Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 13550 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 13550 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 06/02/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti nell’interesse di
COGNOME NOME, nato a Roma il DATA_NASCITA, contro la sentenza della Corte di Appello di Roma del 3.5.2023;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli AVV_NOTAIO e NOME COGNOME, in difesa di NOME COGNOME, che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 29.9.2014 lil Tribunale di Roma aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile dei fatti di reato a lui ascritti al capo 10) della rubrica (anche relativamente ai finanziamenti erogati in favore di NOME COGNOME, così riqualificato il fatto di cui ai capi 12 e 13) nonché di quelli di cui capo 26) e, pertanto, ritenuto il vincolo della continuazione e le circostanze attenuanti generiche stimate equivalenti alla contestata aggravante, lo aveva condannato alla pena complessiva di anni 4 di reclusione ed euro 7.000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, con le pene accessorie conseguenti alla entità di quella principale; nel contempo, il Tribunale aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato in relazione al reato di cui al capo 15) e lo aveva assolto dai fatti di reato a lui ascritti ai capi 9) e 16); il Tribun aveva infine ordinato la confisca del denaro e degli oggetti preziosi sequestrati presso l’abitazione dei coniugi COGNOME, del denaro sequestrato all’imputato, del saldo attivo giacente sui conti correnti, degli immobili sequestrati alla COGNOME ed al predetto COGNOME oltre che del materiale cartaceo, dei titoli di credito, delle carte di credito e bancomat sequestrati presso l’abitazione dei coniugi ed in danno di NOME COGNOME;
2. la Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del ricorrente per i reati di cui ai capi 10 (esercizio abusivo del credito) 12 (usura in danno di NOME COGNOME nel corso del 2008) e 13 della rubrica (usura in danno di NOME COGNOME per fatti del 2010), perché estinti per intervenuta prescrizione ed ha eliminato la relativa pena confermando nel resto la decisione impugnata in punto di responsabilità quanto al capo 26) e rideterminando la pena finale in quella di anni 3 di reclusione ed euro 6.000 di multa e limitando la confisca alla somma di euro 3.500 ed al saldo giacente sui conti correnti, del materiale cartaceo, dei titoli di credito e delle carte bancarie;
3. ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo dei difensori di fiducia che deducono:
3.1 l’AVV_NOTAIO:
3.1.1 difetto di motivazione per omessa risposta alle censure formulate nell’atto di appello e nella memoria depositata in data 27.4.2023; travisamento della prova per omissione e violazione del principio del “oltre ogni ragionevole dubbio”: richiama la motivazione con cui la Corte d’appello ha ritenuto attendibile la persona offesa con riguardo ai fatti di cui al capo 26) della rubrica rilevando, tuttavia, che il ragionamento dei giudici di secondo grado è viziato dal medesimo errore in cui era incorso il Tribunale dando per dimostrata la consegna, da parte dello COGNOME, all’odierno ricorrente, di un assegno di 5.500 euro, nonostante i rilievi
difensivi, contenuti anche nella memoria nemmeno menzionata dalla Corte territoriale, in cui si era insistito sul fatto che la stessa persona offesa avev dichiarato di non serbare un chiaro ricordo del fatto e finendo per ricostruirlo in via deduttiva; riporta il tenore delle dichiarazioni testimoniali della persona offesa sottolineando come, a fronte di esse, la Corte abbia ritenuto che fosse stata acquisita una prova “univoca”; segnala che il riferimento ad una prassi invalsa non poteva equivalere ad una prova certa se non lasciando residuare quel “ragionevole dubbio”;
3.1.2 carenza di motivazione in ordine al diniego del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante speciale: segnala che, a fondamento del giudizio di prevalenza, l’atto di appello aveva sottolineato il comportamento processuale dell’imputato anche nella fase dell’esecuzione della misura cautelare ma che la Corte d’appello ha liquidato la richiesta ritenendo a tal fine non valorizzabile lo stato di incensuratezza;
3.1.3 violazione di legge e contraddittorietà della motivazione in ordine alla confisca della somma di denaro: rileva, in primo luogo, la contraddittorietà della motivazione che attesta l’entità degli interessi pattuiti in euro 500 dando contestualmente atto della loro mancata effettiva corresponsione; aggiunge che la Corte ha disposto la confisca anche in relazione ai profitti del reato di abusiva attività finanziaria laddove il Tribunale aveva disposto la confisca “per sproporzione” in relazione al solo delitto di usura non rientrando quello di cui all’art. 132 D. Lg.vo 385 del 1993 nel novero di quelli elencati nell’art. 240-bis cod. pen.; eccepisce, quindi, la violazione del divieto di reformatio in pejus avendo la Corte disposto una confisca non adottata in primo grado pur in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero e, per altro verso, del diritto al contraddittorio non avendo l’imputato potuto interloquire sul punto;
3.2 l’AVV_NOTAIO:
3.2.1 manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del reato di usura con riguardo alla valutazione della testimonianza della persona offesa NOME COGNOME: rileva che la sentenza impugnata ha confermato la responsabilità del ricorrente incorrendo medesimo errore in cui era caduto il giudice di primo grado; segnala, infatti, che i giudici di secondo grado hanno ribadito il principio secondo cui il delitto di usura si consuma già con la sola pattuizione degli interessi applicandolo tuttavia in maniera incongrua al caso di specie in cui, con l’atto di appello, si era evidenziata l’assenza di prova circa l’intervenuto accordo avendo lo stesso COGNOME dichiarato di non ricordare se, in effetti, l’assegno fosse stato o meno consegnato; denunzia, sul punto, l’assenza
di motivazione sin dal punto di vista grafico e, in ogni caso, la violazione del principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”;
3.2.2 mancanza di motivazione rispetto alle devoluzioni difensive contenute nell’atto di appello e nei motivi nuovi; travisamento della prova con riguardo alla testimonianza della persona offesa e conseguente violazione di legge con riguardo all’art. 644 cod. pen.: richiama il contenuto dell’imputazione osservando che, nel corso del processo, era emerso che, anche a voler ammettere la consegna dell’assegno, lo COGNOME si era limitato a darlo in garanzia della restituzione del prestito che era intervenuta entro pochi giorni e senza il pagamento di alcuna forma di interesse; segnala che la Corte d’appello ha travisato il contenuto della censura di fatto e l’errore in cui sono comunque incorsi i giudici di secondo grado nel ritenere non verosimile la tesi difensiva.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La sentenza impugnata va annullata, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma, limitatamente alla disposta confisca; i ricorsi sono, nel resto, inammissibili perché articolati su censure manifestamente infondate ovvero non consentite in questa sede.
Si deve infatti prendere atto che le difese, con i motivi articolati in punto di responsabilità, finiscono per contestare il giudizio formulato sul risultato probatorio cui sono approdati i giudici di primo e secondo grado che, con valutazione conforme delle medesime emergenze istruttorie, sono stati concordi nel ritenere l’ipotesi accusatoria riscontrata nella ricostruzione della concreta vicenda processuale.
Con specifico riguardo al vizio di motivazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non è d’altra parte inutile sottolineare che il sindacato legittimità deve essere mirato a verificare che la motivazione: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risult logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specific ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (cfr., Sez.
n. 41738 del 19/10/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516; Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, Casula, Rv. 233708; Sez. 2, n. 36119 del 04/07/2017, Agati, Rv. 270801).
Non sono perciò deducibili, in sede di legittimità, censure relative alla motivazione diverse da quelle che abbiano ad oggetto la sua mancanza, la sua manifesta illogicità, la sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali per pervenire ad una diversa conclusione del processo; sono dunque inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della vale probatoria del singolo elemento (cfr., in tal senso, Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965; Sez. 2 – , n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747).
In particolare, le doglianze articolate in termini di violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. riguardanti l’attendibilità dei testimoni dell’accusa, non essendo l’inosservanza di detta norma prevista a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, non possono essere dedotte con il motivo di violazione di legge di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ma soltanto nei limiti indicati dalla lett. e) della medesima norma, ossia come mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti specificamente indicati nei motivi di gravame (cfr., Cass. Pen., 1, 20.10.2016 n. 42.207, COGNOME; conf., Cass. Pen., 3, 17.10.2012 n. 44.901, F.; conf., da ultimo, Cass. SS.UU., 16.7.2020 n. 29.541, COGNOME).
La difesa (e, in particolare, il primo motivo del ricorso a firma dell’AVV_NOTAIO), inoltre, ha censurato la sentenza impugnata perché resa in presenza di elementi idonei a fondare un “ragionevole dubbio” sulla responsabilità dell’imputato: è pertanto opportuno ribadire che la regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” rileva in sede di legittimità esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, non avendo la Corte di cassazione alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova (cfr., in tal senso, Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, GLYPH COGNOME, GLYPH Rv. 270108 GLYPH 01; Sez. 4, n. 2132 del 12/01/2021, Maggio, Rv. 280245 – 01).
Tanto premesso va ad ogni modo segnalato che, nel caso di specie, si è in presenza, come accennato ed in punto di responsabilità sul residuo capo di imputazione per cui è stata confermata la condanna, di una “doppia conforme” di merito, ovvero di decisioni che, nei due gradi, sono pervenute – su questo aspetto – a conclusioni analoghe sulla scorta di una conforme valutazione delle medesime emergenze istruttorie, cosicché vige il principio per cui la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia quando operi attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia quando, per l’appunto, adotti gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette in maniera congiunta e complessiva ben potendo integrarsi reciprocamente dando luogo ad un unico complessivo corpo decisionale (cfr., Sez. 2 – , n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, NOME, 252615; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. NUMERO_DOCUMENTO).
2. Le due sentenze di merito hanno restituito una ricostruzione operata in termini che non prestano il fianco alle censure articolate in questa sede: in particolare, la Corte territoriale, dopo aver motivato sullo stato di bisogno della persona offesa (su cui non vi è alcuna censura) ha fatto presente che lo COGNOME aveva ricostruito i fatti in termini del tutto scevri da astio o rancore nei confron del COGNOME ed anzi “… cercando all’evidenza di limare il più possibile gli effetti pregiudizievoli per COGNOME in relazione al prestito ricevuto di 5.000,00″ (cfr., pag. 9 della sentenza impugnata); ha osservato, infatti, che la persona offesa aveva fatto in modo di ridimensionare il più possibile l’episodio sostenendo che si era trattato di un prestito di qualche giorno “… con la pronta restituzione, da parte sua, della somma di euro 5.000,00 senza la corresponsione di alcun interesse” (cfr., pag. 10).
Ciò non di meno, ha sottolineato che, ai fini della integrazione del delitto di usura, rileva anche la mera pattuizione per cui “… pur prendendo atto che la restituzione è avvenuta in pochi giorni e senza interesse … è pacifico che il prestito sia stato accordato dietro il rilascio di un assegno e che, senza quella indicazione/pattuizione di interesse contenuta nel titolo rilasciato al COGNOME, quest’ultimo non si sarebbe mai determinato a concederlo” (cfr., ivi, ancora, pag. 10).
Quanto alla materiale consegna dell’assegno, la Corte ha chiarito che tale circostanza, oltre ad essere stata confermata dalla persona offesa (cfr., pagg. 3637 della sentenza di primo grado) lo era stata indirettamente anche dall’imputato il quale aveva riferito che lo COGNOME era solito rilasciargli assegni in garanzia de prestiti ricevuti.
A fronte della concorde ricostruzione offerta dalle due sentenze di merito, la doglianza articolata dalle difese che insistono, anche in questa sede, sul “travisamento” della prova circa l’avvenuto perfezionamento di una effettiva pattuizione nel senso prospettato dalla pubblica accusa, si risolve nella non consentita sollecitazione di una rilettura alternativa delle dichiarazioni della persona offesa.
Vero che tra i vizi riconducibili al novero di quelli denunziabili ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. vi è quello del “travisamento” che, come è noto, è ravvisabile nel caso di contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ovvero da altri atti del processo indicati nei motivi di gravame, ovvero dall’errore cosiddetto revocatorio, che cadendo sul significante e non sul significato della prova, si traduce nell’utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio ovvero nella omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (cfr., tra le tante, Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, COGNOME, Rv. 250168; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, COGNOME, Rv. 257499; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, COGNOME, Rv. 272406; Sez. 2, n. 27929 del 12/06/2019, COGNOME, Rv. 276567).
La giurisprudenza ha avuto cura di chiarire che il controllo del giudice di legittimità si può estendere alla omessa considerazione o al travisamento della prova, purché, però, si tratti di una prova decisiva; si è inoltre sottolineato che è deducibile in sede di legittimità e rientra, pertanto, in detto controllo soltant l’errore per l’appunto “revocatorio”, in quanto il rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata, introdotto con la suddetta novella, non può che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione sulle premesse, mentre ad esso è estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per “brani” né fuori dal contesto in cui è inserito; ne deriva che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e ch pertanto, restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (cfr., tra le tante, Sez. 6, Sentenza n. 9923 del 05/12/2011, S., Rv. 252349; Sez. 5, Sentenza n. 8094 del 11/01/2007, COGNOME, Rv. 236540 in cui la Corte,; in tal senso, anche Sez. 2, Sentenza n. 7380 del 11/01/2007, Messina ed altro, Rv. 235716).
Fatta questa premessa, è allora agevole rendersi conto del fatto che i denunziati “travisamenti” si risolvono, in realtà, nella contestazione dell’esito della lettura che delle prove – indiscutibilmente valutate dai giudici di merito – sia stata operata e sia stata rappresentata nelle sentenze di primo e di secondo grado e sorretta da una motivazione che non presenta profili di criticità tali da renderla censurabile in questa sede.
A questo punto è utile ricordare che le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci (che, tuttavia, la Corte d’appello ha puntualmente e congruamente individuato nella deposizione del teste COGNOME), essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono GLYPH sottoposte GLYPH le GLYPH dichiarazioni GLYPH di qualsiasi GLYPH testimone (cfr., Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, COGNOME, Rv. 253214 GLYPH -01; Sez. 4 – , n. 410 del 09/11/2021, COGNOME, Rv. 282558 GLYPH -01; Sez. 5 – , n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 GLYPH -01; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104 – 01).
D’altra parte, la valutazione circa l’attendibilità della persona offesa si connota quale giudizio di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene al modo di essere della persona escussa; tale giudizio può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria atteso che l’attendibilità di un teste è una questione di fatto, che ha la sua chiave di lettura nell’insieme di una motivazione logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il Giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (cfr., Sez. 4 – , n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609 – 01; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, COGNOME, Rv. 262575 – 01).
In diritto, poi, la Corte – sulla scorta della ricostruzione operata dall persona offesa – ha dato continuità al principio costantemente ribadito da questa Corte, secondo cui il reato di usura si configura come reato a schema duplice e, quindi, si perfeziona con la sola accettazione della promessa degli interessi o degli altri vantaggi usurari, ove alla promessa non sia seguita effettiva dazione degli stessi, ovvero, nella diversa ipotesi in cui la dazione sia stata effettuata, con l’integrale adempimento dell’obbligazione usuraria (cfr., tra le altre, Sez. 2 – , n. 23919 del 15/07/2020, Basilicata, Rv. 279487 – 01; Sez. 2, n. 50397 del 21/11/2014, Aronica, Rv. 261487 – 01; Sez. F, n. 32362 del 19/08/2010, Scuto, Rv. 248142 – 01).
Il secondo motivo del ricorso a firma dell’AVV_NOTAIO è manifestamente infondato.
La Corte d’appello ha motivato sul giudizio di valenza per un verso sostenendo che non vi fossero elementi positivamente valutabili nel senso della prevalenza delle già ritenute circostanze attenuanti generiche sulla aggravante e, per altro verso, evocando, in punto di congruità della pena, il carattere professionale dell’attività svolta dal COGNOME che ben può essere a tal fine considerata ancorché manifestatasi con reati nel frattempo prescritti (cfr., in tal senso, Sez. 4, n. 18795 del 07/04/2016, P., Rv. 266705 01; Sez. 3 – , n. 46730 del 06/04/2018, S., Rv. 274233 – 01).
È peraltro consolidato l’orientamento secondo cui in tema di concorso di circostanze, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti sono censurabili in sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione dell’equivalenza (cfr., Sez. 5, n. 5579 del 26.9.2013 n. 5.579, Sub; Sez. 6, n. 6866 del 25.11.2009, COGNOME; Sez. 1, n. 3232 del 13.1.1994, COGNOME);
Il terzo motivo del ricorso a firma dell’AVV_NOTAIO, come anticipato, è fondato.
Il Tribunale aveva infatti ordinato la confisca del denaro e degli oggetti preziosi sequestrati presso l’abitazione dei coniugi COGNOME, del denaro pure ivi rinvenuto e sottoposto a sequestro, del saldo attivo esistente sui conti correnti bancari e degli immobili prue intestati ai due imputati.
La confisca era stata adottata ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen., ovvero come confisca “per sproporzione” (cfr., pagg. 39-40: “… nei casi di condanna o applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. per i delitti di cui all’art. 12 -sexies d.l. 306/92 …”) tra i quali è compreso anche il delitto di cui all’art. 644 cod. pen.; sul scorta di tale premessa, il Tribunale aveva quindi ravvisato una sproporzione rilevante tra il valore dei beni posseduti e sequestrati e le accertate possibilità economiche dell’imputato.
La difesa aveva articolato, sul punto, uno specifico motivo di appello (cfr., pagg. 11-15 dell’atto di gravame) significativamente intitolato “erronea applicazione dell’art. 12sexies I. 356 del 1992” contestando, con riguardo ai 3.500 euro ed ai saldi dei c/c, l’esistenza di una effettiva “sproporzione patrimoniale” e la assenza di correlazione temporale con riguardo agli immobili in quanto acquistati vent’anni prima del delitto di cui al capo 26.
La Corte d’appello ha confermato al confisca di euro 3.500 e del saldo giacente sui conti correnti oltre che dei titoli di credito e delle carte bancarie revocando, invece, la confisca dell’immobile; ha spiegato, a tal proposito (cfr., pag. 14 della sentenza) che il profitto dell’usura direttamente conseguito dal reato è pari ad euro 500, importonon giustifica la confisca per sproporzione anche dell’immobile.
E, tuttavia, per giustificare la confisca dell’intera somma in sequestro, come del saldo attivo dei conti correnti a lui intestati, ha fatto riferimento alla entità al profitto del reato di esercizio abusivo del credito, quantificabile in import rilevanti di migliaia di euro.
È pacifico che il delitto di cui all’art. 132 D. Lg.vo 385 del 1993 non può giustificare la confisca “per sproporzione” non essendo annoverato tra i reati “spia” contemplati dall’art. 240-bis cod. pen.; d’altra parte, la stessa Corte d’appello ha evocato le SS.UU. “Lucci” (e, dunque, la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato ancorché prescritto in secondo grado), in tal modo sembrando collegare la conferma della confisca vuoi del denaro che del saldo attivo dei conti correnti, proprio ai proventi del reato di esercizio abusivo del credito oltre che di quello di usura.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza sul punto con rinvio alla Corte d’appello di Roma che dovrà chiarire il “titolo” in forza del quale confermare o meno la confisca (nei limiti sopra indicati del denaro e dei saldi attivi dei cont correnti) consentendo, inoltre, alla difesa di interloquire.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata limitatamente al provvedimento di confisca, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma.
Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi e definitivo il giudizio responsabilità
Così deciso in Roma, il 6.2.2024