Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 45269 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 45269 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME nata ad Asmara (Eritrea) il 05/07/1953
avverso il decreto del 01/02/2024 della Corte di appello di Roma;
del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con atto del proprio difensore e procuratore speciale, NOME COGNOME impugna il decreto della Corte di appello di Roma del 19 dicembre 2022, che ha confermato la confisca della polizza vita da lei sottoscritta il 24 marzo 2017 con “Poste Vita” s.p.a. e recante un saldo di 74.000 euro a settembre del 2021.
La misura è stata disposta a norma dell’art. 24, d.lgs. n. 159 del 2011, sul presupposto per cui detta polizza sarebbe stata costituita ed alimentata con i
proventi dell’attività delittuosa di suo figlio, NOME COGNOME nel commercio degli stupefacenti.
Il ricorso deduce la violazione degli artt. 125, comma 3, cod. proc. pen., e 1, 4, 7, 16, 23, 24 e 27, d.lgs. n. 159 del 2011, lamentando l’omessa considerazione della documentazione dell’attività economica svolta dalla ricorrente e degli esiti della consulenza di parte, e perciò l’erronea ricostruzione dell’effettiva capacità reddituale di costei, in realtà tale da giustificare la formazione della provvista finanziaria necessaria per l’attivazione e l’incremento della suddetta polizza assicurativa.
In particolare, si rileva:
-che la ricorrente ha sempre lavorato come collaboratrice familiare o badante sin dal 1975;
che il decreto ha preso in considerazione anche il periodo anteriore al 2007, benché esso esuli da quello di manifestazione di pericolosità di suo figlio;
che, comunque, in tale periodo, al reddito familiare hanno contribuito anche suo marito e sua figlia, la quale ha realizzato redditi annuali tra i 12.000 ed i 16.000 euro;
che i giudici di merito non hanno tenuto in considerazione le somme da costei percepite per trattamento di fine rapporto lavorativo, pari ad oltre 23.000 euro complessivi, nonché per risarcimento dei danni da due sinistri stradali, per un importo totale di oltre 5.000 euro;
che il decreto impugnato ha arbitrariamente svilito le prove documentali e le informazioni testimoniali prodotte dalla difesa, illegittimamente dubitando della relativa genuinità, anziché compiere le agevoli verifiche a conferma;
che l’apertura di un secondo libretto di risparmio, ritenuta ingiustificata dai giudici d’appello, si è in realtà resa necessaria durante il periodo in cui la ricorrente ha svolto l’attività di badante presso un’anziana sottoposta ad amministrazione di sostegno;
che la NOME COGNOME, da gennaio del 2020, è altresì titolare di una carta “Postepay”, non considerata dagli investigatori, ma sulla quale ha ricevuto dall’amministratore di sostegno plurimi accrediti di emolumenti arretrati;
che è erroneo il calcolo presuntivo delle spese effettuato sulla base degli indici elaborati dall’Istat, avendo la Corte d’appello erroneamente ritenuto che, nel periodo considerato, la ricorrente abbia vissuto con altre tre persone, anziché per lo più da sola, e non avendo considerato che i consumi delle famiglie straniere sono nettamente inferiori a quelli delle italiane, sulla base dei quali quegli indic sono stabiliel; inoltre, in questi ultimi vengono considerate spese, quali quelle per
canoni di locazione, per istruzione, per acquisto e mantenimento di autovetture e di animali domestici, che costei non ha mai sostenuto.
Ha depositato requisitoria scritta la Procura generale, concludendo per l’inammissibilità del ricorso, poiché esso lamenterebbe essenzialmente vizi di motivazione, non rilevabili in questa sede.
CONSIDERATO IN DIRITTO
L’impugnazione non è ammissibile, perché proposta per motivi non consentiti.
A norma dell’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011, il ricorso per cassazione avverso il decreto reso dalla Corte di appello in materia di misure di prevenzione è consentito, infatti, esclusivamente per violazione di legge.
Nello specifico, invece, al di là dell’indicazione formale in quel senso, il ricorso non lamenta una tale violazione; anzi, non si duole neppure di un vizio logico della motivazione della decisione, ma piuttosto della valutazione del materiale probatorio, perciò deducendo un profilo puramente di merito, giammai sindacabile dal giudice di legittimità.
È sufficiente osservare, allora, che la motivazione resa dalla Corte d’appello non solo è effettiva, ma è altresì dettagliata ed immune da qualsiasi travisamento probatorio, per fraintendimento o per omissione.
Solo per completezza, allora, val la pena rilevare che il ricorso non confuta in modo efficace e verificabile il rilievo logicamente attribuito dai giudici del merito a due dati essenziali, ovvero: a) l’origine della provvista fondamentale per l’accensione della polizza, ovvero i 35.000 euro accreditati sul libretto postale nel 2012 (e quindi nel pieno del periodo in cui si è manifestata la pericolosità del figlio della ricorrente), che secondo la difesa deriverebbero dalla riscossione di un buono fruttifero acceso alla fine degli scorsi anni ’90, ma di cui manca qualsiasi traccia documentale; b) i ripetuti versamenti di contanti nell’arco di singoli mesi effettuati su detto libretto, per importi non corrispondenti alle retribuzioni percepite, con isolati e modestissimi prelievi, i quali rendono indiscutibilmente logica la deduzione operata dalla Corte d’appello in ordine alla disponibilità, da parte della ricorrente e della sua famiglia, di risorse economiche di origine illecita impiegate per le loro esigenze di vita e che hanno perciò consentito loro di accumulare le somme investite nella polizza.
L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2024.