Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 2706 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 2706 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME nata in Eritrea il 17/12/1938
avverso il decreto emesso il 06/07/2021 dalla Corte di appello di Trieste visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con il decreto impugnato la Corte di appello di Trieste ha confermato il decreto di confisca di prevenzione emesso dal Tribunale di Trieste nei confronti di NOME COGNOME in data 10 gennaio 2020, revocando esclusivamente la confisca del saldo attivo del conto corrente n. 53794582 acceso presso Poste Italiane s.p.a.
Il proposto è stato ritenuto socialmente pericoloso ai sensi dell’art. 1, lett. b), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, in quanto persona che vive abitualmente
con i proventi di attività delittuose, con riferimento al periodo 1999-2010, in ragione delle condanne passate in giudicato per il delitto di usura (per gli anni 1999-2004 e gli anni 2004-2006) e dei fatti emersi nel processo penale conclusosi con assoluzione per il delitto di riciclaggio (con riferimento agli anni 2008-2010).
L’avvocato NOME COGNOME difensore di COGNOME, ricorre avverso tale decreto e ne chiede l’annullamento, deducendo tre motivi.
2.1. Con il primo motivo il difensore censura l’inosservanza dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., in quanto la Corte di appello illegittimamente non avrebbe disposto l’escussione dei testimoni indicati dalla difesa, volti a dimostrare la liceità delle operazioni economiche poste in essere dal proposto.
2.2. Con il secondo motivo il difensore eccepisce la manifesta illogicità del provvedimento impugnato, in quanto la movimentazione dei conti correnti e dei depositi postali operata dal ricorrente non dimostrerebbe affatto l’esistenza di un’attività usuraria, ma una lecita attività di negoziazione di assegni per conto di alcuni casinò della Slovenia e della Croazia.
Il COGNOME, infatti, così come non avrebbe tratto alcun beneficio dalla propria attività, non avrebbe subito alcun danno, in quanto si sarebbe limitato a depositare sul proprio conto corrente gli assegni dei giocatori che gli venivano consegnati dagli uffici cambio dei casinò, senza trattenere alcuna somma in suo favore.
Le entrate e le uscite dal conto corrente del ricorrente, esaminate in dettaglio nel motivo di ricorso, sarebbero, dunque, giustificate dall’esercizio di tale attività economica e non già, come ritenuto dai giudici di merito, dall’esercizio di attività di usurario.
2.3. Con il terzo motivo il difensore censura la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., in quanto le assoluzioni del proposto dai delitti di esercizio abusivo di attività finanziaria, di peculato e di riciclaggio priverebbero gli elementi indizia addotti nel processo di prevenzione dei caratteri di gravità, precisione e concordanza.
Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 11 luglio 2024, il Procuratore generale, NOME COGNOME ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, in quanto i motivi proposti sono diversi da quelli consentiti dalla legge e, comunque, manifestamente infondati.
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Nel delibare i motivi di ricorso proposti dal ricorrente, occorre premettere che nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3 ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575, e ribadito dall’art. 10, comma terzo, del d.lgs. 159 del 2011; ne consegue che, in tale ambito, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotes dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge n.1423 del 56, il caso della motivazione inesistente o meramente apparente (ex plurimis: Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246; Sez. 2, n. 20968 del 06/07/2020, COGNOME, Rv. 279435 – 01; Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, COGNOME, Rv. 266365).
Il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione è, dunque, limitato alla violazione di legge e non si estende al controllo dell’iter giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto assente (ex plurimis: Sez. 6, n. 35044 del 08/03/2007, Bruno, Rv. 237277).
Non può, dunque, essere dedotta come vizio di motivazione mancante o apparente la sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o che, comunque, risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246).
Tale limitazione è, peraltro, stata ritenuta non irragionevole dalla Corte costituzionale, stante la peculiarità del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, sia sul terreno processuale che su quello sostanziale (sentenze n. 321 del 22/06/2004 e n. 106 del 15/04/2015 della Corte costituzionale).
Con il primo motivo il difensore deduce l’inosservanza dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., per effetto della mancata escussione dei testimoni indicati dalla difesa.
Il motivo è manifestamente infondato, in quanto la Corte di appello con motivazione congrua e non apparente, ha ritenuta superflua l’audizione delle persone indicate dalla difesa.
Ad avviso del difensore, i testimoni richiesti consentirebbero di giustificare l’ingente movimentazione di capitali da parte del proposto; l’escussione dei testi indicati, infatti, dimostrerebbe che il ricorrente nel periodo in contestazione ha esercitato un’attività di negoziazione di assegni per conto di alcuni casinò della
Slovenia e della Croazia, in forza di regolari contratti conclusi con i legali rappresentanti dell’ufficio fidi delle case da gioco.
La Corte di appello ha, tuttavia, non incongruamente ritenuto superflue le testimonianze volte a dimostrare la stipulazione di regolari contratti in relazione all’attività di negoziazione degli assegni posta in essere dal proposto, in quanto non è stato offerto alcun documento a supporto di questa attività ed è ormai decorso più un decennio dalla stipulazione di tali contratti.
I giudici di appello hanno, inoltre, rilevato che le operazioni descritte dalla difesa sono obiettivamente anomale, in quanto COGNOME secondo la propria prospettazione, avrebbe anticipato ingenti somme di danaro a terzi, pur a fronte del rischio di mancata copertura dell’assegno emesso a garanzia e senza alcun margine di profitto; secondo la Corte di appello sarebbe, tuttavia, assolutamente inverosimile che il proposto si esponesse a un rischio così rilevante di perdita economica, a fronte di assenza di guadagno alcuno.
Le operazioni economiche del proposto, peraltro, avrebbero coinvolto numerosi conti correnti anche intestati a terzi ignari delle stesse e tale circostanza, secondo i giudici di appello, sarebbe assolutamente incompatibile con l’esercizio di un’attività lecita e contrattualizzata.
I giudici di appello hanno, peraltro, rilevato che l’anomalia di questa operatività è stata rilevata anche nella sentenza di assoluzione di COGNOME dal delitto di riciclaggio, che ha ritenuto le operazioni descritte dal proposto come obiettivamente «incompatibili con una attività lecita e contrattualizzata».
Con il secondo motivo il difensore eccepisce la manifesta illogicità del provvedimento impugnato, in quanto la movimentazione dei conti correnti acquisti dimostrerebbe la liceità delle operazioni economiche poste in essere dal proposto.
Il motivo è, tuttavia, inammissibile, in quanto, denunciando vizi di illogicità della motivazione, esula da limiti del controllo sul decreto impugnato consentito in sede di legittimità.
La lunga esposizione del motivo, peraltro, mediante una dettagliata confutazione dei rilievi della Corte di appello, si risolve nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti posti a fondamento del giudizio di pericolosità, non consentita in sede di legittimità.
Con il terzo motivo il difensore censura la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., in quanto le assoluzioni del proposto dai delitti di esercizio abusivo di attività finanziaria, di peculato e di riciclaggio priverebbero gli elementi indiziar addotti nel processo di prevenzione dei caratteri di gravità, precisione e
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concordanza.
Anche questo motivo è inammissibile, in quanto si risolve in una sollecitazione ad una rinnovata valutazione degli elementi probatori, non consentita in sede di legittimità.
Il motivo è, peraltro, proposto in termini aspecifici, in quanto il ricorrente si richiama genericamente all’esito assolutorio di alcuni giudizi svolti nei confronti di COGNOME, senza, tuttavia, indicare con quali segmenti del giudizio di pericolosità operato nel decreto impugnato tali pronunce interferiscano.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, inoltre, in tema di misure di prevenzione, il giudice, attesa l’autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione, può valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., ove risultino delineati, con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività, quei fatti che, pur ritenuti insufficienti – nel merito o preclusioni processuali – per una condanna penale, possono, comunque, essere posti alla base di un giudizio di pericolosità (Sez. 2, n. 15704 del 25/01/2023, COGNOME, Rv. 284488 – 01, in motivazione, la Corte ha affermato che, alla luce della giurisprudenza costituzionale, l’esigenza di un elevato standard di legalità si riflette, non tanto sulle modalità di accertamento, quanto sull’oggetto della verifica di pericolosità generica, che deve appuntarsi sull’esistenza di elementi di fatto individuabili con adeguata precisione e puntualità; Sez. 2, n. 4191 del 11/01/2022, COGNOME, Rv. 282655 – 01; Sez. 2, n. 33533 del 25/06/2021, Avorio, Rv. 281862 – 01; Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv. 283559 – 03). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Secondo un diverso orientamento, il giudice della prevenzione, in sede di verifica della pericolosità generica del soggetto proposto per l’applicazione di misura ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b) d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non può, invece, ritenere rilevanti, in base al principio della “valutazione autonoma”, fatti per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di assoluzione, in quanto la negazione penale irrevocabile di un determinato fatto impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità (Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280145 – 01; Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, COGNOME Rv. 264319 – 01).
La Corte di appello di Trieste, tuttavia, ha fatto corretta applicazione del principio della valutazione autonoma del giudice della prevenzione, anche secondo l’orientamento più restrittivo espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto
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ha rilevato, con motivazione non certo apparente, come il Tribunale di Trieste, con riferimento alle sentenze di assoluzione di COGNOME abbia posto a fondamento circostanze di fatto comprovate e non confutate o escluse da tali sentenze.
I giudici di appello hanno, infatti, rilevato che il Tribunale di Trieste, co sentenza emessa in data 24 gennaio 2019, ha assolto COGNOME dall’accusa di aver commesso il delitto di riciclaggio in ragione dell’incertezza del riscontro investigativo sull’illecita provenienza del danaro.
Questa pronuncia ha, tuttavia, accertato che il proposto nel periodo maggio 2008-giugno 2010 ha movimentato, direttamente o per interposta persona, assegni bancari, per un ammontare complessivo di 800.000 euro, «decisamente sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati dal proposto»; la Corte di appello ha, peraltro, rilevato che la materialità di questi fatti è stata riconosciuta dallo stess proposto nell’interrogatorio reso in data 17 gennaio 2017 e che il proposto non ha dichiarato redditi tra il 2004 e il 2012.
Alla stregua di tali rilievi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza «versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 18 settembre 2024.