Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 8053 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 8053 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a POTENZA PICENA il 12/11/1961
avverso il decreto del 22/04/2024 della Corte d’appello di Ancona Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Procuratore generale, NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME per il ricorrente, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il decreto impugnato è stato emesso il 22 aprile 2024 dalla Corte di appello di Ancona, che ha confermato quello del Tribunale della stessa città con il quale era stata disposta la confisca di prevenzione di un immobile sito in Senigallia, di proprietà di NOME COGNOME, soggetto ritenuto caratterizzato da pericolosità generica ai sensi degli artt. 4, comma 1, lett. c) e 1, comma 1, lett. b) d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 siccome ritenuto vivere abitualmente con i proventi di attività delittuose.
Il proposto ricorre avverso il decreto della Corte di appello a mezzo dei propri difensori, che hanno affidato il ricorso a quattro motivi.
2.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione dell’art. 25, comma 2, Cost. come declinato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 26 febbraio 2020. Il ricorrente sostiene che la questione debba essere esaminata benché non dedotta con i motivi di appello, trattandosi di tema che riguarda «la compatibilità del giudizio di pericolosità generica con principi di rango costituzionale, il cui rispetto è sottoposto al costante e diffuso controllo del Giudice comune e di legittimità, anche in assenza di specifica devoluzione». Fatta questa premessa, la parte assume che la decisione avversata avrebbe violato il divieto di retroattività della legge penale sfavorevole, in quanto le due ricettazioni fonte dell’accumulazione patrimoniale obiettivo della confisca si collocano nel 2005, ma, a quell’epoca, non vi era base legale per applicare la misura di prevenzione patrimoniale ai soggetti ritenuti connotati da pericolosità sociale generica laddove a questi ultimi fosse attribuito solo il reato di cui all’art. 648 cod. pen. ovvero uno degli altri reati riferiti a Spinaci, possibilità che è riemersa solo a seguito dell’abrogazione dell’art. 14 della I. 55 del 1990.
Al tempo della commissione delle due ricettazioni e degli altri reati, quindi, il proposto non poteva prevedere le conseguenze del suo operato, donde la pericolosità sociale fondata su tali fatti non potrebbe costituire presupposto per la confisca di prevenzione di cui si discute.
2.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta violazione dell’art. 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 quanto al vaglio circa la pericolosità sociale generica di Spinaci.
Secondo il ricorrente, non sarebbe stato dimostrato – come doveroso per attribuirgli il profilo di pericolosità generica ascrittogli – che le condotte criminose passate risultassero essere effettivamente fonte di profitti illeciti e in quantità congruente rispetto al valore dei beni che si intende confiscare.
Il ricorrente sostiene, in primo luogo, che i reati indicati nel decreto, benché lucrogenetici, erano perlopiù depenalizzati e che gli unici due che potevano configurare la pericolosità generica e che potevano essere ricollegati temporalmente all’acquisto dell’immobile erano le ricettazioni del 2005, mentre l’associazione era localizzata cronologicamente nel 2007 e che, dal 2009 al 2024, non vi erano state più condanne o segnalazioni. Ne conseguirebbe l’assenza di elementi per ritenere che COGNOME fosse stato abitualmente dedito ad attività illecite da cui avesse tratto i propri redditi.
In secondo luogo – prosegue l’impugnativa – non si comprende quale arricchimento il ricorrente avesse tratto dai reati oggetto delle sentenze
richiamate dalla Corte di appello e se tale arricchimento avesse costituto la parte prevalente dei suoi redditi.
Sarebbe stato onere dell’accusa – prosegue il ricorrente in un terzo paragrafo del motivo – indicare, per ogni singola condanna, le condotte tenute in concreto e provare l’incidenza dei profitti da reato sui redditi del proposto, specificando l’ammontare dei redditi illeciti e la proporzione con quelli leciti, mentre il provvedimento impugnato si era limitato a riportate gli estremi delle sentenze; lo stesso discorso vale per i reati di associazione per delinquere e commercio di prodotti contraffatti commessi nel momento del pagamento delle rate del mutuo. Non può darsi per scontato che, siccome il proposto aveva avuto un tenore di vita superiore alle proprie possibilità economiche, i guadagni derivanti da reato avessero costituito il suo reddito esclusivo o prevalente.
2.3. Il terzo motivo di ricorso deduce violazione dell’art. 24 d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 quanto al giudizio di sproporzione. I Giudici della prevenzione hanno considerato la sproporzione riguardando solo il reddito delle società partecipate da COGNOME ma non quello derivante dal complesso delle sue attività. La consulenza della difesa versata in atti aveva posto in luce che COGNOME era socio di due società di persone: quindi non andava riguardato solo il reddito dichiarato dalle società, ma doveva considerarsi anche che, in questo tipo di società, i soci possono effettuare prelievi e versamenti indipendentemente dal reddito fiscale dichiarato dall’ente. In particolare, la consulenza difensiva – per smentire il giudizio di sproporzione – aveva evidenziato che COGNOME aveva disponibilità economiche derivanti dalla restituzione di finanziamenti effettuati quale socio per importi rilevanti, importi che non dovevano essere indicati nella dichiarazione dei redditi; inoltre il ricorrente aveva dimostrato di avere percepito redditi da vendita di immobili ricevuti in eredità o a causa di risarcimento del danno.
L’argomentazione del provvedimento impugnato secondo cui non sarebbero stati dimostrati i conferimenti cui erano seguite le restituzioni a favore di COGNOME sarebbe viziata perché la parte, a distanza di anni, non può dare una prova del genere, ma ha solo un onere di allegazione, che, nel caso di specie, era stato assolto dal proposto.
Sarebbe anche sbagliato – si sostiene, ancora, nel ricorso – non aver considerato il bonifico che la società RAGIONE_SOCIALE aveva disposto a favore della COGNOME, moglie di COGNOME, nel periodo in cui era in corso il pagamento delle rate del mutuo, perché la COGNOME non è la proposta e perché l’onere di allegazione sarebbe stato soddisfatto dalla produzione documentale; anche le donazioni dei genitori della COGNOME sarebbero state entrate computabili nel quadro del giudizio di proporzione.
2.4. Il quarto motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 23, in relazione all’art. 7, comma 4-bis, d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 e dell’art. 24 Cost.
Tali norme, nell’ottica dell’incremento delle garanzie difensive stimolato dall’evoluzione giurisprudenziale sia interna che sovranazionale, avevano introdotto il diritto alla prova anche nel giudizio di prevenzione, previo scrutinio circa la rilevanza e la non superfluità e previa esclusione delle prove vietate. La violazione del disposto di cui all’art. 7, comma 4-bis d.lgs. 159 del 2011, pur non essendo presidiata da nullità, può essere sanzionata per violazione di legge processuale, suscettibile di essere dedotta anche nel giudizio di legittimità.
Nel caso di specie, sarebbe viziata la scelta di non ammettere la perizia sollecitata dal proposto sia in primo grado che nell’atto di appello per valutare le conclusioni della Guardia di Finanza circa il giudizio di sproporzione che – si legge nel ricorso «avrebbe potuto risultare utile ad incrementare la conoscenza sul punto controverso del giudizio di sproporzione dei beni al soggetto proposto».
La Corte di appello si era limitata a ritenere generiche le richieste istruttorie del proposto, mentre l’errore di calcolo compiuto dalla Guardia di Finanza e ammesso dalla Corte territoriale – che però l’aveva ritenuto irrilevante ai fini del giudizio di sproporzione – sarebbe la spia della possibilità che la p.g. avesse sbagliato anche altrove.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel suo complesso, infondato e va, pertanto, respinto.
Il primo motivo di ricorso lamenta violazione dell’art. 25, comma 2, Cost. come declinato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 26 febbraio 2020 e contesta che i reati ascritti a Spinaci fonte dell’accumulazione patrimoniale possano costituire valido presupposto per la confisca di prevenzione.
Ebbene, sulla ragione di censura così come formulata vanno svolte diverse osservazioni, che ne evidenziano l’inammissibilità.
1.1. Innanzitutto va rilevato che il ricorrente non formula eccezione di legittimità costituzionale, ma si limita a denunziare violazione dell’art. 25, comma 2, Cost.
E già questo primo aspetto tradisce una cattiva impostazione della doglianza, dal momento che, come ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 29541 del 16/7/2020, dep. il 23/10/2020, in motivazione), non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione di norme della
Costituzione (in termini, Sez. 2, n. 12623 del 13/12/2019, dep. 2020, Leone, Rv. 279059; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261551). Secondo l’autorevole precedente, l’inosservanza di disposizioni della Costituzione, non prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 cod. proc. pen., può soltanto costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale, questione che, nel caso di specie e come anticipato, non risulta proposta.
1.2. A questo limite di ammissibilità del ricorso ne è collegato un altro, ossia quello che discende dalla novità della censura. Se quella del ricorrente non è una denunzia di incostituzionalità ma, in definitiva, una doglianza di violazione di legge, allora viene in gioco altresì la regola secondo la quale non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (cfr. l’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. quanto alla violazione di legge; si vedano, con specifico riferimento al vizio di motivazione, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745 – 01; Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013, Di Domenica).
1.3. Escluso che si tratti di censura concerne un vizio deducibile, quella del ricorrente può essere al più interpretata come la sollecitazione ad un’interpretazione tassativizzante della pericolosità sociale “economica”, in linea con il monito della Consulta nella sentenza 24 del 2019. A questo riguardo, va ricordato che la Corte Costituzionale, in uno alla declaratoria di illegittimità costituzionale della ipotesi di cui alla lettera a) dell’art. 1 d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 ha affrontato – in questo atteggiandosi come sentenza interpretativa di rigetto – anche il tema della pericolosità sociale “patrimoniale” di cui alla lettera b) dell’art. 1 del d.lgs. n.159 del 2011, affermando che un’esegesi costituzionalmente conforme richiede che il Giudice della prevenzione abbia rispettato, dandone conto in motivazione, quei connotati di «tassatività» dei contenuti, già individuati da questa Corte di Cassazione negli arresti posteriori alla nota decisione Corte COGNOME COGNOME contro Italia e così riassunti dal giudice delle leggi « deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito ».
Di contro il riferimento, che si legge nel ricorso, alla sentenza della Corte cost. n. 32 del 2020 pare essere improprio, trattandosi di una decisione che riguarda aspetti del tutto diversi dall’ambito delle misure di prevenzione, ossia,
tra le altre cose, l’irretroattività del divieto di accesso alle misure alternative alla detenzione per i condannati per alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione e la non applicabilità della sospensione dell’esecuzione della pena in costanza di decisione del Tribunale di sorveglianza sulle medesime.
1.4. Se quanto sopra già basterebbe per ritenere inammissibile il ricorso, non può tacersi che le ragioni della censura sono manifestamente infondate allorché invocano l’irretroattività della disposizione attualmente vigente, che consente la confisca di prevenzione per la categoria di pericolosità sociale a cui appartiene COGNOME anche per i reati lucrogenetici che gli sono attribuiti.
In questa direzione milita la pacifica applicazione, alla confisca di prevenzione, delle regole che presidiano l’applicazione delle misure di sicurezza (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262602 – 01) – e non già di quelle che riguardano le sanzioni penali – e quindi dell’art. 200 cod. pen., secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione. D’altra parte l’attualità di un’esegesi che segna una netta distinzione tra confisca di prevenzione e sanzione penale è confortata anche dalla recentissima – successiva alla decisione – pronunzia della prima sezione della Corte edu nella sentenza COGNOME contro Italia del 13 febbraio 2025, che ha negato l’assimilazione della confisca di prevenzione alle sanzioni penali e che ha escluso, di conseguenza, l’applicabilità alla prima della regola del nullum crimen sine lege di cui all’art. 7 CEDU.
La conseguenza che si trae dai principi appena richiamati è che, se la disciplina applicabile è quella dell’art. 200 cod. pen., essa legittima la possibilità di ordinare la confisca di prevenzione per i soggetti gravati da pericolosità sociale generica patrimoniale senza limitazione quanto al novero dei reati da cui tale pericolosità può essere evinta. Il principio sancito da Sezioni Unite COGNOME, infatti, reca come naturale corollario quello secondo cui deve trovare applicazione la legge vigente al momento della decisione, anche se – per taluni aspetti – peggiorativa del trattamento giuridico della persona destinataria, rispetto al momento in cui costui avrebbe, in ipotesi, tenuto la condotta fonte dell’ablazione patrimoniale. In questo senso ed in un caso nel quale, appunto, si poneva un problema analogo a quello prospettato nel ricorso sub iudice sia pure in tema di nuova applicazione della misura di prevenzione dopo un precedente rigetto – si è espressa Sez. 1, n. 13375 del 20/09/2017, dep. 2018, COGNOME Rv. 272701 – 01, secondo cui «In tema di misura di prevenzione patrimoniale, le decisioni di rigetto di proposte di confisca, emesse ai sensi dell’art. 14 legge 19 marzo 1990, n. 55 allora vigente, non ostano alla trattazione, in epoca successiva alla emanazione del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. in legge 24 luglio 2008, n. 125, che ha abrogato detta norma, di un nuovo
procedimento, all’esito del quale possono essere oggetto di confisca beni riferibili al soggetto portatore di pericolosità cd. generica relativamente a reati – come, ad esempio, il reato di rapina – in precedenza non inclusi tra quelli presupposto di tale provvedimento».
Il secondo motivo di ricorso può essere scisso in due parti.
Prima di proseguire, tuttavia, è necessaria una premessa in diritto, per segnare i limiti dello scrutinio della Corte di cassazione sui temi critici prospettati dal ricorrente.
2.1. Fatta questa premessa, si osserva che, nella prima parte del secondo motivo di ricorso, il ricorrente contesta precipuamente il vaglio circa la pericolosità generica economica che gli è stata attribuita, dubitando che fosse stato dimostrato – come doveroso per attribuirgli il profilo di pericolosità generica ascrittogli – che le condotte criminose passate risultassero essere effettivamente fonte di profitti illeciti e in quantità congruente rispetto al valore dei beni che si intende confiscare.
Questa prima doglianza è inammissibile per varie, concorrenti ragioni.
2.1.1. In primo luogo, l’appello era aspecifico rispetto alla puntuale elencazione che si apprezzava nel decreto di primo grado quanto alle condanne subite da Spinaci nel periodo di tempo di interesse, per tale intendendosi non solo l’anno dell’acquisto dell’immobile confiscato (2005), ma anche quelli successivi, nei quali il proposto era gravato del debito verso la banca erogatrice del mutuo che aveva coperto una parte del prezzo. Il provvedimento di prime cure, inoltre, recava precisi dati che davano conto della portata economica dell’attività illecita del proposto, contenendo la specificazione, per esempio, che la ricettazione del 12 gennaio 2005, cruciale rispetto al pagamento della prima tranche del prezzo di acquisto del bene, riguardava ben 880 borse provento di furto e che i reati fine dell’associazione per delinquere – associazione che andava dal 2007 al 2009 – aveva avuto ad oggetto migliaia e migliaia di capi di abbigliamento.
L’appello, di contro, non era specifico rispetto agli indicatori riportati nel provvedimento di primo grado, giacché contestava genericamente la portata lucrogenetica solo di alcuni reati, violando, così, il dovere di specificità dell’appello da tempo richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, rv. 268822) e oggi recepito nella disposizione di cui all’art. 581, comma 1-bis, cod. proc. pen. frutto della novella di cui al d.lgs 150 del 2022. Il difetto di impostazione dell’appello ha un preciso riverbero sull’ammissibilità del ricorso, dal momento che questa Corte può rilevare l’inammissibilità dell’impugnazione di merito ora per allora, a prescindere dalle determinazioni del Giudice a quo; e ciò può fare in virtù del principio generale secondo cui l’inammissibilità dell’impugnazione non rilevata dal giudice di secondo grado deve essere dichiarata dalla Cassazione, quali che siano state le determinazioni cui detto giudice sia pervenuto nella precedente fase processuale, atteso che, non essendo le cause di inammissibilità soggette a sanatoria, esse devono essere rilevate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, cit., in motivazione; Sez. 3, n. 20356 del 02/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 281630 – 01; Sez. 3, n. 35715 del 17/09/2020, COGNOME, Rv. 280694 – 04; Sez. 2, n. 40816 del 10/07/2014, COGNOME, Rv. 260359; Sez. 4, n. 16399 del 03/10/1990, COGNOME, Rv. 185996; Sez. 1, n. 3462 del 24/09/1987, Mozzillo, Rv. 176912). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.1.2. In disparte questa che sarebbe una considerazione già di per sé assorbente, deve anche rilevarsi – a smentire l’idea che si verta in un difetto motivazionale così grave da rientrare nel novero dei vizi deducibili nel giudizio di legittimità in materia di misura di prevenzione – che il provvedimento impugnato è munito di una motivazione sufficiente a far ritenere adempiuto il dovere argomentativo del Giudice della prevenzione, dal momento che contiene
il richiamo e l’elencazione dei reati lucrogenetici temporalmente correlati all’acquisto dell’immobile ed al pagamento del relativo prezzo.
2.2. In una seconda parte, il motivo di ricorso in esame lamenta che la Corte distrettuale non avrebbe indicato, reato per reato, quale sarebbe stata l’incidenza dei proventi dal medesimo ricavabili rispetto alle entrate lecite.
Ebbene, da questo punto di vista il ricorso sconta la non specificità dell’appello e, comunque, è anch’esso aspecifico nella misura in cui trascura la densa indicazione che si legge nel decreto impugnato quanto ai plurimi precedenti lucrogenetici (meglio specificati nel decreto di primo grado), la cui elencazione è dotata di un’autoevidenza dimostrativa che può costituire base argomentativa sufficiente a suffragare la prova circa l’esistenza di una presunzione di illecita accumulazione (utile per ricondurre COGNOME al tipo di pericolosità che rileva nella specie) in capo al ricorrente, rispetto alla quale il proposto nulla allega, se non espressioni generiche e dubitative.
Il terzo motivo di ricorso – che contesta il giudizio di sproporzione – è, nel suo complesso, infondato.
Il principio che deve guidare la decisione del Collegio è quello – pure sancito dalle già ricordate Sezioni Unite COGNOME – secondo cui spetta alla parte pubblica l’onere della prova della sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituale del soggetto nonché della illecita provenienza dei beni, dimostrabile anche in base a presunzioni, mentre è riconosciuta al proposto la facoltà di offrire prova contraria (in termini, Sez. 2, n. 3883 del 19/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278679 – 03).
Tanto premesso, il ricorso patisce, in parte, una mancanza di confronto critico con l’affermazione della Corte di appello circa il fatto che tutti bonifici/restituzioni delle somme dalle società al proposto erano successivi al 2007, quindi comunque essi non spiegherebbero il pagamento di 100.000 euro quale parte del prezzo, avvenuto nel 2005.
Per il resto, il ricorso è infondato, in quanto il ragionamento della Corte di merito non è mancante o apparente, dal momento che ha valorizzato la circostanza che, dato il tipo di pericolosità che caratterizzava Spinaci in quel periodo, tutto ciò che era entrato nel suo patrimonio si presumeva di provenienza illecita, presunzione non vinta dalle allegazioni di parte. Allegazioni che – quanto ai prelievi di somme dalle società – non avevano dimostrato che le presunte restituzioni di finanziamenti dei soci corrispondessero a pregressi conferimenti e che quelle somme – sia quelle ricevute da COGNOME, che quelle entrate nel patrimonio della COGNOME – non provenissero comunque dall’attività ilecita. A questo riguardo si osserva che il decreto di primo grado aveva
neutralizzato la portata liberatoria dei bonifici Oltremare affermando che si trattava di società attraverso la quale COGNOME aveva svolto parte della sua attività illecita – donde i relativi guadagni erano comunque frutto di attività illecita – e che, anche su questo aspetto, l’appello taceva.
Peraltro ci sono altri due argomenti che il Tribunale – non contrastato specificamente dall’appello – aveva adoperato per escludere la valenza delle allegazioni del proposto, vale a dire che, se anche le somme ricevute dalle società costituissero la restituzione di precedenti finanziamenti, da una parte non si comprendeva da dove il proposto avesse tratto la relativa provvista e, dall’altra, comunque, ripianando un precedente esborso, non costituivano entrate lecite da considerare nel giudizio di sproporzione.
In ordine alle altre entrate (eredità, risarcimento del danno) il ricorso, infine, è generico, in quanto non vi dedica specifiche argomentazione critiche.
Il quarto motivo di ricorso – che denunzia violazione di legge perché sarebbe viziata la scelta della Corte di appello di non ammettere la perizia sollecitata dal proposto sia in primo grado che nell’atto di appello – è inammissibile per due ragioni.
In primo luogo, la richiesta istruttoria contenuta nell’atto di appello era generica.
In secondo luogo, è generico anche il ricorso per cassazione perché non spiega le ragioni per le quali, pur a fronte delle argomentazioni della Corte di appello, sarebbe stata necessaria la perizia.
Il ricorso va, pertanto, rigettato, dal che consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 4/2/2025
Il Consigliere estensore
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