Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 11197 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 11197 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato il DATA_NASCITA
avverso il decreto del 05/04/2023 della CORTE APPELLO di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME COGNOME; lette/sETRTre le conclusioni del PG
Letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che chiede il rigetto dei ricorsi e la condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, con decreto in data 20 gennaio 2020, nell’applicare la misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di anni tre con obbligo di soggiorno nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME, disponeva la confisca del capitale sociale e dell’intero patrimonio aziendale di alcune società, tra cui la RAGIONE_SOCIALE, ritenendoli beni riferibili a NOME COGNOME.
Avverso detto decreto proponeva appello in relazione alla confisca di detta società RAGIONE_SOCIALE.
La Corte di appello di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, con decreto del 16 settembre 2021, dichiarava inammissibile l’appello, avendo invero l’appellante agito non già in proprio per la restituzione delle quote della società RAGIONE_SOCIALE, ma quale legale rappresentante di quest’ultima, carica che, a seguito della confisca della totalità delle quote, del subingresso dell’amministratore giudiziario e della nomina di un nuovo amministratore, non le apparteneva più.
La Quinta sezione di questa Corte, con sentenza in data 13 luglio 2022, non riteneva fondata la dichiarazione di inammissibilità, annullando sul punto il decreto e invitando conseguentemente altra sezione della medesima Corte di appello ad esaminare nel merito l’atto di appello. Osservava, invero, che, anche se NOME COGNOME avesse chiesto la restituzione di tutte le quote, questo non avrebbe connotato il ricorso come proveniente dal legale rappresentante, non appartenendo lie quote alla società ma ai loro titolari, ma al più vi sarebbe stato un difetto di legittimazione (per il 41 °A) delle quote, non appartenente all’interessata), siccome le quote andavano restituite a chi ne era titolare al momento del sequestro.
La Corte di appello di Roma, in sede di rinvio, col decreto in esame ha ritenuto infondato l’appello di NOME COGNOME, confermando la confisca disposta.
NOME COGNOME propone ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore.
Cu
2.1. Col primo motivo di impugnazione viene denunciata violazione dell’art. 24 d. Igs. 6 settembre 2011, n. 159.
Rileva la difesa che il criterio ricostruttivo della sproporzione vale solo per il proposto e non per il terzo e l’incapacità patrimoniale del terzo non è requisito autonomo della confisca, ma solo un elemento neutro che rileva per l’intestazione fittizia in presenza di NOME indici di riferibilità al proposto.
Lamenta, quindi, che la Corte di appello ha posto a fondamento della confisca due dati fattuali e precisamente la mancanza di certezza in ordine alla provenienza lecita delle somme utilizzate per l’acquisto, con mezzi tracciati (bonifici), delle quote della RAGIONE_SOCIALE e le anomalie c:ontabili di detta società, nella prospettiva di detta Corte funzionali ad asserire l’elemento della sproporzione, i quali, però, non rilevano ai fini dell’integrazione del requisito oggettivo della confisca rappresentato dalla riconducibilità della società al proposto.
Rileva il difensore che il terzo dato fattuale affermato nell’impugnato provvedimento, ossia la ritenuta riconducibilità della RAGIONE_SOCIALE al RAGIONE_SOCIALE COGNOME, si basa sulle dichiarazioni dei collaboratori NOME COGNOME e NOME COGNOME, che, però, rappresentano fatti che non coincidono con i presupposti applicativi della confisca e sono collocati nel 2011-2012. Invero, osserva il difensore che: – i suddetti non attestano la gestione della sala giochi da parte degli COGNOME, ma, sino al 2016, da parte di tale COGNOME NOME (“NOME“), soggetto assolto dal delitto ex art. 416-bis cod. pen. e, quindi, non organico al RAGIONE_SOCIALE; – la conversazione intercettata il 24 marzo 2017, dopo un anno e mezzo dalla cessione del suddetto ramo d’azienda alla RAGIONE_SOCIALE, non documenta la permanente disponibilità dell’impresa da parte dei proposti, ma al più un interessamento di NOME COGNOME all’attività svolta dai cinesi, non sussumibile nell’effettiva ed autonoma disponibilità di fatto del proposto.
Osserva che l’ultimo dato fattuale e precisamente la chiusura dell’attività, con provvedimento ex art. 100 TULPS, per la frequentazione della sala giochi da parte di pregiudicati, nel corso del 2017, non è significativo, non riguardando eventuali cointeressenze degli COGNOME in detta attività.
Conclude la difesa per la difformità del dato fattuale valorizzato dalla Corte di appello rispetto ai requisiti astratti di cui al summenzionato art. 24.
2.2. Col secondo motivo di ricorso viene denunciata violazione degli artt. 7, comma 1, 10, comma 2, d. Igs. 6 settembre 2011, n. 159, 125, comma 3, cod. proc. pen. e 111, comma 3, Cost.
La difesa si duole di una motivazione apparente anche per il mancato confronto con le deduzioni difensive formulate con le memorie, l’appello, i motivi aggiunti e le consulenze tecniche di parte. Rileva che il provvedimento impugnato motiva solo sull’incapienza patrimoniale del terzo, di per sé dato neutro, omettendo ogni indicazione circa il ragionamento per il quale tale incapienza si legherebbe in modo unitario alla disponibilità uti dominus di fatto del bene da parte del proposto. Sottolinea che, diversamente da quanto argomentato dalla Corte di appello, sono inconferenti: 1) la mancata dimostrazione della lecita origine del denaro investito, dovendosi, invero, ritenere sufficiente, per la qualità di terzo della ricorrente, la prova, offerta, di un’effettiva provvista finanziaria, realmente e concretamente utilizzata per il pagamento con mezzi tracciati (bonifici) delle rate mensili da sedicimila euro per l’acquisto del ramo d’azienda RAGIONE_SOCIALE da parte della RAGIONE_SOCIALE; 2) le anomalie contabili nei bilanci della RAGIONE_SOCIALE, avendo, invero, il consulente tecnico di parte offerto spiegazione ci dette anomalie, basata sull’aggio, e della incongruenza finanziaria tra sommatoria dei versamenti in contante sul conto corrente ed i ricavi registrati, rilevando che la Corte di appello non tiene conto dei “borderò” contabili. Lamenta che, a fronte delle deduzioni difensive fondate sugli esiti della consulenza tecnica di parte, il decreto impugnato contiene affermazioni tautologiche ed apodittiche.
La difesa rileva che il decreto impugnato, oltre ad essere connotato da apparenza motivazionale in relazione alla giustificazione dell’elemento fattuale della sproporzione reddituale, è, altresì, ‘connotato da apparenza motivazionale circa l’elemento costitutivo della riconducibilità della RAGIONE_SOCIALE al proposto. In primo luogo, evidenzia la mancanza di valutazione sulla credibilità soggettiva e sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori di giustizia, le cui informazioni risultano, altresì, apprese de relato senza indicazione della fonte, in contrasto con il disposto dell’art. 195 cod. proc. pen., e sul nesso inferenziale tra quanto dagli stessi riferito e il fatto ignoto da dimostrare, ossia la disponibilità della società in capo ai proposti. A tale riguardo osserva come non sia chiarito nel provvedimento in esame il legame tra il soggetto chiamato “NOME“, ossia NOME COGNOME, e gli COGNOME, e non si comprenda
dal tenore dello stesso se costui sia stato un mero prestanome o un vero gestore per conto degli COGNOME. Si duole il difensore che gli elementi che erano valsi alla sua assoluzione nel processo cli cognizione siano stati rivalutati come rilevanti ai fini del collegamento di fatto tra il suddetto e gli COGNOME. Lamenta la difesa che la Corte di appello, al pari del Tribunale, omette di indicare quale sia il nesso di consequenzialità tra la mera richiesta di COGNOME nell’ambito della conversazione del 24 marzo 2017 e una gestione uti dominus della sala giochi; e che con riferimento al provvedimento sospensivo ex art. 100 TULPS si limita ad afFermare apoditticamente che trattasi si ulteriore elemento per la riconducibilità della sala giochi ad ambienti criminali.
Rileva il difensore che, alla luce di tali considerazioni, va annullato il decreto impugnato e vanno adottati i conseguenti provvedimenti.
La difesa deposita, tramite EMAIL, memoria di replica alla requisitoria del AVV_NOTAIO generale, ripercorrendo i motivi di ricorso e insistendo sulla loro infondatezza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
Va, invero, premesso che l’assetto normativo in tema di sindacabilità della motivazione dei provvedimenti emessi in materia di misure di prevenzione – personali e patrimoniali – è rimasto ancorato al profilo della «assenza» di motivazione, posto che il Giudice delle leggi ha dichiarato la infondatezza (sentenza numero 106 del 15 aprile 2015) della questione di legittimità costituzionale che era stata sollevata – sul tema dalla V Sezione Penale di questa Corte di legittimità in data 22 luglio 2014.
Resta fermo, pertanto, il criterio regolatore secondo cui il ricorso per cassazione in tema di decisioni emesse in sede di prevenzione non ricomprende – in modo specifico – il vizio di motivazione (nel senso della illogicità manifesta e della contraddittorietà), ma la sola violazione di legge (art. 4, comma 11, legge n. 1423 del 1956 / art. 10, comma 3, d. Igs. n. 159 del 2011).
Da ciò, per costante orientamento di questa Corte, deriva che è sindacabile la sola «mancanza» del percorso giustificativo della decisione, nel senso di redazione di un testo del tutto privo dei requisiti minimi di
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coerenza, completezza e logicità (motivazione apparente) o di un testo del tutto inidoneo a far comprendere l’itinerario logico seguito dal giudice (tra le altre, Sez. I, 26.2.2009, Rv. 242887).
Infondato è il primo motivo di impugnazione (violazione dell’art. 24 d. Igs. 6 settembre 2011, n. 159), facendo il provvedimento impugnato corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte in materia di confisca di prevenzione in danno di terzi.
Va, invero, osservato che in tema di misure di prevenzione patrimoniali, il concetto di disponibilità indiretta non può ritenersi limitato alla mera relazione naturalistica o di fatto col bene, ma va esteso, al pari della nozione civilistica del possesso, a tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricada nella sfera degli interessi economici del proposto, ancorché il medesimo eserciti il proprio potere sui di esso per il tramite di NOME (Sez. 1, n. 18423 del 22/03/2013, COMMiSSO e NOME, Rv. 257394; Sez. 1, n. 6613 del 17/01/2008, COGNOME e NOME, Rv. 239359; Sez. 6, n. 398 del 23/01/1996, COGNOME e NOME, Rv. 205028).
Non può, però, porsi a carico del terzo, ritenuto fittizio intestatario dei beni oggetto della richiesta di confisca, l’onere probal:orio di dimostrazione della legittima provenienza delle risorse utilizzate per gli acquisti, non essendo egli, per definizione, il soggetto portatore di pericolosità, poiché il primo passaggio della dimostrazione della scissione tra titolarità formale del bene e impiego delle risorse spetta comunque alla pubblica accusa (Sez. 5, n. 8984 del 19/01/2022, Celentano, Rv. 283979 – 02; conformi: Sez. 1, n. 13375 del 20/9/2017, dep. 2018, Brussolo, Rv. 272703, secondo cui non può porsi a carico del terzo, ritenuto fittizio intestatario dei beni oggetto della richiesta di confisca, l’onere di fornire allegazioni specifiche sulla propria capacità produttiva di reddito in tempi molto remoti, che eccedano la ragionevole indtazione dell’attività svolta all’epoca o di eventi specifici che abbiano determinato un incremento delle entrate, spettando all’accusa la produzione degli elementi dimostrativi della sproporzione tra il reddito e il patrimonio e della provenienza delle risorse impiegate per gli acquisti dal soggetto portatore di pericolosità; Sez. 2, n. 18569 del 12/03/2019, COGNOME, n.m., secondo cui il terzo interessato non è gravato da alcun onere probatorio, ma ha, tuttavia, un onere di allegazione che consiste nel confutare la tesi accusatoria, secondo la quale egli è un mero intestatario formale, ed indicare elementi fattuali che dimostrino che quel bene è di sua esclusiva
proprietà e nella sua esclusiva disponibilità, visto che tale profili° incide sulla confisca).
Dunque, all’accusa compete la produzione degli elementi dimostrativi della sproporzione tra il reddito e il patrimonio e della provenienza delle risorse impiegate per gli acquisti dal soggetto portatore di pericolosità, mentre sul terzo grava un onere di allegazione di fatti, situazioni, eventi che ragionevolmente e plausibilmente siano atti ad indicare la lecita provenienza dei beni oggetto di richiesta di misura patrimoniale e siano, ovviamente, riscontrabili.
L’assunto della provenienza illecita del patrimonio deve pur sempre essere la risultante di un processo dimostrativo che si avvalga anche di presunzioni, affidate ad elementi indiziari, purché connotati da necessari coefficienti di gravità, precisione e concordanza. Ciò, è stato, invero, evidenziato già da Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, COGNOME, che in motivazione sottolinea che: – solo ove sia stata introdotta in modo congruo la tesi della fittizietà della intestazione è necessario, per il soggetto inciso, attivarsi in chiave di allegazione contraria; l’onus probandi a carico di detto soggetto non è certamente calibrato sui canoni di uno statuto probatorio rigoroso e formale, modulato su quello vigente in materia petitoria, sì da assurgere, in determinati casi, al rango di probatio diabolica; per il suo assolvimento, infatti, è sufficiente la mera allegazione di fatti, situazioni o eventi, che ragionevolmente e plausibilmente siano atti ad indicare la lecita provenienza dei beni oggetto di richiesta di misura patrimoniale e siano, ovviamente, riscontrabili.
Resta, pertanto, confermata la linea interpretativa secondo cui in tema di provvedimenti di natura patrimoniale correlati all’applicazione di misure di prevenzione, incombe sull’accusa l’onere di dimostrare rigorosamente, ai fini del sequestro e della confisca di beni intestati a terzi, l’esistenza di situazioni che avallino concretamente l’ipotesi del carattere puramente formale di detta intestazione, funzionale alla esclusiva finalità di favorire il permanere del bene in questione nella effettiva ed autonoma disponibilità di fatto del proposto; disponibilità la cui sussistenza, caratterizzata da un comportamento uti dominus del medesimo proposto, in contrasto con l’apparente titolarità del terzo, dev’essere accertata con indagine rigorosa, intensa ed approfondita, avendo il giudice l’obbligo di spiegare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia sulla base non di sole circostanze sintomatiche di spessore indiziario, ma di elementi fattuali connotati dai requisiti della
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gravità, precisione e concordanza ed idonei, pertanto, a costituire prova indiretta dell’assunto che si tende a dimostrare (ex multis, Sez. 1, n. 6279 del 10/11/1997, COGNOME e NOME, Rv. 208941).
Inoltre, di recente, si è affermato che la attuale caratterizzazione delle misure di prevenzione patrimoniali come strumento di inibizione della pericolosità «trasferita» al bene in forza della ragionevole constatazione di una sua «genesi illecita» (il bene entra nel patrimonio occulto del soggetto pericoloso e rappresenta una proiezione della sua pericolosità sociale, se ed in quanto immobilizza delle risorse di provenienza illecita, correlate alle attività contra legem del proposto) impone di riempire di ulteriore significato la espressione legislativa «disponibilità», nel senso che impone di dimostrare, in chiave di c:onfisca, che quel bene rappresenta un impiego di risorse provenienti dal soggetto pericoloso e non dall’intestatario formale. Dunque, a fronte del dato rappresentato dalla formale intestazione del bene immobile e da un «sospetto» di fittizietà è necessario comprendere – quantomeno con serietà probatoria tale da dissipare ipotesi alternative sostenibili – se l’impiego delle risorse economiche, per l’acquisto, la realizzazione, le migliorie, sia avvenuto ad opera del soggetto pericoloso (con legittimità, in tal caso, della confisca) o meno (con dovere di restituzione). Il titolare formale, peraltro, non è soggetto su cui gravi un dovere di dimostrare la buona fede al momento dell’acquisto, non essendo un soggetto che invochi la tutela di un diritto di credito, ma può limitarsi ad allegare circostanze di fatto che appaiano tese a convalidare la «coincidenza» tra l’intestazione formale e l’impiego di risorse proprie o comunque diverse da quelle provenienti dal soggetto pericoloso (dunque la «realtà» dell’acquisto). Il titolare formale, che impieghi risorse «proprie» per l’acquisto del bene è dunque immune da provvedimento di confisca (anche se, in ipotesi, fosse consapevole del fatto che il venditore è soggetto pericoloso) perchè tale condizione (l’acquisto reale a titolo oneroso) spezza il nesso di riferibilità del bene alla persona pericolosa, con le conseguenze prima evidenziate (Sez. 1, n. 42238 del 18/05/2017, COGNOME e NOME, Rv. 270974).
E’ evidente, peraltro che in tale delicata indagine, al di là dell’operare o meno delle presunzioni di cui all’art. 26 del summenzionato decreto legislativo, rileva soprattutto l’analisi economica della capacità reddituale dell’intestatario ipotizzato come formale titolare, posto che la sproporzione tra il valore di un bene o di un’attività economico-finanziaria
ed il reddito del terzo intestatario costituisce un indice sintomatico della fittizietà di tale intestazione (Sez. VI n. 46500 del 19/09/2017, Vinci e terzi interessati, nonchè Sez. 6, n. 43446 del 15/06/2017, COGNOMENOMEe NOME, Rv. 271222-01, ove si è affermato che in tema di sequestro e confisca di prevenzione, il rapporto esistente tra il proposto e il coniuge, i figli e gli NOME conviventi costituisce, pur al di fuori dei casi delle specifiche presunzioni di cui all’art. 2- ter, comma 13, legge n. 575 del 1965 – ora art. 26, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 -, circostanza di fatto significativa della fittizietà della intestazione di beni dei quali il proposto non può dimostrare la lecita provenienza, quando il terzo familiare convivente, che risulta finalmente titolare dei cespiti, è sprovvisto di effettiva capacità economica) . Tuttavia, tale analisi non può – ci fatto trasferire sul terzo un vero e proprio onere probatorio di dimostrazione compiuta della legittima provenienza delle risorse utilizzate per gli acquisti, atteso che il terzo, per definizione, non è il soggetto portatore di pericolosità ed il primo passaggio della catena dimostrativa – in punto di dimostrazione della scissione tra titolarità formale del bene ed impiego delle risorse – spetta, come si è detto, alla pubblica accusa.
Orbene, la Corte di appello di Roma, lungi dall’incorrere nella violazione del summenzionato art. 24, argomenta conformemente ai principi di diritto appena esaminati sulla disponibilità indiretta da parte di NOME COGNOME della società RAGIONE_SOCIALE (e in particolare del ramo aziendale acquisito dalla RAGIONE_SOCIALE che si occupava della gestione di una sala giochi ubicata in Ostia) e, quindi, sulla fittizietà dell’intestazione di detta società in capo alla ricorrente.
Premette, reiterando la ampia ricostruzione dei fatti contenuta nel decreto del Tribunale, che: – in data 5 agosto 2015 la RAGIONE_SOCIALE rappresentata da NOME COGNOME costituiva con la cittadina cinese Qiu RAGIONE_SOCIALE la RAGIONE_SOCIALE (NOME era titolare dell’1°/0 delle quote e quest’ultima del 99%) che, dopo alcuni mesi, rilevava il ramo d’azienda della RAGIONE_SOCIALE per sostituirsi alla stessa nella gestione della sala giochi ubicata in Ostia; – 1’8 marzo 2016 la società RAGIONE_SOCIALE cedeva le proprie quote di partecipazione a NOME COGNOME, figlio della suddetta, mentre NOME COGNOME acquistava I’l % del capitale della RAGIONE_SOCIALE , divenendo socio di minoranza; – dal 2015 al 2018, come segnalato dall’amministratore giudiziario, vi furono anomalie in merito a quanto transitato sul conto “cassa contanti”; – tale conto era stato sempre negativo e solo il 31 dicembre 2015 veniva registrata la fattura 1/2015 emessa alla RAGIONE_SOCIALE
per euro 115.818,86 che consentiva alla società di sistemare il saldo cassa negativo; – negli anni successivi, 2016-2018, i saldi cassa negativi venivano “aggiustati” prima della data del 31 dicembre in modo da risultare pari a zero; – non si poteva, pertanto, ritenere che i flussi finanziari documentati dalla RAGIONE_SOCIALE, utilizzati per pagare il prezzo del ramo d’azienda acquistato da RAGIONE_SOCIALE per un importo di euro 421.000,00 avessero origine dalla gestione economica dell’impresa, attesa la totale inattendibilità della contabilità sociale, in quanto, in presenza di un saldo del denaro di cassa negativo negli anni 2015, 2016, 2017 e 2018, venivano accertati versamenti di denaro contante sul conto corrente bancario privi di una giustificazione o documentazione contabile a supporto; – alla data in cui veniva eseguito il decreto di sequestro (11 ottobre 2018) il saldo contabile di cassa della RAGIONE_SOCIALE era pari ad euro 55.546,16, a fronte di una liquidità rinvenuta in sede di immissione in possesso da parte dell’amministrazione giudiziaria pari ad euro 167.579,60, di cui euro 99.410,00 in banconote detenute in contanti all’interno della cassaforte; – nell’informativa del 21 novembre 2019 la Guardia di Finanza accertava che il denaro contante confluito sul conto aziendale della RAGIONE_SOCIALE era pari ad euro 244.937,19, ossia superiore ai ricavi dichiarati pari ad euro 115.821,00; – ciò alla luce di una capacità patrimoniale di NOME NOME e di NOME non compatibile con i risultati economici conseguiti dalla società negli anni 2016 e 2017; – la Guardia di Finanza rilevava, inoltre, che dall’estratto conto di detta società emergevano versamenti di denaro contante da parte di NOME COGNOME, il quale non rivestiva alcun ruolo che lo potesse formalmente autorizzare ad effettuare siffatti versamenti sul conto di una società dove potevano operare solo i suddetti; – dalla stessa informativa era evidenziata la riconducibilità della società RAGIONE_SOCIALE a NOME COGNOME.
La Corte di appello di Roma, ritenendo infondati i rilievi contenuti nell’atto di appello di COGNOME e nei motivi aggiunti presentati nell’interesse della predetta terza interessata, osserva, invero, in primo luogo, che manca ogni valida giustificazione circa la provenienza delle risorse utilizzate dalla suddetta per l’acquisizione del ramo di azienda della RAGIONE_SOCIALE (al prezzo di euro 485.000) e per la costituzione della RAGIONE_SOCIALE
Sottolinea, a tale riguardo, che, a seguito della consulenza di parte allegata alla memoria difensiva, l’amministratore giudiziario di detta società replicava evidenziando come, pur risultando vero che i pagamenti
in favore della RAGIONE_SOCIALE relativi alla cessione del ramo di azienda erano stati effettuati con mezzi tracciati (bonifici), non fosse possibile verificare la provenienza “lecita” dei flussi finanziari utilizzati per adempiere alle obbligazioni contrattuali assunte. Rileva detta Corte, muovendo dalle valutazioni di detto amministratore, che la tracciabilità dei mezzi di pagamento utilizzati non dimostra la fonte di provenienza delle suddette somme, anche in considerazione del fatto che la ricorrente, arrivata in Italia nel 1998, per vari anni risulta non avere presentato alcuna dichiarazione dei redditi ovvero presentato dichiarazioni per un ammontare pari a “0” o di circa euro 10.000/20.000 ma solo per gli anni 2000, 2001 e 2003 ( e non diverse erano state le dichiarazioni dei familiari della stessa, a cominciare dal figlio-socio). Aggiunge che, sulla base di quanto rilevato dai militari e dall’amministratore giudiziario, da subito nei bilanci della RAGIONE_SOCIALE erano presenti numerose anomalie contabili, non superate dalla documentazione prodotta dalla difesa (scrittura privata allegata a memoria difensiva, priva di data certa, a giustificazione della fattura NUMERO_DOCUMENTO.NUMERO_DOCUMENTO emessa dalla RAGIONE_SOCIALE alla società RAGIONE_SOCIALE). E tra esse anche il mancato pagamento delle ultime quattro rate per la cessione del summenzionato ramo d’azienda’ per un importo pari a 64.000,00 euro; o, ancora, anomalie circa gli apporti di capitale da parte dei soci tramite l’utilizzo del conto cassa contante e, quindi, in assenza di una fonte certa di individuazione della loro provenienza; o, infine, costituite dai versamenti di denaro contante da parte di tale NOME COGNOME (zio di NOME COGNOME, condannato nel processo a carico del RAGIONE_SOCIALE e comunque risultato legato a NOME COGNOME, avendo costituito con il medesimo una società di cui era legale rappresentante) privo di ruoli nella società di cui alla confisca che giustificassero detti versamenti.
Osserva la Corte di appello che non può condividersi la tesi difensiva secondo cui l’incongruenza tra ricavi e versamenti/accreditamenti era spiegabile con gli “aggi” ovvero con l’effettivo ricavo trattenuto dall’esercente, non risultando dalla contabilità della RAGIONE_SOCIALE l’operazione c.d. di “ribalto costi” ovvero che la fattura unica emessa il 31 dicembre 2015 “provento giochi” fosse inclusiva di tutti gli aggi maturati dal primo novembre al 31 dicembre 2015. Aggiunge detta Corte che anche il tentativo di giustificare la liquidità di cassa rinvenuta e/o comunque il pagamento delle rate da parte della RAGIONE_SOCIALE in favore della RAGIONE_SOCIALE, sulla base del contratto di cessione di azienda stipulato
dalla RAGIONE_SOCIALE (il primo marito della ricorrente), mediante pagamento di 40 rate mensili dal novembre 2015, non può essere ritenuto idoneo a fondare un diverso convincimento, attesa la sproporzione di importi, risultando, invero, versate alla data del 31 dicembre 2015 sul conto di NOME due sole rate per un importo di euro 5.000.
La Corte territoriale, premessa, quindi, la non congruità dei redditi della terza interessata e del suo nucleo familiare, tali da non giustificare in alcun modo l’avvenuto acquisto in data 1 ottobre 2015 del ramo di azienda commerciale della RAGIONE_SOCIALE, rileva che risulta dimostrata anche la riconducibilità della RAGIONE_SOCIALE al RAGIONE_SOCIALE COGNOME.
Passa, quindi, alla disamina delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME, rese già dal gennaio 2016, circa gli interessi degli COGNOME, nelle figure di NOME e NOME, già dal 2011/2012, nell’attività di sala giochi “RAGIONE_SOCIALE” sita in Ostia, riconducibile ad un “loro amico” conosciuto da COGNOME con l’appellativo di “NOME“, poi identificato in NOME COGNOME; sala giochi che, come specificato dal collaboratore nel successivo verbale del 17 maggio 2016, sarebbe stata ristrutturata e ampliata grazie sempre al coinvolgimento negli affari della società di NOME e NOME COGNOME. E rileva che le dichiarazioni di detto collaboratore risultano confermate da quelle di altro collaboratore, NOME COGNOME, che dichiarava, sempre a gennaio 2016, che l’RAGIONE_SOCIALE era di proprietà di un uomo chiamato “NOME“, che aveva una Hummer; e che i militari operanti verificarono che un’autovettura di tale tipo era intestata alla RAGIONE_SOCIALE e riportava effettivamente le scritte pubblicitarie della sala giochi in oggetto riferite dal collaboratore COGNOME. Evidenzia la Corte che tali informazioni erano state riportate in quanto direttamente apprese dai collaboratori (che riferivano di aver visto più volte nella sala giochi componenti del RAGIONE_SOCIALE COGNOME e, in particolare NOME, gli stessi COGNOME) per essere stati presenti e avere visto personalmente quanto riportato.
Sottolinea ancora la Corte a qua che conferma della permanenza del legame tra il RAGIONE_SOCIALE COGNOME e la RAGIONE_SOCIALE proviene da un’intercettazione del 24 marzo 2017, dopo un anno e mezzo dalla cessione del suddetto ramo d’azienda alla RAGIONE_SOCIALE, relativa ad una conversazione tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, nella quale, mentre i due affrontavano l’argomento dei cinesi ossia della sala giochi RAGIONE_SOCIALE, già denominata RAGIONE_SOCIALE, il primo affemava, rivolto a COGNOME, “fagli
chiedere l’ampliamento al cinese”, manifestando l’intendimento univoco di ampliare ulteriormente l’attività e comunque il suo interessamento all’attività di gestione della sala giochi oggetto di confisca, a conferma della tesi accusatoria. Aggiunge, inoltre, la Corte che nel dicembre 2017 i Carabinieri di Ostia eseguivano, ai sensi dell’art. 100 TULPS, la chiusura per sessanta giorni della sala giochi RAGIONE_SOCIALE, proprio perché ritenuta luogo di abituale ritrovo di soggetti pericolosi o gravati da pregiudizi penali, a riprova della riconducibilità di detta sala giochi ad ambienti criminali.
Rileva, quindi, conclusivamente che gli COGNOME, anche avvalendosi dell’alleanza con i RAGIONE_SOCIALE (circostanza riportata da COGNOME e non smentita, anzi corroborata dai versamenti sine titulo di cui sopra si è detto), utilizzavano società intestate a soggetti incensurati, continuando attraverso i predetti ad esercitare un controllo occulto sulle diverse attività commerciali, tra cui anche quella riconducibile alla RAGIONE_SOCIALE, del cui capitale sociale e patrimonio aziendale, pertanto r ritiene di confermare la disposta confisca.
E’ di tutta evidenza che la Corte di appello di Roma pone alla base dell’iter logico-giuridico da essa percorso la suddetta nozione di disponibilità indiretta e i summenzionati principi in punto di onere probatorio del terzo.
E attraverso una compiuta analisi dei dati fattuali nei termini sopra riportati, giunge alla conclusione della fittizietà dell’intestazione alla ricorrente. Muove dalla mancata dimostrazione di sufficienti disponibilità economiche proprie della stessa e del suo nucleo familiare nella rilevata sproporzione tra i suoi redditi, dichiarati ai fini fiscali, e gli acquisti da lei fatti, e, quindi, proprio dal mancato adempimento dell’onere di allegazione difensiva in ordine alla legittima provenienza dei beni, che, come sopra evidenziato, non può essere soddisfatto con la mera indicazione della esistenza della provvista sufficiente per concludere il negozio di acquisto degli stessi. E passa, poi, alla disamina delle dichiarazioni dei collaboratori e del riscontro offerto dalla conversazione summenzionata, concludendo per la riconducibilità della società oggetto di confisca (e della sala giochi da essa gestita) al RAGIONE_SOCIALE. Non senza confrontarsi – a fronte del rilievo difensivo, reiterato altresì in questa sede, circa l’incerto collegamento tra COGNOME, citato dai collaboratori, e il RAGIONE_SOCIALE – con la sentenza di assoluzione, peraltro di primo grado, di NOME COGNOME dalla partecipazione al RAGIONE_SOCIALE,
evidenziando come dalla stessa, comunque, emerga la stretta vicinanza del suddetto agli COGNOME (a conferma delle dichiarazioni di NOME che lo individua come “loro amico”).
4. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
Alla luce dei passaggi argomentativi del decreto impugnato sopra analiticamente riportati, deve escludersi che la motivazione dello stesso sia mancante o apparente, risultando, invero, le argomentazioni difensive o congruamente valutate nel ragionamento sviluppato dalla Corte di Appello di Roma o comunque assorbite dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato.
Di contro, gli elementi indicati dalla difesa nel ricorso appaiono privi del carattere della decisività, non evidenziando vuoti motivazionali quanto, piuttosto, eventuali vizi motivazionali, come premesso non sindacabili in questa sede, a fronte di una completa ricostruzione dei fatti compiuta in modo sicuramente logico nel decreto della Corte di Appello, che, come si è avuto modo di riscontrare, corrisponde puntualmente ai parametri richiesti per l’applicazione della confisca di prevenzione.
Invero, è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che non può essere proposta come vizio di motivazione mancante o apparente, come tale refluente in violazione di legge, la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi in realtà presi in considerazione dal giudice o comunque assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (così Sez..U, n. 33451 del 29/5/2014, COGNOME e NOME, Rv. 260246, che ha ricordato l’insegnamento che, proprio sullo specifico tema delle misure di prevenzione, discende dalla pronuncia Sez. 6, n. 15107 del 17/12/2003, dep. 2004, Criaco, Rv. 229305).
Al rigetto consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente processuali. al pagamento delle spese
Così deciso in Roma, 1’11 dicembre 2023.
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