventuale messa a disposizione della società di detto impianto avrebbe dovuto essere regolata in base a una qualche forma contrattuale (quale la locazione, il comodato, ecc.), e non affidata, come pretende il ricorrente, all’incerta applicazione dell’art. 934 cod. civ. e in assenza di qualsivoglia atto scritto.
Con riferimento alla ritenuta carenza di legittimazione, le ragioni giuridiche poste a fondamento del provvedimento impugnato meritano perciò ampia ed integrale condivisione, non avendo il ricorrente contestato la riconducibilità di quell’impianto alla società fallita ed essendosi limitato a rilevare come tale impianto sorga su un fondo di cui è comproprietario e non sia confluito nella massa attiva del fallimento: argomento, quest’ultimo, che certamente non vale a dimostrare la comproprietà dell’impianto in capo all’odierno ricorrente alla luce di quanto rilevato dal giudice dell’esecuzione e desunto dal provvedimento giudiziale che ha disposto la confisca, pacifico essendo che tale impianto era nella disponibilità e nel patrimonio aziendale di tale società, indipendentemente dalla proprietà del fondo sul quale sorgeva, e non essendo le note le vicende relative alla procedura fallimentare.
Ad abundantiam, si osserva, inoltre, che il giudice dell’esecuzione, con una motivazione adeguata e priva di profili di illogicità manifesta, ha escluso la buona fede del ricorrente, avendo ravvisato una condotta colposa del Boccuto nella vicenda qui al vaglio, stante il suo pieno coinvolgimento, morale e
materiale, nelle reiterate vendite del prodotto agricolo ad aziende che non
avevano alcun titolo per usufruire del relativo beneficio fiscale, come accertata dal giudice dell’esecuzione sin dal provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca della confisca, il cui contenuto è integralmente riportato alle p. 39 e 40 dell’ordinanza impugnata.
L’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione rende non rilevante la ventilata questione di legittimità costituzionale.
Essendo il ricorso inammissibile e ricorso e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 17/12/2024.