Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13216 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13216 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 01/03/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso il decreto del 14/03/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
Lette: la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione NOME COGNOME, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; la memoria nell’interesse del proposto NOME COGNOME e dei terzi NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, che, replicando alla requisitoria del P.G., ha concluso per l’accoglimento dei ricorsi; la memoria nell’interesse della terza NOME COGNOME, che, replicando alla requisitoria del P.G., ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con decreto in data 11/08/2018, il Tribunale di Napoli applicava a NOME COGNOME la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per cinque anni e disponeva la confisca di beni intestati, per quanto è qui di interesse, a NOME COGNOME (moglie del proposto), NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (figli del proposto). Con decreto del 14/03/2023, la Corte di appello di Napoli ha ridotto ad anni 3 e mesi 6 la durata dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza, disposto la restituzione di alcuni beni e confermato nel resto il decreto di primo grado.
Avverso l’indicato decreto della Corte di appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, con due atti di impugnazione, le cui doglianze saranno di seguito enunciate nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo atto di impugnazione a firma dell’AVV_NOTAIO (d’ora in poi, primo ricorso) denuncia inosservanza degli artt. 4, lett. c) e 1, lett. b), d. Igs. n. 159 del 2011. La Corte di appello ha effettuato un superficiale raffronto tra gli elementi emersi in sede di cognizione e i criteri indicati dalla sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale, posto che in quella sede i giudici di merito avevano datato la condotta associativa dal febbraio al 30/06/2011 (data di esecuzione delle misure cautelari), sicché solo entro tale periodo si riteneva l'”ingerenza” del proposto nei rapporti usurari del padre, rilievo confermato dagli episodi usurari ai danni di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Il procedimento di cognizione rilevava l’impossibilità di affermare che i proventi del contrabbando di TLE posto in essere dal padre del proposto NOME COGNOME fossero anche solo in parte confluiti nelle attività economiche lecite dei figli, tenuto conto dell’ingente somma (8 milioni di euro) rinvenuta nelle pareti della sua abitazione nel maggio del 2008 e dell’attività usuraria dallo stesso posta in essere, tanto più che nessun procedimento relativo al contrabbando è stato avviato nei confronti di NOME COGNOME, che ha ammesso solo di aver coadiuvato il padre nell’attività di contrabbando fino al compimento dei 18 anni, laddove le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non apportano alcun elemento concreto in ordine alla percezione di autonomi guadagni dall’attività cui viene accomunato al padre.
Quanto al requisito dell’abitualità, dai provvedimenti emerge solo la partecipazione a un’associazione che si consuma nel periodo febbraio/giugno
2011 (all’interno del quale si collocano le due usure ai danni di NOME COGNOME e di NOME COGNOME), mentre il procedimento per il reato di cui all’art. 512bis cod. pen. si è concluso con l’assoluzione. E’ impossibile accertare l’abituale commissione di delitti, posto che la partecipazione all’associazione è stata temporalmente circoscritta e la partecipazione del proposto all’attività di contrabbando – in assenza di procedimenti a suo carico – può essere solo presunta, senza alcun elemento temporale certo, laddove, quanto alla necessità che i profitti abbiano costituito l’unico reddito o una sua componente significativa, non sussiste alcun elemento certo al riguardo.
In ordine all’attualità della pericolosità, la partecipazione all’associazione risale al 2011 e il proposto è stato detenuto dal novembre 2016 al dicembre 2020.
2.2. Il secondo atto di impugnazione a firma dell’AVV_NOTAIO (d’ora in poi, secondo ricorso) articola tre motivi.
2.2.1. Il primo motivo denuncia, con riferimento al presupposto soggettivo della misura di prevenzione, inosservanza degli artt. 4, lett. c), 1, lett. b), 16, 18, 24, 27, 31 d. Igs. n. 159 del 2011, 3, 13, 41, 41, 117 Cost., in relazione all’art. 2, Prot. 4 Cedu e art. 1 Prot. Add. Cedu, per aver ritenuto sussistenti le condizioni di legalità sostanziali e formali per l’applicazione dello statuto delle misure di prevenzione fondate su un giudizio di pericolosità generica basate su manifestazioni del proposto anteriori al d.l. n. 92 del 2008 e alla I. n. 94 del 2009, alla sentenza EDU “De Tommaso” e alla sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale, in quanto prima della sentenza delle Sezioni unite n. 13426 del 2010 l’ambito di operatività delle novelle del 2009 e del 2010 non era definito con sufficiente chiarezza e, dunque, non era accessibile né prevedibile per il comune cittadino.
Le condotte su cui si è fondato il giudizio di pericolosità sono circoscritte al 2010/2011, laddove gran parte dei beni risulta acquisita agli inizi degli anni ’80 e ’90, in epoca anteriore alla norma che ha ampliato il perimetro delle ipotesi applicative della confisca di prevenzione.
2.2.2. Il secondo motivo denuncia, con riferimento ai presupposti soggettivi della misura di prevenzione personale, inosservanza degli artt. 4, lett. c), 1, lett. b), 16, 18, 24, 31 d. Igs. n. 159 del 2011 e 125 cod. proc. pen. Mentre il decreto di primo grado era anteriore alla sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale, quello di appello ha preso atto che fino al 2011 il proposto era incensurato, il che ne destruttura il ragionamento successivo, in particolare, lì dove fa riferimento all’attività di contrabbando, per la quale NOME COGNOME non è mai stato condannato, riguardando le sentenze menzionate dal decreto impugnato i reati di usura e di reimpiego di capitali illeciti, tanto più che, per la
sussistenza del delitto di riciclaggio, non è necessario l’accertamento giudiziale del reato presupposto, sicché l’accertamento incidentale, peraltro rispetto a posizioni diverse, della sola astratta configurabilità del reato non può integrare il presupposto soggettivo della misura, risultando altresì pretermessi l’accertamento del perimetro temporale delle condotte e la loro stessa realizzazione da parte del proposto, che peraltro, come dedotto con i motivi di appello, era stato destinatario di un’informativa di reato avente ad oggetto il possibile reimpiego di profitti di attività di contrabbando, informativa sfociata in un’archiviazione, non sussistendo il consistente ampliamento della base informativa richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.
2.2.3. Il terzo motivo denuncia inosservanza degli artt. 4 e 6 d. Igs. n. 159 del 2011 con riguardo al giudizio di attualità della pericolosità sociale, che trascura di considerare come le condotte si siano fermate al giugno del 2011, data del suo arresto, al momento del quale i suoi congiunti furono spossessati di tutto il suo patrimonio in quanto oggetto di sequestro preventivo funzionale alla confisca, provvedimento poi revocato essendosi escluso che detto patrimonio costituisse prodotto o profitto di reato.
3. Avverso il medesimo decreto della Corte di appello di Napoli ha altresì proposto ricorso per cassazione AVV_NOTAIO, attraverso il difensore e procuratore speciale AVV_NOTAIO, denunciando – nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. – violazione di legge, motivazione apparente e inosservanza dell’art. 24 d.lgs. n. 159 del 2011. L’atto di appello aveva specificamente dedotto che la ricorrente era stata assolta dal reato di reimpiego dei proventi dell’attività illecita del marito in attività economica (immobili e attività commerciali), ma il decreto impugnato ha eluso la censura, superando il giudicato penale favorevole senza alcun ulteriore elemento di prova.
Quanto all’immobile di INDIRIZZO la Corte di appello ha dubitato della veridicità della scrittura dei donanti solo perché resa in un contenzioso, laddove gli ascendenti della ricorrente non sono nemmeno intestatari del bene e non hanno alcun legame diretto con il proposto, mentre la sproporzione non può, da sola, costituire prova della disponibilità da parte del proposto, laddove non sono state esaminate le critiche dell’appello all’esame del perito COGNOME. I familiari della ricorrente avevano finanziato l’acquisto del primo immobile, come dimostrato dalla dichiarazione scritta risalenti al 1993 resa in sede civile.
Con riferimento agli immobili di San Giorgio a Cremano, Volla, Giugliano in Campania e alle polizze assicurative, la consulenza tecnica di parte aveva ricostruito la provvista ricavata per l’acquisto di ciascun cespite, consulenza
richiamata dalle censure proposte con l’atto di appello, ma non esaminate dal decreto impugnato.
Avverso il medesimo decreto della Corte di appello di Napoli hanno altresì proposto ricorso per cassazione, con un unico atto e attraverso il difensore e procuratore speciale AVV_NOTAIO, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, denunciando – nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. – inosservanza del d.lgs. n. 159 del 2011.
4.2. Con riferimento alla posizione di NOME COGNOME, non si sono considerate le vincite e segnatamente quella di un milione di euro del 04/11/2007, vincita completamente tracciabile di cui non si è tenuto conto.
Quanto a NOME COGNOME, la stessa ha chiarito le modalità dell’acquisto dell’immobile di INDIRIZZO e le origini della provvista, avuto riguardo, tra l’altro, a un sinistro accadutole, a una polizza assicurativa scaduta e a un finanziamento infruttifero accordatole da NOME COGNOME con scrittura privata depositata agli atti.
Con riferimento a NOME COGNOME, la somma rinvenuta su un conto corrente confiscato era frutto del versamento di due assegni da parte di un soggetto estraneo per il futuro acquisto di una proprietà.
Il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione NOME COGNOME ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi – salvo quello di NOME COGNOME – non meritano accoglimento.
Il ricorso di NOME COGNOME, le cui doglianze investono il giudizio di pericolosità ex art. 1, comma 1, lett. b), d. Igs., n. 159 del 2011 non è fondato, presentando anzi vari profili di inammissibilità. 2.1. Il primo motivo del secondo atto di impugnazione non merita accoglimento. A fronte della sovrapponibilità della norma descrittiva della figura di pericolosità attribuita al proposto nella disciplina anteriore al codice antimafia e in tale codice, la variazione ha riguardato i criteri delineati dalla giurisprudenza per riconoscere la fattispecie di pericolosità generica in questione, criteri divenuti più stringenti, sicché – ferma restando l’identità del dato normativo (non certo modificato sul punto dalle novelle del 2009 e del 2010, richiamate in termini del tutto inconferenti dal ricorrente) – l’evoluzione giurisprudenziale si è connotata in termini univocamente in bonam partem, il che esclude in radice (a differenza dell’ipotesi opposta del mutamento in malam partem) la stessa ipotizzabilità di problemi di accessibilità e prevedibilità evocati nel ricorso. 2.2. Le doglianze relative al giudizio di pericolosità articolate nel primo ricorso, nonché nel secondo motivo del secondo (e nella parte finale del primo motivo) non meritano accoglimento. , u GLYPH ‘ Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.2.1. La Corte distrettuale ha valorizzato il procedimento che ha visto il proposto condannato in via definitiva per i seguenti reati: associazione per delinquere (sorta agli inizi del 2011) finalizzata alla commissione di più delitti di usura nella consapevolezza del contributo alla realizzazione di un ampio programma delittuoso finalizzato al reimpiego in attività lecite e illecite di ingenti capitali accumulati dalla famiglia COGNOME attraverso il contrabbando di sigarette; concorso in un fatto di usura; concorso nel reimpiego di denaro illecito (600 mila euro) proveniente da NOME COGNOME, capo dell’omonimo gruppo camorristico. Richiamando la sentenza della Corte di cassazione che ha statuito l’irrevocabilità delle pronunce di condanna, il decreto impugnato rileva l’accertamento dell’attività di contrabbandiere svolta da NOME COGNOME per circa un ventennio, ossia dal 1980, accertamento messo in luce dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dalle stesse dichiarazioni intercettate del padre del
proposto NOME COGNOME che, riferendosi ai figli, sosteneva che essi avevano fatto a lungo l’attività di contrabbando senza fare un anno di carcere. Rilevava dunque la Corte distrettuale che NOME COGNOME aveva commesso per un ventennio delitto di contrabbando (1980 – 2000), poi, dopo un congruo periodo in cui, adoperando denaro illecitamente guadagnato nel periodo precedente, investiva in attività economicamente lecita, riciclaggio nel 2006 e usure nel periodo 2010 – 2013. Rilevava altresì il decreto impugnato come dagli accertamenti di merito non fosse emersa alcuna prova di qualsivoglia attività lecita svolta da NOME COGNOME.
2.2.2. Il primo ricorso erroneamente fa riferimento al solo reato associativo, laddove le deduzioni tese a contrastare gli elementi in forza del quale il decreto impugnato (e, prima ancora, i giudici di cognizione) fanno leva, in buona sostanza, sull’attività illecita del padre e sugli ingenti proventi che ne erano derivati, assumendo dunque una connotazione schiettamente congetturale, a fronte delle univoche e concordanti risultanze valorizzate dai giudici di merito nelle due diverse sedi. Il rilievo della mancata apertura di alcun procedimento nei confronti del proposto non inficia il decreto impugnato, non versandosi in ipotesi di giudicato assolutorio e, peraltro, non tenendo conto dell’epoca dei fatti per i quali si è proceduto e di quella alla quale risalgono i fatti di contrabbando emersi. Del tutto aspecifiche sono le deduzioni relative alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, richiamate anche dalla sentenza di questa Corte che ha definito il procedimento sopra richiamato. Quanto al requisito dell’abitualità, il ricorso rivela la medesima fallacia già evidenziata, ossia far riferimento al solo reato associativo e ai fatti di usura, rilievo, questo, riferibile anche alla deduzione proposta nel corpo del primo motivo del secondo ricorso.
Anche il secondo motivo del secondo atto di impugnazione non è fondato. Ben lungi dal far riferimento ad un’astratta attività di contrabbando i giudici della cognizione del processo richiamato dal decreto impugnato hanno valorizzato uno specifico accertamento fondato su puntuali dati probatori richiamati anche nel loro tenore testuale, mentre all’evidenza infondate – e, invero, prive di correlazione con le analitiche indicazione offerte dalla Corte distrettuale – sono le deduzioni circa il perimetro temporale della pericolosità accertata, laddove del tutto aspecifico e, comunque non decisivo a fronte dei dati probatori richiamati è il riferimento a un procedimento che si indica come archiviato.
2.3. Anche le censure relative all’attualità della pericolosità accertata non meritano accoglimento. Collocata la consumazione del reato associativo nel dicembre del 2013, il decreto impugnato rileva, sempre sulla scorta delle sentenze del processo di cognizione più volte richiamato, che il decesso del padre di NOME COGNOME non ne ha segnato la cessazione della pericolosità,
avendo egli continuato a mettere a frutto le risorse accumulate con le attività usurarie dedicandosi all’occultamento degli illeciti guadagni attraverso gli investimenti realizzati, anche con il trasferimenti di capitali all’estero. Il giudic di appello, dunque, ha formulato il giudizio di attualità della pericolosità sociale proiettandola, con motivazione tutt’altro che apparente, verso l’attività di reimpiego, laddove le doglianze articolate con il primo ricorso fanno riferimento all’epoca del reato associativo e al procedimento per il reato ex art. 512-bis, cod. pen., sicché le censure risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, COGNOME, Rv. 253849). Conclusione, questa, valida anche con riguardo al terzo motivo del secondo ricorso, mentre le deduzioni fondate sul sequestro e le sue vicende risultano del tutto aspecifiche.
3. Il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato.
3.1. Le doglianze incentrate sulla allegata sentenza del Tribunale di Napoli non meritano accoglimento, non risultando devolute con l’atto di appello (come, del resto, risulta dalla sintesi delle relative doglianze offerta dal decreto impugnato).
3.2. Infondate sono le censure relative alla confisca dell’immobile di INDIRIZZO, la cui conferma è stata diffusamente motivata dalla Corte distrettuale rilevando, tra l’altro, che l’attività commerciale dalla quale il padre e lo zio della ricorrente avrebbero dovuto trarre le risorse finanziare alla stessa donate per l’acquisto dell’immobile nel luglio 1982 (quando – pur non sposata con il proposto – il legame con lo stesso era già forte) in realtà risulta avviata in epoca successiva, ossia nel 1985. Il rilievo, idoneo a scardinare la tesi difensiva, è oggetto di censure di carattere sostanzialmente congetturale e, comunque, non idonee a dar conto di una motivazione meramente apparente, censura che sola potrebbe, in questa sede, inficiare il decreto impugnato, così come è oggetto di motivazione senz’altro non apparente la valutazione di non attendibilità relativa al documento prodotto in giudizio sul quale insiste il ricorso. Le ulteriori deduzioni risultano del tutto inidonee a disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o financo da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, COGNOME, Rv. 251516).
3.3. Quanto agli altri beni, il cui acquisto il ricorso giustifica anche facendo riferimento alla cessione di beni in precedenza acquistati, il giudice di appello ha rilevato che l’acquisto più risalente (l’acquisto degli immobili di San Giorgio a Cremano) non trovava giustificazione nel capitale lecito asseritamente
adoperato, in quanto anche per il valore totale dell’intervento dichiarato nell’atto registrato (circa 283 mila euro) e indicato come prodotto dal prozio della ricorrente, il decreto impugnato ritiene impossibile individuare al di là dei redditi minimi percepiti dal 1985 (tra 9 mila e 5 mila euro annui) ulteriori fonti di reddito idonee a sovvenzionare l’acquisto, tanto più che l’attività che il padre e il prozio della ricorrente avevano avviato dal 1985 aveva fatto registrare ricavi modesti e solo del 1992. Gli altri immobili (ad esempio, quello di Giugliano) erano stati acquistati, secondo le stesse deduzioni difensive, con i proventi della vendita degli immobili sopra richiamati, sicché la loro provenienza, nel discorso argomentativo del giudice di appello, non poteva dirsi lecita. Rilievo, questo, in linea con il principio di diritto in forza del quale in tema di confisca d prevenzione, una volta dimostrata la sproporzione tra redditi e investimenti, l’onere difensivo della dimostrazione della legittima provenienza di un bene non può essere assolto dalla mera allegazione di una plusvalenza derivante dalla operazione commerciale di acquisto e rivendita di altro bene di proprietà del destinatario della misura, laddove manchi la giustificazione della provenienza delle risorse utilizzate per l’acquisizione del bene stesso (Sez. 5, n. 24930 del 26/05/2022, Falletta, Rv. 283508 – 01, in una fattispecie relativa all’acquisto di immobile, avvenuta con denaro provento attività, lecita, di distribuzione di carburante, frutto, a sua volta, di un iniziale investimento di illeciti).
Il ricorso lamenta la mancata valutazione della consulenza, ma non articola deduzioni idonee a dar conto di una motivazione apparente e, invero, neppure si confronta con il ragionamento del giudice di appello e con i dati afferenti ai redditi annui e ai proventi imprenditoriali valorizzati ai fini del giudizio (parziale) infondatezza dei motivi di appello, il che rende ragione della non accoglibilità del ricorso.
Con riguardo alla pregressa attività imprenditoriale, il ricorso lamenta il mancata esame dei motivi di appello lì dove richiamavano (pag. 8) le dichiarazioni della dott.ssa COGNOME (e, segnatamente, tre pagine del verbale dell’esame del perito allegate al ricorso: pagg. 17, 18 e 19), che, secondo la prospettazione della ricorrente, smentirebbero l’assunto della Corte di appello circa l’epoca di inizio dell’attività imprenditoriale degli COGNOME. Rileva al riguardo il Collegio, per un verso, l’aspecificità della censura, che non deduce, con la necessaria puntualità, le affermazioni del perito dimostrative dell’assunto sostenuto e, per altro verso, che le dichiarazioni richiamate (tra le quali si legge una risposta del perito COGNOME secondo cui, per quanto è possibile ricostruire in questa sede, i periodi precedenti erano stati oggetto di indagine che non aveva riscontrato redditi) non assumono valenza potenzialmente decisiva ossia tale da poter determinare un esito opposto del giudizio (Sez. 6, n. 33705 del
15/06/2016, NOME, Rv. 270080). Il che rende ragione dell’infondatezza della doglianza.
I ricorsi di NOME COGNOME, di NOME COGNOME e di NOME COGNOME constano di una prima parte di carattere generale e di una seconda relativa alle singole posizioni dei ricorrenti.
4.1. La prima parte, in buona sostanza, lamenta la mancata valutazione della redditività delle attività delle società riconducibili al gruppo familiari e stessa considerazione unitaria del gruppo. Al riguardo la Corte distrettuale ha rilevato che i figli terzi intestatari sono partiti da una situazione di tota impossidenza, mutata solo ed esclusivamente in virtù del denaro illecitamente guadagnato dal proposto, sicché le acquisizioni patrimoniali sono delineate dal giudice di appello come frutto di una diretta derivazione causale dalla provvista formatasi illecitamente in capo al padre (cfr. Sez. 1, n. 12329 del 14/02/2020, COGNOME, Rv. 278700 – 01).
Le ulteriori deduzioni (sui proventi dell’amministrazione giudiziaria, sulle valutazioni generali relative al nucleo familiare) non danno corpo a censure valutabili in questa sede, mentre le ulteriori doglianze reiterano argomenti afferenti al giudizio di pericolosità del proposto già esaminati a quel riguardo.
4.2. Le doglianze proposte nell’interesse di NOME non sono fondate. La Corte distrettuale, in primo luogo, ha precisato, che il giudice di primo grado ha disposto la restituzione del 50% dell’immobile di INDIRIZZO ritenuto riferibile alle somme lecite percepite a titolo di risarcimento del danno per un sinistro stradale: il ricorso reitera il riferimento a tali somme (con le quali era stata acquisita una polizza assicurativa), ma la deduzione all’evidenza è del tutto infondata. Il decreto ha chiarito che il prestito ricevuto per il pagamento del prezzo è stato considerato, ma che non risultava la fonte lecita della somma da restituire ed effettivamente restituita; rilievo, questo, in linea con il principio diritto in forza del quale, in tema di misure di prevenzione patrimoniali, l’onere di allegazione difensiva in ordine alla legittima provenienza dei beni non può essere soddisfatto con la mera indicazione della esistenza di una provvista sufficiente per concludere il negozio di acquisto degli stessi, dovendo invece indicarsi gli elementi fattuali dai quali il giudice possa dedurre che il bene non sia stato acquistato con i proventi di attività illecita, ovvero ricorrendo ad esborsi non sproporzionati rispetto alla sua capacità reddituale posto che l’acquisto di un immobile mediante l’accensione di un mutuo non costituisce dimostrazione della legittima provenienza della provvista, dovendosi fornire la prova della disponibilità di risorse lecite e sufficienti a sostenere il pagamento delle rate mensili (Sez. 6, n. 21347 del 10/04/2018, Salanitro, Rv. 273388). Il ricorso non
scalfisce l’argomentare del decreto impugnato, limitandosi a riproporre argomenti compiutamente esaminati e disattesi.
4.3. Il ricorso di NOME COGNOME è infondato in quanto l’interessato non può dimostrare la proporzione tra redditi disponibili e valore degli acquisti e/o degli investimenti attraverso la mera indicazione e produzione degli attestati di riscossione di somme vinte al gioco in un concorso a pronostico che, in quanto rilasciati sulla base di presentazione di ricevute non nominative, certificano la sola percezione della somma, ma non il giocatore vincente che potrebbe averle cedute, anche dietro corresponsione di danaro, a chiunque avesse necessità di far apparire la liceità di una provvista (Sez. 2, n. 35646 del 12/07/2018, COGNOME, Rv. 273467).
4.4. Il ricorso di COGNOME NOME è fondata, in quanto – a fronte della doglianze proposte con l’atto di appello di cui dà conto lo stesso decreto impugnato (pagg. 6 – 7) – nessuna risposta è stata offerta dalla Corte di appello .2 +7, di Napoli, sicché nei confronti di detta ricorrente il ricorso deve essere i44:19.61~0 con rinvio alla Corte di appello di Napoli.
Pertanto nei confronti di COGNOME NOME, il decreto impugnato deve essere annullato con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Napoli.
Devono invece essere rigettati i ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, che devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla il provvedimento impugnato limitatamente a COGNOME NOME con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Napoli. Rigetta i restanti ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 01/03/2024.