Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 30410 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 30410 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME NOME, nato a Saronno il 22/5/1994 COGNOME NOME nata a Saronno il 26/1/1969 inoltre:
RAGIONE_SOCIALE Responsabilità Limitata avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 18/12/2024
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 11.1.2024, la Quinta Sezione della Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza, emessa dalla C orte d’Appello di Milano il 28.2.2023, di condanna di NOME COGNOME e NOME COGNOME per il reato di cui agli artt. 110-452quaterdecies cod. pen. (per avere, l’uno quale dipendente e l’altra quale socio della RAGIONE_SOCIALE, gestito un’attività organizzata di gestione di ingenti quantitativi di rifiuti speciali), limitatamente al trattamento sanzionatorio per De NOME e alla confisca per entrambi.
Quanto, in particolare, alla confisca, era stato dedotto che la Corte d’Appello non avesse risposto al motivo d’appello relativo alla determinazione del quantum del profitto confiscabile, il quale avrebbe dovuto essere ridimensionato -secondo la prospettazione difensiva -da 285.395,07 euro a 238.882,21 euro.
La Corte di cassazione ha ritenuto che effettivamente non vi fosse stata una risposta esaustiva da parte della Corte territoriale, la quale aveva argomentato solo in relazione alla porzione di profitto relativo agli introiti del 2014 della RAGIONE_SOCIALE ovvero la società utilizzata da COGNOME prima della RAGIONE_SOCIALE per svolgere attività illecita. Viceversa, i giudici di secondo grado non avevano risposto sugli importi successivi al 2014.
Con sentenza del 18.12.2024, la Corte d’Appello di Milano, in sede di giudizio di rinvio, ha ritenuto, sulla questione relativa alla determinazione del quantum del profitto confiscabile, di confermare la sentenza di primo grado, considerando del tutto esaustive e attendibili le valutazioni contenute nella nota della Guardia di Finanza del 21.11.2021, avente ad oggetto la quantificazione del profitto del reato in 285.395,07 euro. Tale quantificazione costituiva il frutto delle operazioni investigative di osservazione diretta del sito, da cui era emerso che i conferimenti di rifiuti per cui si erano verificati pagamenti in nero erano di gran lunga superiori agli importi fatturati.
La difesa, viceversa, non è stata in grado di documentare l’asserita erroneità dei conteggi della Guardia di Finanza, la cui annotazione invece contiene la ricostruzione capillare delle operazioni di conferimento dei rifiuti, anche laddove le stesse non avevano trovato riscontro nella contabilità in quanto frutto di attività ‘ in nero ‘.
Le censure difensive, infatti, non chiariscono -secondo la Corte d’Appello sulla base di quali criteri sono stati operati i calcoli diversi e non viene allegata documentazione idonea a comprovare le discrasie, che in realtà appaiono frutto di valutazioni arbitrarie, essendosi limitata la difesa a censurare l’imponibile riferito a quattro ditte, da ridursi asseritamente per effetto di non meglio chiarite detrazioni di acconti su fattura ovvero di nuove valutazioni che avrebbero consentito di escluderne la riconducibilità ad operazioni in nero o sulla scorta di ricalcoli dell’IVA sugli importi fatturati o, ancora, previa espunzione di importi del totale delle fatture.
Si tratta di censure inidonee a incidere sulla complessiva coerenza e correttezza della quantificazione operata dalla polizia giudiziaria. Infatti, l’annotazione della Guardia di Finanza contiene le risultanze di un confronto estremamente dettagliato tra la documentazione sequestrata alla RAGIONE_SOCIALE e gli esiti dei servizi di osservazione eseguiti, che, durante i cinquantadue giorni presso il sito, avevano registrato 320 conferimenti di rifiuti, di cui 227 pagati in
nero, atteso che era stata reperita documentazione contabile solo con riferimento a 93 conferimenti.
Nell’annotazione, si sottolineava come potesse ritenersi che il profitto delle condotte delittuose era stato per lo più conseguito mediante pagamenti in denaro contante non tracciati e non documentati in contabilità, con la conseguenza che la quantificazione degli illeciti profitti era stata certamente sottostimata in ragione della complessità e della non piena tracciabilità del circuito dei rifiuti edili.
Viceversa, non si può tenere conto -ad avviso dei giudici di secondo grado -dei conteggi proposti dalla difesa quale lettura alternativa e non documentata dei dati estrapolati dalla Guardia di Finanza, la cui quantificazione del profitto confiscabile, pertanto, deve ritenersi corretta, con la conseguente conferma della sentenza di primo grado sul punto.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso il difensore degli imputati, articolando tre motivi.
3.1 Con il primo motivo, deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 178, 179 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 24 e 25 Cost. e l’erronea applicazione degli artt. 598 -ter , 420-bis e 420ter cod. proc. pen.
Si evidenzia che all’udienza dell’11.9.2024 la Corte d’Appello ha disposto la rinnovazione della notifica del decreto di citazione degli imputati. All’udienza del 18.12.24, gli imputati, regolarmente citati, erano presenti e rispondevano all’appello, riman endo presenti anche alla lettura del dispositivo, insieme al sostituto del loro difensore di fiducia, che depositava una memoria con richiesta di dissequestro delle somme sequestrate alla RAGIONE_SOCIALE, società terza ed estranea al procedimento.
Senonché, dal verbale d’udienza risulta che gli imputati e il difensore siano stati indicati come assenti e che il collegio fosse in una composizione diversa rispetto all’udienza dell’11.9.2024.
Di conseguenza, la sentenza è affetta da nullità assoluta, in primo luogo, per violazione del diritto di difesa, perché non è stata effettuata alcuna verifica sulla presenza degli imputati e non è stata revocata la dichiarazione di assenza: in questo modo, è stato leso il loro diritto di rendere dichiarazioni spontanee, di interloquire con il proprio difensore durante l’udienza e di partecipare alla discussione.
In secondo luogo, la sentenza è nulla anche per la violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge e del principio di immutabilità del giudice.
3.2 Con il secondo motivo, deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., vizio di motivazione sulla determinazione del quantum della confisca.
La Corte d’Appello ha totalmente omesso di motivare sulla confisca degli importi successivi al 2014 e, in violazione del principio affermato dalla sentenza rescindente, non ha esaminato la documentazione probatoria relativi agli importi successivi al 2014, né ha valutato le specifiche contestazioni difensive ai calcoli della Guardia di Finanza, riportate negli atti di appello dei due difensori. In particolare, la difesa ricostruiva l’errata computazione delle operazioni relative agli anni 2015-2020 al punto sub A) del quarto motivo di appello.
L’analisi della documentazione avrebbe consentito una riduzione dell’importo considerato come profitto dell’attività illecita, mentre invece i giudici di secondo grado si sono limitati ad affermare che le censure non chiarivano sulla base di quali criteri erano stati operati i calcoli difformi, omettendo tuttavia di esaminare la documentazione.
Dunque, la Corte d’Appello nel giudizio di rinvio ha reiterato il medesimo errore motivazionale, omettendo di fornire risposta alle specifiche contestazioni difensive, benché supportate da documentazione probatoria.
3.3 Con il terzo motivo, deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio di motivazione sul dissequestro delle somme della RAGIONE_SOCIALE
La Corte d’Appello non si è pronunciata sulla richiesta di dissequestro delle somme della RAGIONE_SOCIALE, limitandosi ad affermare che le questioni relative ai sequestri sarebbero superate dall’intervenuta definitività del provvedimento ablatorio e demandate alla fase esecutiva.
La motivazione è manifestamente illogica, in quanto confonde il piano della confisca disposta nei confronti degli imputati con quella del sequestro nei confronti di un terzo.
Con requisitoria scritta trasmessa il 23.5.2025, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, in quanto le censure in rito sono generiche e non consentono di individuare l’interesse degli imputati all’impugnazione , mentre la questione relativa al quantum oggetto di confisca è stata compiutamente affrontata e argomentata dal giudice di merito, che ha colmato la lacuna motivazionale rilevata in sede di legittimità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso presentati nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME sono inammissibili per le ragioni di seguito esposte.
Con il primo motivo di ricorso si lamenta innanzitutto una violazione del diritto di difesa, e, in particolare, del diritto degli imputati di rendere dichiarazioni
spontanee nell’udienza dinanzi alla Corte d’Appello , di interloquire con il proprio difensore durante l’udienza e di partecipare alla discussione.
La violazione del diritto di difesa sarebbe collegata al fatto che gli imputati, pur essendo fisicamente presenti in aula durante l’intero svolgimento dell’udienza, siano poi risultati assenti nel verbale redatto dal cancelliere.
Tuttavia, se si oppone che gli imputati erano effettivamente presenti, benché risultassero assenti dal verbale, deve darsi dimostrazione che alla irregolarità formale del verbale (quale deve considerarsi quella che riguardi l’attestazione di assenza dell’imputato invece presente) sia conseguita , in concreto, una ingiustificata compressione dei diritti di difesa. Per stare alla esemplificazione contenuta nel ricorso, dovrebbe aversi prova del fatto che gli imputati abbiano chiesto di rendere dichiarazioni sp ontanee o di prendere la parola all’esito della discussione ovvero abbiano tentato di consultarsi con il proprio difensore e il presidente glielo abbia negato sol perché, pur essendo fisicamente presenti dinanzi al collegio, il cancelliere ne aveva invece registrato erroneamente l’assenza.
In difetto di tale allegazione, deve ritenersi, invece, che l’omessa indicazione formale della loro presenza non ha determinato alcuna violazione del diritto di difesa e che, pertanto, nessun interesse sussiste ad impugnare la irregolarità del verbale.
Del resto, in tema di nullità del verbale, il codice di procedura penale del 1988, come si evince dal testo dell’art. 142 e dai lavori preparatori che ne hanno preceduto l’emanazione, ha inteso comprimere al massimo la sfera delle situazioni con effetti invalidanti sul verbale stesso, con relativa espansione delle mere irregolarità formali (Sez. 2, n. 3513 del 22/5/1997, COGNOME, Rv. 208074 – 01).
La nullità del verbale è prevista dall’art. 142 cod. proc. pen. nei casi di mancata sottoscrizione del pubblico ufficiale che l’ha redatto o in caso di incertezza assoluta sulle persone intervenute.
Ma l’incertezza, come hanno chiarito le Sezioni Unite ( Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell’arte, Rv. 253213 -01), deve riguardare l’identità, nel senso che i requisiti indispensabili ai fini della legittimità di un verbale sono la certezza che l’ufficio che ha proceduto alla redazione sia stato effettivamente ricoperto e che siano stati assolti i compiti istituzionali.
Di conseguenza, si può ritenere che la nullità del verbale si verifichi solo in quei casi nei quali l’ incertezza assoluta, tale cioè da impedire qualsiasi possibilità di identificazione, riguardi le persone la cui partecipazione all’atto documentato sia necessaria.
Nel caso di specie, invece, si è verificata un’irregolarità formale relativa alla presenza degli imputati, che comunque erano stati citati regolarmente in giudizio e, dunque, si trovavano nella condizione di partecipare all’udienza onde esercitarvi i propri diritti.
Sotto questo profilo, deve considerarsi che la verbalizzazione è la documentazione dello svolgimento delle attività d’udienza, la quale serve a lasciare traccia riconoscibile delle operazioni compiute e delle dichiarazioni acquisite, in modo che ne sia possibile il riscontro e la rievocazione nelle fasi e nei gradi ulteriori del processo.
In ossequio a tale funzione, la esigenza di massima semplificazione del processo a cui è ispirato il codice di rito consente di affermare, allora, che la circostanza della mancata documentazione della presenza dell’imputato non determina alcuna invalidità ove da essa non sia derivata una concreta violazione del diritto di difesa.
Con il primo motivo di ricorso, inoltre, è stata eccepita anche la violazione del principio di immutabilità del giudice, per essere stata celebrata l’udienza in cui è stato definito il giudizio da un collegio diversamente composto rispetto a quello che aveva rinviato la precedente udienza per un difetto di notifica.
La doglianza è manifestamente infondata.
Nessun problema relativo al mutamento del giudice si pone nel caso di specie, giacché il collegio che ha deciso è subentrato ad altro collegio che si era limitato ad aggiornare preliminarmente il processo per un problema formale e non aveva svolto alcuna attività istruttoria da rinnovare formalmente.
Il principio di immutabilità del giudice, invero, si applica alle sole ipotesi in cui vi sia stata l’emissione di una deliberazione in esito a un dibattimento caratterizzato dallo svolgimento di attività istruttorie (Sez. 4, n. 5273 del 21/9/2016, dep. 2017, P.g., p.c. in proc. COGNOME e altri, Rv. 270383 – 01). Si tratta, infatti, di un principio funzionale al rispetto dei principi di oralità ed immediatezza, il quale esige soltanto che a decidere sia lo stesso giudice che ha presieduto all’istruttoria (Sez. 6, n. 18615 del 16/4/2013, COGNOME, Rv. 254843 01).
Il primo motivo, pertanto, deve essere complessivamente disatteso.
Anche il secondo motivo è inammissibile, perché essenzialmente rivalutativo in fatto.
La C orte d’Appello ha fornito una risposta specifica al tema posto dalla sentenza rescindente e il ricorso la contrasta essenzialmente per il tramite della proposta di una lettura alternativa degli elementi di fatto su cui si è basata la decisione e di una diversa interpretazione dei dati contabili.
Sotto questo profilo, tuttavia, i giudici del rinvio hanno richiamato congruamente e diffusamente l’attività investigativa della Guardia di Finanza , fondando sulle sue risultanze la motivazione della confisca degli introiti successivi al l’anno 2014 in modo n ient’affatto manifestamente illogico, né contraddittorio.
Di conseguenza, sono inammissibili le doglianze difensive articolate nel secondo motivo, in quanto tendono a sollecitare una differente comparazione dei significati da attribuire alle diverse prove o ad evidenziare ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/2/2021, COGNOME, Rv. 280747 -01; Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, O., Rv. 262965 -01).
Si tratta di censure non proponibili al giudice di legittimità, che non può procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e all’autonoma adozione di parametri diversi di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601 -01).
Anche il secondo motivo, pertanto, deve essere disatteso.
3. Il terzo motivo è articolato genericamente, perché i ricorrenti lamentano che la Corte d’Appello abbia omesso di pronunciarsi su una richiesta di dissequestro di somme di denaro della RAGIONE_SOCIALE che era stata formulata in giudizio.
Il ricorso non specifica né che tipo di sequestro gravasse sul denaro, né le ragioni per le quali la difesa degli imputati ne aveva chiesto la restituzione.
Per vero, il giudice del rinvio non ha taciuto sulla richiesta, ma ha osservato, in una nota della sentenza, che le questioni poste dalla difesa degli imputati ‘con riguardo ad asserite illegittimità dei sequestri a suo tempo disposti sui beni ora confiscati’ resta vano demandate alla fase esecutiva, nella quale si deve procedere alla concreta individuazione dei beni da assoggettare a confisca.
Si tratta di una motivazione che si collega del tutto congruamente alla preliminare osservazione dei giudici del rinvio secondo cui le questioni relative all’ an della confisca erano ormai precluse per effetto del rigetto da parte della Quinta Sezione del relativo motivo di ricorso della COGNOME.
Il ricorso non contesta questa specifica circostanza, sicché la decisione della Corte d’Appello tiene adeguatamente conto del fatto che nel caso di confisca per equivalente il giudice che la pronuncia si limita a determinare la somma di denaro che costituisce il profitto o il prezzo del reato o il valore ad essi corrispondente, mentre l’individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al “quantum” sono riservate alla fase esecutiva.
Qui va solo aggiunto -benché non costituisca specifico motivo di ricorso -che la circostanza, evidenziata dai ricorrenti, che i beni appartenessero ad un soggetto diverso dagli imputati -nel caso di specie, una società di cui, secondo la sentenza, era legale rappresentante COGNOME -non esclude in astratto la possibilità di confisca ai sensi dell’art. 452 -quaterdecies cod. pen., ove la società
proprietaria dei beni sia stata utilizzata per la realizzazione del sistema illecito di traffico di rifiuti.
Il terzo motivo, dunque, è manifestamente infondato.
Alla luce di quanto fin qui osservato, pertanto, i ricorsi degli imputati devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 13.6.2025