Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 30610 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 30610 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 16/06/2025
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dalla consigliera NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto dei ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME e la dichiarazione di inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME:
lette le memorie di replica dei difensori di NOME COGNOME, avvocato NOME COGNOME e avvocato NOME COGNOME che hanno insistito per l’accoglimento dei ricorsi;
lette le memorie di replica dei difensori di NOME COGNOME e NOME COGNOME, avvocato NOME COGNOME e avvocato NOME COGNOME che hanno insistito per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1.La Corte di appello di Palermo, con decreto del 25 novembre 2024, disposta la cancellazione ovvero la revoca della misura della confisca con riferimento ad alcuni dei beni mobili indicati nel decreto di sequestro di primo grado, ha, altresì, disposto la confisca delle somme ricavate dalle vendite autorizzate dal Tribunale di Trapani, Sezione misure di prevenzione, dei beni specificamente indicati alle pagine 93 e 94 del decreto e confermato la confisca delle società RAGIONE_SOCIALE NOME di NOME RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE e, quindi, ha confermato il decreto emesso dal Tribunale di Trapani, Sezione misure di prevenzione, del 14 settembre 2023 in danno di NOME COGNOME in proprio e quale erede del marito, NOME COGNOME NOME COGNOME in qualità di proposto, e NOME COGNOME in qualità di terzo interessato.
La Corte di appello ha confermato il giudizio di pericolosità a carico del defunto NOME COGNOME, ai sensi dell’art. 4, lett. a) e b) e art. 1, lett. b), d. n. 159 del 2011 e ai sensi dell’art. 4, lett. b), d. Igs. 159 cit. a carico di NOME COGNOME e NOME COGNOME riportando, nella parte iniziale, le conclusioni del decreto di primo grado.
In particolare, il Tribunale aveva richiamato a carico di NOME COGNOME le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia che gli erano valse una sentenza di applicazione pena emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo per l’assistenza fornita dal proposto, e dalla moglie NOME COGNOME a NOME COGNOME durante la sua latitanza, sentenza che rilevava ai fini della sussistenza della pericolosità sociale cd. qualificata nei confronti del COGNOME. Non sussisteva, ad avviso del Tribunale, alcun ostacolo alla riconducibilità del COGNOME, alla categoria di pericolosità di cui all’art. 4, lett. a), d. Igs. n. 159 quale soggetto indiziato della commissione di uno dei delitti indicati dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. e, quindi, alla individuazione del requisito soggettivo dell’appartenenza mafiosa a “Cosa Nostra”, nel periodo dal 1996, anno a partire dal quale era accertato che il COGNOME aveva domiciliato a Trapani, potendo contare sull’apporto del COGNOME e di NOME COGNOME e con riferimento al dies ad quem, quantomeno al 2000.
Il Tribunale riteneva sussistente a carico del COGNOME anche i profili di pericolosità ex art. 4, lett. b), d. Igs. n. 159 cit. dal 2000 al 2014 in ragione de procedimento penale a carico del COGNOME in relazione al reato di cui all’art.12quinquies, dl. n. 306 dell’8 giugno 1992, convertito con modificazioni dalla I. n. 356 del 7 agosto 1992, con riferimento alla partecipazione nella società RAGIONE_SOCIALE con intestazione delle quote di propria pertinenza,
pari al 50% in capo a NOME COGNOME. Anche tale società veniva chiamata in causa dai collaboratori di giustizia, che ne descrivevano la lucrosa gestione dell’hotel “RAGIONE_SOCIALE“, pur non figurandovi in prima persona il COGNOME, che ne aveva schermato la proprietà al fine di salvaguardare il proprio patrimonio dall’abiezione reale. Il coinvolgimento in tale società del COGNOME emergeva sia dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sia dal contenuto di conversazioni intercettate, di cui era parte NOME COGNOME che ne denotavano l’ingerenza nelle attività di gestione della società e dei suoi affari.
Ulteriore coinvolgimento illecito del ricorrente veniva ravvisato in relazione alla vicenda di costituzione della società RAGIONE_SOCIALE, formalmente intestata a tale NOME COGNOME e amministrata dal marito della COGNOME, NOME COGNOME Per tali fatti, commessi nel 2008 e nel 2011, erano stati ascritti al ricorrente numerose condotte di reato di intestazione fittizia, ai sen dell’art. 12-quinquies, d.l. n. 306 cit., con l’aggravante di cui all’art. 7, d.l. n 152 del 1991, poi caduta nel corso del giudizio.
Anche in relazione a tali fatti il decreto di primo grado aveva valorizzato il contenuto delle intercettazioni telefoniche che denotavano il coinvolgimento del ricorrente nella gestione della società.
Analoga la vicenda attinente alla società RAGIONE_SOCIALE, formalmente costituita nel 2007 da NOME COGNOME ed NOME COGNOME ritenuta mera prestanome del COGNOME. Anche in tal caso, le conversazioni intercettate denotavano il coinvolgimento nella gestione della società di NOME COGNOME.
Il Tribunale richiamava, infine, anche i profili di pericolosità generica ex art. 1, lett. b), d. Igs. n. 159 cit., in relazione ai reati ex art. 316-ter cod. pen. riferimento ai contributi pubblici percepiti illegittimamente dal Mazzara, attraverso la società RAGIONE_SOCIALE, dal 1999 al 2009.
Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 di att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazion NOME COGNOME in proprio, quale proposta, e in qualità di erede di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME quest’ultimo quale terzo interessato, dopo aver svolto una premessa sulla configurabilità del vizio di violazione di legge e sulla riconducibilità a tale vizio della motivazione apparente o inesistente, chiedono l’annullamento del decreto impugnato.
2.1. NOME COGNOME denuncia, con il primo motivo di ricorso, violazione di legge (in relazione agli articoli 3, comma 1, e 24, comma 2, Cost., artt. 2, 4, lett. a), b) e c), d. Igs. n. 159 cit.) per avere il decreto impugnato riten l’accertamento della pericolosità sociale di NOME COGNOME e NOME COGNOME coperto da giudicato e per l’effetto dichiarato inammissibili i motivi del ricorso
appello ad essa attinenti, conseguentemente determinando violazione della disciplina di legge prevista in materia di confisca di prevenzione in relazione alla pericolosità sociale, alla sua perimetrazione e alla necessaria correlazione temporale rispetto all’acquisto dei beni oggetto di abiezione.
La ricorrente, dopo avere passato in rassegna le differenze strutturali tra la misura di sicurezza personale e la misura della confisca, sostiene che non possa essere attribuita efficacia di giudicato al decreto emesso nel procedimento di prevenzione avente il n. 21/2011, con il quale erano state applicate a NOME COGNOME e a NOME COGNOME la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, e che la dichiarata perdita di efficacia della confisca disposta dalla Corte di Cassazione nel precedente procedimento, che ha comportato la necessità di instaurare un nuovo procedimento, disvela come, in relazione alla misura di sicurezza patrimoniale, non vi fosse stato alcun precedente accertamento irrevocabile di pericolosità e dei presupposti di applicazione della confisca che, del resto, non erano stati oggetto di esame neppure nel risalente decreto n. 21/2005, che aveva dedicato un lungo esame alla “misura personale”, quindi all’attualità della pericolosità sociale dei proposti, ma non ne aveva esaminato la perimetrazione temporale, ovvero la pericolosità “storica”.
Rileva la ricorrente che il decreto di prevenzione impugnato, in ragione dei suoi connotati, avrebbe dovuto, invece, accertare la perimetrazione temporale della pericolosità sociale e che, a tal riguardo, i giudici della prevenzione sono pervenuti a travisare anche il contenuto della sentenza di annullamento con rinvio che, dichiarata la perdita di efficacia della confisca, aveva sì esaminato i motivi di ricorso riguardanti le misure personali “attenendo alla valutazione di pericolosità”, ma limitatamente alla misura personale. Viceversa, la sentenza della Corte di cassazione non aveva affrontato il tema della correlazione temporale, rilevante ai fini dell’applicazione della confisca. La soluzione della Corte di appello urta contro il divieto di disparità di trattamento che s determinerebbe, in ipotesi di perdita di efficacia della confisca, tra la posizione del soggetto destinatario anche di misura personale e quella del soggetto al quale sia stata applicata la sola misura patrimoniale, violando, altresì, il diritto difesa.
2.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 4, lett. b) e 24 d. Igs. n. 159 cit., interpretati in conformità all’art. 1 Protocollo Addizionale CEDU, 41, 42 e 11 Cost., 125, comma 3, cod. proc. pen..
Sostiene la ricorrente che sarebbe erronea la decisione della Corte di appello, nella parte in cui ha respinto i motivi di appello sulla impossibilità ricondurre il giudizio di pericolosità sociale generica di NOME COGNOME e NOME COGNOME alla commissione dei reati di cui all’art. 12-quinquies d.l. n. 306
cit., commessi negli anni 2001, 2007 e 2009, difettando, prima della introduzione del cd. pacchetto sicurezza, adottato con I. n. 94 del 15 luglio 2009, idonea base legale e prevedibilità della misura della confisca poiché solo l’art. 2, comma 4, di tale ultimo provvedimento aveva esteso ai soggetti indiziati di tali reati la possibilità di applicazione della misura di prevenzione. Prima di tale data, dunque, l’applicazione della misura di prevenzione non era prevedibile: in linea con tale conclusione la sentenza della Corte EDU COGNOME c/Italia del 2017, con la quale la Corte aveva ritenuto che la legislazione vigente non indicasse con sufficiente chiarezza la portata e le modalità di esercizio amplissimo della discrezionalità riferito ai tribunali interni e che, pertanto / non era formulata con sufficiente precisione in modo da fornire protezione contro le ingerenze arbitrarie e consentire alla persona raggiunta dalla confisca di regolare la propria condotta e prevedere in misura sufficientemente certa l’applicazione delle misure di prevenzione sulla base di tali coordinate.
La risposta della Corte di merito è incongruente rispetto al tema della prevedibilità poiché il tema posto dalla difesa non involge il problema di applicabilità retroattiva della norma ma l’obbligo, per il giudice, di applicazione della legge in modo conforme alla lettera e alla ratio degli obblighi internazionali e alla conforme lettura che ne è stata data dalla Corte Edu.
Quanto esposto è aderente alla più recente evoluzione della giurisprudenza della Corte Edu nella sentenza COGNOME contro Italia del 26 settembre 2024, che enuncia un principio adattabile anche alla misura patrimoniale.
2.3.Con il terzo motivo denuncia violazione di legge (artt. 4, lett. a), b) e c e 24, d. Igs. n. 159 cit., artt. 597, comma 3, cod. proc. pen.), perché, in violazione del divieto di reformatio in peius, il decreto impugnato ha ritenuto accertata la pericolosità sociale del COGNOME dal 1996 al 2014 laddove il Tribunale, con decreto non impugnato dal Pubblico Ministero, lo aveva ritenuto pericoloso sino al 2011, data del sequestro.
2.4. Con il quarto motivo denuncia violazione di legge (artt. 24 e 10 d.lgs. n. 159 cit. e 111 Cost.) e vizio di motivazione apparente o inesistente (art. 125, comma 3, cod. proc. pen.) nella parte in cui la Corte di appello ha disposto la confisca delle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, qualificandole frutto dell’attività illecita di cui all’art. 12-quinquies d.l. n. 306 cit. Sostiene la ricorrente che tale qualificazione sarebbe erronea perché la nozione di frutto dell’attività illecita ricomprende tutte e solo quel utilità economiche derivanti direttamente dalla realizzazione della condotta illecita, nozione coincidente con il concetto di “provento di reato” utilizzata dall Convenzione ONU contro il crimine organizzato approvata a Palermo il 16
dicembre 2000 e dal Regolamento UE/2018/1805, in materia di riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e confisca.
Inoltre, non sarebbe provato, con il rigore richiesto dall’utilizzo nell disposizione normativa della parola di cui all’art. 24 (risultino), il rapporto tra attività illecita e bene, quindi la loro connessione. Il decreto impugnato afferma apoditticamente che le società confiscate costituiscono utilità economiche direttamente derivanti dalla realizzazione dei reati di intestazione fittizi potendo, al più, essere considerate oggetto materiale del reato. Né il decreto impugnato ha motivato le ragioni della sussistenza di tali reati sotto l’aspetto della volontà elusiva, tenuto conto che, all’epoca dei fatti (e il dato è attestat nella nota della Polizia Tributaria del 4 maggio 2015) il COGNOME non era sottoposto ad alcun procedimento penale né oggetto di informative di reato.
2.5. Con il quinto motivo di ricorso denuncia violazione di legge (artt. 27 e 10 d.lgs. n. 159 cit. e 111 Cost.) e vizio di motivazione apparente o inesistente (art. 125, comma 3, cod. proc. pen.) nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto che tutti i beni intestati a NOME COGNOME, in particolare, nella società COGNOME, a fronte dell’accertata intestazione fittizia, fossero nella disponibilità marito, NOME COGNOME, dominus delle imprese familiari. L’affermazione della Corte di appello è, per più ragioni, apodittica ed assertiva perché ne è infondato il presupposto, il giudizio di pericolosità del marito della ricorrente, perch coperto da giudicato; quello di sproporzione, nonché il rilievo che la Barone non fosse titolare di redditi, poiché, invece, la ricorrente, quale imprenditrice agrico dal 1994 aveva accumulato un reddito di tre milioni di euro, reddito mantenuto proporzionato negli anni a venire (perizia all. 6.14.2).
Non sussistono, peraltro, i presupposti per ritenere comprovata, secondo i parametri di cui all’art. 24 d. Igs. n. 159 cit., la presunzione dell’intestazio fittizia, che, anche per i soggetti di cui all’art. 19 d. Igs. n. 159 cit. confronti possono essere svolte le indagini patrimoniali – deve essere oggetto di prova e, quindi, dimostrata, non potendo fondarsi sulla mera presunzione di appartenenza al proposto.
2.6. Con il sesto motivo denuncia violazione di legge (artt. 10 e 27, comma 2, d. Igs. n. 159 cit. e 111 Cost.) e vizio di motivazione apparente o inesistente in punto di sproporzione.
La ricorrente articola sul punto diverse censure relative:
a. alla mancata valutazione ed esame delle conclusioni del consulente di parte che non erano state oggetto delle deduzioni del perito, dottor COGNOME in quanto si trattava di acquisizioni successive alla relazione di sintesi depositata i 14 giugno 2023, perché sviluppate nelle note conclusive del 14 giugno 2023;
b. al metodo adottato dal perito per la ricostruzione della sproporzione, perché nei calcoli non si è tenuto conto del surplus maturato negli anni precedenti: al di là della enunciata adesione al metodo della stratificazione i giudici del merito, aderendo alla ricostruzione dei periti, hanno ricostruito la sproporzione solo sulla base “della differenza annua”, che non tiene in conto il surplus precedente e la differenza progressiva;
non corrisponde al vero che il risultato della gestione sia sempre stato negativo, come emerge dalla stessa ricostruzione del perito, che riporta anche differenze annue positive o pari zero ovvero saldi negativi, ma di valore inconsistente;
all’erroneo computo delle entrate ingiustificate (ascendenti, secondo il computo del perito, a 3.960.457,76), perché risultato di un approccio formalistico, non essendo stato individuato il corrispondente documento contabile;
al computo delle rimanenze poiché, fino all’anno 2010, sussisteva una eccedenza di fatturato per 2.145.587,44 euro (importo che il perito ha ritenuto non giustificato sol perché non fatturato) che determina un ammontare decisamente inferiore, pari a 1.778.735,42.
Si tratta di un importo rispetto al quale la difesa ha escluso, attraverso la consulenza, che si trattasse di entrate illecite e documentato che le entrate bancarie erano certamente riferibili ad operazioni commerciali agricole, con la conseguente necessità di rettificare l’importo indicato dal perito, che ne ha escluso la sussistenza sol perché non esisteva la prova del rapporto sottostante, rivenendo le stesse da operazioni lecite (vendita di prodotti; prestiti agrari prestiti tra padre e figlio). Non sono state esaminate, a tal riguardo, le deduzioni difensive svolte alle pagg. 96 e ss. dell’atto di appello.
2.7. Con il settimo motivo denuncia violazione di legge (artt. 10 e 27, comma 2, d.lgs. n. 159 cit. e 111 Cost.) e vizio di motivazione apparente o inesistente in punto di sproporzione in relazione alla mancata considerazione dell’imponibile non dichiarato, una volta depurato dall’imposta evasa, ai fini del giudizio di proporzione e della giustificazione della legittima provenienza dei beni. La Corte di appello ha richiamato, a tale riguardo, la sentenza delle Sezioni Unite in materia facendone, però, applicazione incongrua alla fattispecie in esame / non vertendosi in presenza di un’evasione sistematica, ingente e colossale stante l’importo, esiguo e irrilevante, dell’imposta evasa che, in materia di IVA ascende, per gli anni dal 2002 al 2009, a complessivi euro 28.736,41 o 36.229,12 e a poco più di 23.934,77 ovvero 32.040,43 (a seconda dei metodi di calcolo impiegati sul volume di affari non dichiarato).
2.2. NOME COGNOME e NOME COGNOME propongono comuni motivi di ricorso in buona parte sovrapponibili ai motivi di ricorso della Barone.
2.2.1. Con il primo motivo, riconducibile al primo motivo di ricorso della Barone, i ricorrenti, con riferimento alla confisca delle società NOME RAGIONE_SOCIALE Vincenzo RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE sottolineano che l’unico episodio di cui all’art. 12-quinquies d. I. 306 cit. contestato a NOME COGNOME è inidoneo ai fini dell’inquadramento del ricorrente nella categoria della pericolosità sociale di cui all’art. 4, lett. b), d. Igs. n. 159 cit.
NOME COGNOME era stato raggiunto dalla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con provvedimento del Tribunale di Latina perché socialmente pericoloso ai sensi degli artt. 1, lett. a) e b), 6 e 8 d. Igs. n. 159 c in un procedimento conclusosi con sentenza che dichiarava inammissibile il suo ricorso del 2017.
2.2.2. Con il secondo motivo, sovrapponibile al secondo motivo del ricorso della Barone, NOME COGNOME denuncia l’erronea applicazione della legge penale per avere il decreto impugnato qualificato NOME COGNOME socialmente pericoloso, ai sensi dell’art. 4, lett. b), d. Igs. n. 159 cit. e 12-quinquies, d. I. n. 306 cit., in difetto di idonea base legale e di prevedibilità dell’ablazione.
2.2.3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione di legge (artt. 24 e 4, lett. b) d. Igs. n. 159 cit., 12-quinquies d.l. n. 306 cit.) e inesistenza della motivazione per avere il decreto impugnato, in assenza di motivazione, disposto la confisca dei beni acquistati negli anni antecedenti al periodo di pericolosità sociale che costituisce necessario presupposto soggettivo di applicazione della confisca, con conseguente violazione della disciplina di legge che richiede la pericolosità sociale e la necessaria correlazione temporale tra gli acquisti e l’insorgenza della pericolosità sociale.
Le argomentazioni della Corte di appello sono del tutto apodittiche e prive di fondamento legale e violano altresì il principio di correlazione poiché i beni mobili e immobili confiscati intestati alla RAGIONE_SOCIALE, le quote sociale del proposto e del terzo interessato nonché i beni intestati alla RAGIONE_SOCIALE, erano stati acquistati o, comunque, realizzati prima del periodo di pericolosità sociale, individuato nell’anno 2001, pericolosità sociale che non è condizione di per sé sufficiente, dovendo essere dimostrata la correlazione temporale tra l’ingresso del bene nel patrimonio e la pericolosità sociale.
La Corte d’appello ha violato il necessario presupposto soggettivo di applicazione della confisca e quello della correlazione temporale la cui sussistenza richiede accertamenti fondati su elementi specifici e oggettivi, ovvero elementi certi, dovendo escludersi valutazioni soggettive e incontrollabili.
Anche tale riguardo il ricorrente richiama il contenuto e le indicazioni promananti dalla sentenza De Tommaso della Corte Edu, che impongono di avere riferimento, ai fini del giudizio di pericolosità, a fatti individuati e determinati / sussumibili nelle categorie criminologiche descritte dal legislatore. Nel caso in esame è certa l’assenza di correlazione tra l’epoca di manifestazione della pericolosità e il momento di acquisizione dei beni.
2.2.4. Con il quarto motivo di ricorso, sovrapponibile al quarto motivo di ricorso della Barone, denunciano violazione di legge e carenza di motivazione in relazione alla confisca della società RAGIONE_SOCIALE, erroneamente qualificata frutto di attività illecita in relazione al reato di all’art. 12-quinquies, d.l. n. 306 cit.
2.2.5. Con il quinto motivo di ricorso denunciano violazione di legge (in relazione agli artt. 10, comma 2, e 27, comma 2, d. Igs.n. 159 cit., 111, comma 6, Cost. e 125, comma 3 cod. proc. pen. in relazione all’art. 24, d. Igs. n. 159 cit.) per avere il decreto impugnato, in carenza di motivazione, ritenuto fittiziamente intestati in capo ai proposti NOME COGNOME e NOME COGNOME i beni di proprietà di NOME COGNOME e, in particolare, le quote e i beni aziendali della COGNOME NOME & NOME s.n.c. e della RAGIONE_SOCIALE La motivazione del decreto impugnato è del tutto assertiva e si limita a riportare alcune pagine del decreto già annullato dalla Corte di cassazione attraverso una mera operazione di copia e incolla e in assenza di elementi dai quali dedurre che i beni, pur formalmente intestati ad uno dei due proposti, fossero nella reale disponibilità dell’altro, non venendo in rilievo ipotesi di intestazione fittizia ex art. 26 d. Igs. n. 159 cit. e in carenza del rigoroso accertamento probatorio richiesto dall’art. 24 d. Igs. n. 159 cit.
2.2.6. Con il sesto motivo denunciano violazione di legge (artt. 24, 10, comma 2, e 27 comma 2, d. Igs. n. 159 cit.) e inesistenza della motivazione, per avere il decreto impugnato disposto la confisca delle quote della RAGIONE_SOCIALE intestate a NOME e NOME COGNOME e dei relativi beni aziendali in difetto dell’accertamento della illecita provenienza dei beni, misura applicabile solo con riferimento alla cd. impresa mafiosa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1 ricorsi di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME devono essere rigettati per le ragioni di seguito indicate.
E’infondato il primo comune motivo di ricorso proposto da NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME nonché il terzo motivo di ricorso di
NOME COGNOME nella parte in cui sostiene che il decreto impugnato ha operato una valutazione difforme della perimetrazione del giudizio di pericolosità sociale di NOME COGNOME che il Tribunale, con il decreto n. 21/2005, aveva delimitato all’anno 2011.
2.1. Va premesso che COGNOME MicheleCOGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME erano stati sottoposti, con decreto dell’Il marzo 2015 del Tribunale di Trapani, alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, decreto che aveva, altresì, disposto la confisca di prevenzione sui beni facenti capo ai già menzionati. La Corte di appello di Palermo, con decreto del 26 novembre 2018 aveva, in buona sostanza, confermato le misure personali e reali, ma detto decreto era stato annullato senza rinvio con sentenza del 29 settembre 2020 dalla Quinta sezione penale di questa Corte, che aveva dichiarato la perdita di efficacia della confisca, ai sensi dell’art. 27, comma 6, d. Igs. n. 159 cit., p decorrenza del termine del deposito del decreto in appello, ordinando la restituzione dei beni agli aventi diritto, se non sottoposti a sequestro o a confisca per altro titolo.
La Sezione Quinta penale aveva, invece, rigettato i ricorsi proposti da NOME COGNOME e da NOME COGNOME e dichiarato inammissibili i ricorsi di NOME COGNOME e del terzo interessato, NOME COGNOME che avevano denunciato il difetto di motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti fattuali e di diritto per l’applicazione della misura patrimoniale, e che s giovavano, per l’effetto estensivo ai sensi dell’art. 587, comma 2, cod. proc. pen., dell’accoglimento del motivo di ricorso sul punto della perdita di efficacia della confisca proposto da NOME COGNOME e NOME COGNOME
La Corte di appello (pag. 31 del decreto impugnato) ha ritenuto che non potesse essere esaminato il profilo della pericolosità sociale, qualificata e generica, dei proposti e quello della perimetrazione temporale della pericolosità sociale, aspetti che avevano costituito oggetto del decreto del Tribunale di Trapani n. 21/2005 dell’Il marzo 2015, in quanto presupposti coperti da giudicato per effetto della sentenza della Corte di cassazione.
In sintesi, il decreto impugnato, con le precisazioni di cui al decreto della Corte di appello di Palermo del 26 novembre 2018, ha ritenuto sussistente la pericolosità sociale di NOME COGNOME dal 1996 al 2014; la pericolosità sociale di NOME COGNOME dal 2007 al 2012; la pericolosità sociale di NOME COGNOME dal 2000 (data dell’ingresso occulto di NOME COGNOME nella società RAGIONE_SOCIALE), fino al momento del sequestro della medesima società intervenuto nel 2012, pericolosità sociale ricondotta, quanto al COGNOME, all’art. 4, lett. a), d. Igs. n. 159 cit. in relazione alla sua appartenenza sodalizio mafioso “Cosa Nostra” dal 1996 ai primi anni del 2000; all’art. 4, lett.
b), d. Igs. n. 159 cit., in relazione ai reati di cui all’art. 12-quinquies del d.l. 306 cit., per le società RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE e, quindi, dal 2000 al 2014; dal 2007 al 2012 per la Barone, intestataria fittizia della società RAGIONE_SOCIALE nonché, sempre con riferimento al COGNOME, ai sensi dell’art. 1, lett. b), d. Igs. n. 159 cit. in relazione ai reati di cui all’a ter cod. pen. ascritti al COGNOME dal 1999 al 2009.
2.2.Le conclusioni della Corte territoriale, posta la premessa che i Giudici di appello (pag. 34) hanno ritenuto non rilevante l’aspetto della correlazione temporale tra pericolosità sociale dei ricorrenti e del defunto NOME COGNOME e l’acquisto dei beni in quanto “frutto” del reato di cui all’art. 12-quinquies d.l. 306 cit., non sono fondate con riferimento al ritenuto giudizio di pericolosità sociale e alla perimetrazione temporale della pericolosità dei proposti NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME giudizio che la Corte di merito ha ritenuto definitivamente accertato a seguito della sentenza della Corte di Cassazione del 29 settembre 2020.
La Corte di cassazione, con la sentenza indicata, aveva, infatti, esaminato (punto 3 e ss. della sentenza) i motivi di ricorso relativi alla misura personale, neppure impugnata da NOME COGNOME alla stregua del motivi sintetizzati nel Ritenuto in fatto, e, quindi, aveva confermato il presupposto della pericolosità, qualificata e generica, dei ricorrenti.
Con riguardo ai ricorsi del COGNOME e della Barone detta sentenza aveva specificamente esaminato i motivi concernenti il giudizio di pericolosità, confutando le ragioni a base dei ricorsi con i quali i ricorrenti avevano ritenuto insussistente la commissione dei reati di intestazione fittizia, realizzati, quanto a NOME COGNOME, attraverso la intestazione fittizia delle tre società (RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, rispettivamente a NOME COGNOME; ad NOME COGNOME e al marito NOME COGNOME e, quanto alla società RAGIONE_SOCIALE, alla COGNOME e alla propria moglie, NOME COGNOME, evidenziando come fosse irrilevante la dichiarazione di prescrizione del reato di cui all’art. 12-quinquies, d. I. n. 306 cit., intervenuta in appello nei confronti del COGNOME in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE
La Corte di cassazione aveva esaminato anche i motivi, comuni al COGNOME e alla moglie, con riferimento ad ulteriori aspetti rilevanti ai fini de configurabilità del reato di intestazione fittizia (ad es. il dolo della condot elusiva) e alla perimetrazione della pericolosità sociale dedotta con riferimento alla commissione dei reati di cui all’art. 316-ter cod. pen.
La giurisprudenza di legittimità si è occupata della rilevanza del principio del “ne bis in idem” prevalentemente in materia di rivalutazione della pericolosità sociale ai fini dell’applicazione della misura di prevenzione, in seguito a rigetto,
ed ha affermato che il principio è applicabile anche nel procedimento di prevenzione,posta la precisazione che la preclusione del giudicato opera “rebus sic stantibus”, e che, in seguito all’acquisizione di nuovi elementi di fatto – che possono consistere in dati di conoscenza nuovi e sopravvenuti ovvero in risultanze preesistenti al giudicato, ma mai apprezzate nei provvedimenti già emessi – il giudizio di pericolosità è, dunque, rivedibile.
Nel caso in esame, come evidenziato dal Procuratore generale nella sua requisitoria, non sono stati allegati “elementi nuovi” idonei a rivedere il giudizio di pericolosità sociale, qualificata e generica, già posto a fondamento delle misure di prevenzione personale degli odierni ricorrenti, NOME COGNOME e NOME COGNOME che ripropongono, con il ricorso e in appello, questioni già esaminate.
Da tali argomenti consegue la genericità e manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME e di NOME e NOME COGNOME nella parte in cui i ricorrenti sostengono che il decreto impugnato non ha accertato il presupposto soggettivo della pericolosità sociale dei proposti, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME nè la perimetrazione temporale della pericolosità sociale, in quanto tale accertamento non poteva essere costituito dall’inquadramento nella categoria della pericolosità sociale correlata alla misura di prevenzione personale oggetto del decreto del’11 marzo 2015 che, viceversa, per tali aspetti, come si è visto, è divenuto irrevocabile.
Né risulta che in appello, se non per i descritti aspetti, sia stata contestata la perimetrazione temporale del giudizio di pericolosità sociale, come precisata nel decreto della Corte di appello del 2018, con la conseguente genericità del terzo motivo di ricorso della Barone: l’accertamento, infatti, comporta indagini di merito precluse alla Corte di legittimità quando non si tratti, ai fini del qualificazione dei fatti, di elementi evincibili con immediatezza dagli atti. Ne caso, risulta che solo nell’anno 2014 veniva sottoposta a sequestro una delle società, la RAGIONE_SOCIALE riconducibile al Mazzara.
2.3. Nei ricorsi della Barone e dei Nicosia si sostiene che il giudizio di pericolosità sociale posto a fondamento della misura di prevenzione personale sarebbe “strutturalmente” diverso da quello che il giudice deve porre a fondamento della misura di prevenzione della confisca, applicabile anche disgiuntamente dalla misura personale, e, quindi, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto al momento della richiesta di prevenzione.
Rilevano i ricorrenti che, le riforme intervenute in materia e lo sviluppo nella prassi applicativa, disegnano uno statuto della misura personale diverso dalla misura di prevenzione patrimoniale: la prima volta al futuro, in chiave appunto di
prevenzione; la seconda, invece, volta al passato e diretta a colpire la pericolosità del patrimonio accumulato e incentrata su una fictio iuris, la pericolosità della res. La finalità perseguita dalla confisca di prevenzione è, dunque, quella di sottrarre in via definitiva al soggetto il frutto della sua passata e temporalmente ben individuata attività illecita che presuppone, oltre all’inquadramento, non necessariamente attuale, in una categoria di pericolosità – che rimane il presupposto soggettivo della misura – la sussistenza del duplice e alternativo requisito della provenienza illecita del bene o della sussistenza di sproporzione tra entrate lecite e patrimonio accumulato.
Si tratta, tuttavia, di un’esegesi che i ricorrenti spingono fino al punto di ritenere ontologicamente non sovrapponibile al cd. giudizio di pericolosità storica, quale presupposto della confisca, il giudizio di pericolosità sociale posto a fondamento della misura personale, e non condivisibile se non nel senso precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza COGNOME, in cui si è affermato che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo.
Con tale sentenza si è definitivamente affermata l’opzione interpretativa per cui risulta irrinunziabile, a fini di una valida emissione del provvedimento di confisca, la ricostruzione preliminare dei profili di pericolosità soggettiva tali d consentire la constatazione argomentata della correlazione temporale tra condotte contra legem del soggetto ed incremento patrimoniale confiscabile: la misura di prevenzione della confisca, in forza di tale indefettibile rapporto, non può essere considerata una diretta actio in rem e, pertanto, conserva la sua funzione preventiva in quanto volta a prevenire la realizzazione di condotte ulteriori costituenti reato stante l’efficacia deterrente dell’abiezione.
Ad assumere rilievo, in sintesi, non è tanto la qualità di pericoloso sociale del titolare in sé considerato, quanto la circostanza che egli fosse tale al momento dell’acquisto del bene.
In tale evenienza l’attenzione si sposta sulla res, in quanto pericolosa, e sul bene acquistato dal soggetto pericoloso si riverbera la pericolosità sociale del soggetto che l’ha acquistata non in chiave statica ma in chiave dinamica, fondata sull’assioma della oggettiva pericolosità di cose, illecitamente acquistate, in mani di chi sia ritenuto appartenere (o appartenuto) ad una delle categorie previste dal legislatore: è tale riflesso – che si traduce in un attributo obiettivo o quali peculiare del bene – idoneo a incidere sulla sua condizione giuridica che giustifica l’applicazione disgiunta della misura patrimoniale, come reso evidente in caso di morte del titolare già pericoloso, ovvero di formale o fittizia intestazione, posto
che il bene è aggredibile anche in capo all’avente causa, a titolo universale o particolare.
Il giudice del merito è tenuto, in caso di confisca, non soltanto a ricostruire le specifiche condotte indicative dell’inquadramento del soggetto nella categoria tipica di pericolosità, che resta una condizione irrinunziabile per la irrogazione della confisca, benché non ne sia richiesta la sussistenza al momento dell’adozione della misura, ma anche a delimitare in chiave storica il periodo caratterizzato dalla attitudine alla produzione di reddito illecito, escludendo dall’area di possibile intervento ablatorio gli acquisti verificatisi in moment antecedenti, proprio in quanto «non ricadenti» in tale ambito temporale.
Si è, così, affermato che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo con la precisazione che, mentre con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibi proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262605).
La necessità di apprezzamento della «correlazione temporale» tra la complessiva manifestazione di pericolosità del soggetto e le acquisizioni patrimoniali oggetto di ablazione comporta che, a monte e a giustificazione dell’ablazione, sia accertata la commissione di reati suscettibili di produrre lucro, posto che la misura della confisca, per rispettare il carattere funzionale e la natura giuridica di misura di prevenzione, deve ricadere su beni che, pur in rapporto alla semplificazione probatoria rappresentata dal giudizio di sproporzione, risultano derivare, sia pure in senso ampio, dalla attività contra legem posta in essere dal soggetto riconosciuto come portatore di pericolosità tipizzata.
Il decreto impugnato, posta la infondatezza delle deduzioni difensive sul punto della denuncia del vizio di violazione di legge ai fini dell’inquadramento del presupposto della pericolosità sociale dei proposti, ha esaminato adeguatamente, attraverso il rinvio alle statuizioni contenute nel decreto dell’11 marzo 2015 del Tribunale Trapani e nel successivo decreto della Corte di appello di Palermo del 13 dicembre 2019, ormai definitivi, il presupposto della pericolosità sociale dei proposti: da qui la manifesta infondatezza anche del denunciato vizio di inesistenza della motivazione.
3. Come si è detto in premessa, la Corte territoriale, pur esaminando l’aspetto della correlazione temporale, lo ha ritenuto in concreto privo di rilevanza poiché ha ritenuto che le tre società confiscate (Nicosia NOME RAGIONE_SOCIALE Vincenzo RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE) costituiscono “frutto” del reato di cui all’art. 12-quinquies, d.l. n. 306 cit. e, pertanto, beni o utilità assoggettabili a confisca ai sensi dell’art. 24 d.lgs. n 159 cit.
Tale disposizione indica i beni che possono essere oggetto di confisca individuandoli in quelli di cui la persona nei cui confronti è iniziato procedimento «non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilit a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fin delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego».
Sulla scorta della disposizione di cui all’art. 24, d. Igsl. n. 159 cit. occorre, primo luogo, sottolineare l’autonomia della nozione di “beni di valore sproporzionato” da quella di beni che possono essere oggetto di confisca perché frutto e reimpiego di attività illecita.
Questi ultimi sono i beni suscettibili di confisca o perché costituiscono il risultato empirico dell’attività criminosa, ovvero perché costituiscono le utilità economiche conseguite per effetto della consumazione della condotta illecita. Ne costituiscono, invece, il reimpiego, i beni, correlati indirettamente alla condotta criminosa, che realizzano l’impiego in attività economiche dei vantaggi economici che ne sono derivati.
Presupposti GLYPH oggettivi GLYPH della GLYPH misura GLYPH di GLYPH prevenzione GLYPH patrimoniale, vicendevolmente autonomi, sono, dunque, rappresentati da caratteristiche del bene nella disponibilità del prevenuto in quanto o di valore sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta dal medesimo, ovvero frutto di attività illecita ovvero reimpiego di essa, come positivamente accertato sulla base di sufficienti indizi.
La descritta autonomia normativa intercorrente, ai sensi dell’art. 24 cit., tra il requisito di sproporzione e il riferimento al frutto o reimpiego del bene derivante da attività illecita fonda la ragionevole conclusione che, ai fini della confisca, non è necessario che alla sproporzione si accompagni anche l’acquisizione del bene in un periodo contestuale o successivo al manifestarsi dell’appartenenza del proposto alle categorie di soggetto pericoloso, pur rimanendo necessaria la verifica di tale appartenenza, trattandosi di elemento sintomatico dell’origine illecita del bene, coerente con la commissione dei delitti
maggiormente idonei alla produzione di frutti illeciti da reimpiegare nell’acquisto del bene.
Non è necessaria, dunque, né la coesistenza del parametro della sproporzione con la rilevata provenienza illecita dei beni né il nesso di pertinenzialità della confisca di prevenzione con una determinata tipologia di illecito.
L’acquisto operato da una persona pericolosa, come si è detto innanzi, non perde il carattere genetico illecito, divenuto immanente connotato del bene, e il decorso del tempo, o comunque la cessazione della pericolosità del soggetto o qualunque ragione che non consenta l’applicazione della misura di prevenzione personale, non può avere l’effetto positivo di autorizzare il possesso del bene da parte di colui che lo ha illecitamente acquisito quando era pericoloso e ne ritrae la conseguente utilità economica.
Il limite della dell’operatività della confisca, che la rende compatibile con i principi costituzionali e con la normativa comunitaria, è costituito, piuttosto, dalla riconosciuta facoltà per il proposto di fornire la prova della legittima provenienza dei suoi beni.
Il concetto di “frutto” di attività illecite allude alle utilità economi direttamente conseguite per effetto della realizzazione della condotta illecita, mentre nella nozione di “reimpiego” vengono fatti rientrare i beni che presentano una correlazione indiretta con la condotta criminosa, come, ad esempio, l’impiego in attività imprenditoriali dei vantaggi economici che ne derivano.
La locuzione usata dal legislatore, dunque, viene sostanzialmente a coincidere con la nozione di “provento del reato”, elaborata a livello internazionale (ad esempio nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, approvata a Palermo il 16 dicembre 2000) e sovranazionale (da ultimo, ad esempio, nel Regolamento UE/2018/1805, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca, nel quale si fa rifermento a «ogni vantaggio economico derivato, direttamente o indirettamente, da reati, consistente in qualsiasi bene e comprendente successivi reinvestimenti o trasformazioni di proventi diretti e qualsiasi vantaggio economicamente valutabile»).
3.1.La Corte di appello di Palermo ha fatto coerente applicazione dei descritti principi in relazione a ciascuna delle società oggetto di confisca e ai rispettivi compendi aziendali poiché, sulla base di elementi di fatto dotati di sicura valenza indiziaria, ha ritenuto che fosse accertata la interposizione fittizia di NOME COGNOME
Con riferimento alla società RAGIONE_SOCIALE, ha ritenuto confermato il fatto di interposizione – rivelato dall’occulto rapporto societario tra
Mazara NOME e NOME COGNOME – sia sotto l’aspetto oggettivo che soggettivo, essendo stati riscontrati altresì indici di sproporzione, confermati dall’analisi economica extracontabile, che hanno asseverato l’impiego nell’attività di impresa di illecite risorse da nascondere, e certa, infine, in capo a NOME COGNOME la consapevolezza della condizione soggettiva del COGNOME (a tal riguardo sono state richiamate le conversazioni intercettata tra NOME COGNOME e NOME COGNOME).
Con riferimento alla società RAGIONE_SOCIALE – sottoposta a sequestro solo nell’anno 2014, data indicata come “cessazione della pericolosità sociale del Mazzara – la Corte di appello ha precisato che solo con la cessazione del rapporto di signoria con il bene oggetto di intestazione fittizia – reato a consumazione istantanea – si è verificata la cessazione del giudizio di pericolosità sociale del Mazzara a fronte dell’accertamento, contenuto nella sentenza di dichiarata prescrizione dei reati, della interposizione fittizia realizzata da NOME COGNOME vero dominus della società.
Parimenti la Corte di appello ha ritenuto accertata la riconducibilità a NOME COGNOME della società RAGIONE_SOCIALE, società costituita nell’anno 2007 e coinvolta nelle iniziative imprenditoriali del Mazzara a cominciare da quelle relative al terreno di C.da Battaglia acquistato, nell’anno 2011, dalla società e promesso in vendita a NOME COGNOME per la realizzazione di un progetto edificatorio relativo alla costruzione di 17 villette. NOME COGNOME – il dato è accertato da una conversazione intercettata con il nipote – aveva anche tentato di coinvolgere la società, sempre nell’anno 2011, nell’acquisto di un villaggio turistico in S. INDIRIZZO Lo Capo, utilizzandola come acquirente figurata.
Anche per NOME COGNOME dunque, a smentita delle tesi difensive svolte con il ricorso, il decreto impugnato ha evidenziato dati di sicura valenza indiziaria per ritenere accertata la riconducibilità della società a NOME COGNOME
La Corte di appello (pag. 34) ha, pertanto, affermato “che, prima ancora che acquisite o finanziate dal Mazzara in costanza di grave sperequazione economica tra entrate e uscite, le società RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE sono ex se suscettibili di confisca di prevenzione, a prescindere dalla dimostrazione della correlazione con lo squilibrio delle risorse economiche dei ricorrenti, quali compartecipi in parte qua, ai delitti presupposti che ne hanno disegnato le rispettive pericolosità”.
Osservano i giudici di appello che il defunto COGNOME celando “le proprie preponderanti cointeressenze nelle società indicate al fine di eludere le misure di prevenzione col concorso della moglie e del Nicosia, ha, all’evidenza, determinato la trasformazione di ciascuna di esse nel frutto di un reato, creando l’apparenza di una loro diversa titolarità, suscettibile di eludere le legittim
aggressioni patrimoniali dello Stato e rendendo idonei i rispettivi compendi aziendali ed i relativi profitti, ai successivi reimpieghi, cosa del resto verificata come ben evidenziato nella parte motiva della sentenza nel decreto della Corte d’appello del 2018/2019, nella parte in cui descriveva le modalità e gli scopi delle interposizioni fittizie, presupposti questi indefettibili della pericolosità soci qualificata e generica del Mazara”.
3.2.Ritiene il Collegio corretta la qualificazione delle società indicate come “frutto” del reato di cui all’art. 12-quinquies d.l. n. 306 cit., categoria che, secondo l’inquadramento del decreto impugnato, riconduce all’applicazione della confisca di prevenzione ai sensi dell’art. 24, ult. parte, del d. Igs. n. 159 cit.
La Corte di appello, in fatto, ha ritenuto accertato che le società indicate, riconducibili al dominio del Mazzara fino al momento del loro sequestro, erano state tutte intestate a terzi ed erano state utilizzate l’una nelle acquisizion immobiliari, l’altra nella realizzazione di progetti edilizi su immobili acquisiti da prima e l’ultima, più squisitamente, nel settore edilizio ad ampio raggio, il tutto con la trasformazione ed il reinvestimento illecito dei rispettivi profitti, decuplica e schermati al fine di eludere la potestà ablatoria dello Stato.
La Corte di appello ha, inoltre, richiamato un precedente della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, costituisce profitto del reato non solo il vantaggio costituito dall’incremento positivo della consistenza del patrimonio del reo, ma anche qualsiasi utilità o vantaggio, suscettibile di valutazione patrimoniale o economica, che determina un aumento della capacità di arricchimento, godimento ed utilizzazione del patrimonio del soggetto, fattispecie in cui si era affermato che il profitto derivante dal reato di cui all’art. quinquies, dl. n. 306 del 1992 è autonomo rispetto a quello conseguente al reato di cui all’art. 646 cod. pen., in quanto consiste nella oggettiva facilitazione del godimento e della disponibilità dei beni illecitamente acquisiti attraverso quest’ultimo, per effetto delle modalità di fraudolento trasferimento (Sez. 5, n. 20093 del 31/10/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 263832).
Il decreto impugnano ha, dunque, ricondotto alla nozione di profitto del reato in relazione al reato di cui all’art. 12-quinquies, d.l. n. 306 cit. non solo il vantaggio costituito dall’incremento positivo della consistenza del patrimonio del reo, derivante dalle società costituite, simulandone la titolarità di terzi, ma anche qualsiasi utilità o vantaggio suscettibile di valutazione patrimoniale o economica derivante dalle attività economiche delle predette società, utilità o vantaggi che sono suscettibili di dare luogo a ulteriori condotte di riciclaggio, ricettazione reimpiego, e che sono considerati pericolosi in virtù di una sorta di “proiezione sul bene” della pericolosità del soggetto che ne dispone.
Le società oggetto della interposizione fittizia, riconducibili, secondo le categorie dell’illecito penale, alla nozione di profitto del reato di cui all’art. cod. pen., in quanto costituiscono il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita, rientrano, invece, secondo le categorie rilevanti ai fi della prevenzione, nella nozione di beni, frutto di attività illecite, una nozione che rinvia, e ricomprende, non solo il prodotto, il profitto o il prezzo del reato (secondo le nozioni definite nell’art. 240 cod. pen.), ma anche un bene attribuito, con finalità elusiva, a soggetto diverso, trattandosi di un bene che assume, non soltanto nel mondo economico ma anche sotto il profilo squisitamente fenomenico, una apparenza ed una configurazione formale nuovi rispetto a quello che lo caratterizzavano in precedenza.
Osserva, in conclusione, la Corte di appello che anche il delitto di cui all’art. 12-quinquies. d.l. n. 306 cit. può di per sé produrre un profitto, atteso che l’interposizione posta in essere dal soggetto in condizioni di pericolo di ablazione o meglio la condotta dello stesso di fare fraudolentemente figurare apparenti titolari dei propri beni e delle proprie attività economiche anche altri soggetti non esposti, differentemente da sé, all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale consente all’autore di trarre un oggettivo vantaggio economicamente apprezzabile, costituito dalla possibilità di mantenere, in palese dispregio della ratio della disposizione di cui all’art. 12-quinquies, di. n. 306 cit., il godimento e la disponibilità, con correlativo sfruttamento economico di ricchezza illecita.
Deve ritenersi ormai acquisito, pertanto, che il profitto delle attività oggetto di fittizia intestazione “assume carattere illecito proprio in quanto apparente titolare dello stesso è soggetto diverso da quello esposto all’applicazione della misura di prevenzione e, quindi, esposto alle misure ablatorie; diversamente opinando si finirebbe con attribuire un effetto “sanante” allo svolgimento di attività produttive di effetto economico pur oggetto di iniziale intestazione fittizia, in palese dispregio dello scopo della norma.
E’ proprio dall’analisi strutturale dell’art. 12-quinquies d.l. n. 306 cit. che può dedursi la congruità di tale fattispecie a fungere quale presupposto dei delitti di cui agli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen., dovendosi sottolineare l’esigenza di annettere alla struttura normativa una funzione di “reato ostacolo”, in linea con la segnalata esigenza di impedire la accumulazione, il godimento e lo sfruttamento economico di beni in capo ai soggetti sospettati di appartenere ad organizzazioni mafiose, attraverso le più varie – e, nella specie, normativamente innominate – condotte tese a scongiurare il rischio di misure di prevenzione patrimoniali” (così Sez. 2, n. 43144 del 10/8/2017, COGNOME, non mass.,
richiamata – al pari delle precedenti – dalla recente Sez. 2. n. 23233 del 27/4/2022, COGNOME, anch’essa non massimata).
4.Anche il secondo motivo di ricorso, comune alla COGNOME e a NOME e NOME COGNOME, è infondato.
4.1.1 ricorrenti sostengono che la misura della confisca è priva di base legale perché i tre episodi ex art. 12-quinquies dl. n. 306 cit., ascritti a NOME COGNOME, ritenuti commessi negli anni 2001, 2007 e 2008, erano antecedenti alla entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 che ha aggiunto alle ipotesi sintomatiche della pericolosità sociale qualificata – all’epoca annoverate dall’art. 1 della legge n. 575 del 1965 – anche il reato di cui all’art. 12-quinquies d.l. n. 306 cit. (reato oggi trasfuso nell’art. 512-bis cod. pen.).
Secondo i ricorrenti sarebbe irrilevante il tema evocato dalla Corte di appello, sulla impossibilità di assimilare la confisca di prevenzione alla sanzione penale, e dunque di applicare gli artt. 25 Cost.,6 e 7 CEDU e 2 cod. pen., così come sarebbe erroneo in diritto il richiamo all’art. 200 cod. pen..
Evidenziano i ricorrenti che proprio la sentenza 24 del 2019 della Corte costituzionale richiamata dalla Corte territoriale, nell’escludere la natura penale della confisca di prevenzione, aveva affermato che tali misure rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU, dovendo soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui la previsione attraverso una legge che possa consentire ai propri destinatari di prevedere la futura possibile applicazione di tale misure; l’essere la restrizione “necessaria” rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti e pertanto proporzionata rispetto ad essi; la necessità che l’applicazione sia disposta in esito ad un procedimento che rispetti i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge, assicurando in particolare la piena tutela del diritto di difesa di colu nei cui confronti la misura è stata richiesta.
Dunque, il tema sarebbe quello della impossibilità di applicare una norma imprevedibile al momento della commissione del fatto, in linea con la più recente evoluzione della giurisprudenza della Corte Edu.
I ricorrenti richiamano, a tal riguardo, la sentenza Gangemi contro Italia del 26 settembre 2024 (Corte Edu, n. 59233) che, seppur emessa in materia di prevenzione personale, formulerebbe principi perfettamente adattabili alla confisca.
4.2. Rileva la Corte che la sentenza RAGIONE_SOCIALE, muovendosi nel solco della sentenza COGNOME Tommaso c/Italia (espressamente richiamata), ha ravvisato la violazione del diritto alla libera circolazione stabilito dall’art. 2 Protoco
Addizionale n. 4, in relazione all’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi degli artt. 1, lett. a) e b), 6 e 8, d. Igs. n. 159 del 2011, ribadendo come fosse accertato che la legislazione italiana vigente – la I. n. 1423 del 1956 – non indicasse con sufficiente chiarezza la portata e le modalità di esercizio dell’amplissima discrezionalità conferita ai tribunali nazionali perché non formulata con sufficiente precisione.
Il paradigma di riferimento della sentenza COGNOME è costituito dalla libertà di circolazione e tale decisione ha chiarito che qualsiasi misura incidente sul diritto alla libertà di circolazione deve essere prevista dalla legge, perseguire uno dei fini legittimi di cui al terzo comma della medesima disposizione e trovare un giusto equilibrio tra interesse pubblico e diritti della persona.
Va, inoltre, ricordato che nella giurisprudenza della Corte Edu la necessaria previsione ad opera della legge delle misure restrittive dei diritti e delle libert del cittadino viene interpretata nel senso di imporre non solo che la misura contestata abbia una specifica base nel diritto interno, ma anche che essa sia accessibile alle persone interessate e che pertanto i suoi effetti siano prevedibili, ove la prevedibilità non equivale alla certezza assoluta, potendo diversamente implicare eccessiva rigidità e dovendo essere la legge in grado di adattarsi al mutare delle circostanze. In tale prospettiva una norma è prevedibile quando offre una misura di protezione contro le ingerenze arbitrarie da parte delle pubbliche autorità: una legge che conferisce la discrezionalità al pubblico potere deve dunque indicare la portata di tale discrezionalità.
In materia di misure di prevenzione personale, la sentenza COGNOME ha, dunque, ritenuto che la normativa italiana non fosse aderente al parametro della prevedibilità sotto il profilo dei tipi di comportamento che dovevano essere considerati pericolosi per la società e che giustificavano, di conseguenza, l’applicazione di misure di prevenzione incidenti sulla libertà di circolazione delle persone che erano sottoposte.
4.3. Come anticipato, il motivo di ricorso sul tema della prevedibilità di applicazione della confisca in relazione alle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, costituite dal Mazzara prima della entrata in vigore della I. 94 del 2009 che aveva introdotto la pericolosità qualificata in relazione alla commissione di fatti qualificati ai sensi dell’art. 12-quinquies d.l. n. 306 cit., era stato sollevato anche dinanzi alla Corte d’appello di Palermo, con allegazione di un precedente di merito, ma il decreto impugnato non ha condiviso la soluzione ermeneutica proposta dalla difesa rimarcando l’applicabilità, in materia di confisca di prevenzione, dell’art. 200 cod. pen. ed affermando, dopo avere richiamato la sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale, che la confisca di prevenzione non ha natura penale né più in generale sanzionatoria, con
conseguente inapplicabilità delle regole in materia di trattamento sanzionatorio di cui all’art. 2 cod. pen.
I ricorrenti propongono un inquadramento sistematico della materia della prevedibilità della misura di prevenzione reale, collegato alla natura tassativizzante della disposizione di cui all’art. 1, lett. b), del d. Igs. n. 159 così come precisata nella sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019 della Corte costituzionale, sul rilievo che “solo” tale decisione avrebbe conferito prevedibilità alla disposizione di cui all’art. 1, lett. b), d. Igs. n. 159 cit., interpretazione ch completerebbe, per effetto della sentenza COGNOME con la necessità della espressa previsione della Misura ablatoria: la sentenza COGNOME, essendo stata accertata una violazione di carattere strutturale o sistemico dell’ordinamento italiano in cui la Corte Edu ha riconosciuto una violazione di portata generale, sarebbe, pertanto, di immediata applicazione nel sistema processuale italiano.
4.4. Ritiene la Corte che le argomentazioni difensive sono infondate.
L’interpretazione proposta trascura la portata dell’inquadramento compiuto dalla sentenza n. 24 del 2019, che non è stato esaminato nella sentenza RAGIONE_SOCIALE, che, espressamente, non ha preso in considerazione la sentenza n. 24 del 2019 perché successiva al ricorso e alla espiazione della misura di sicurezza personale oggetto della decisione.
Soprattutto, l’interpretazione proposta si fonda su una valutazione parziale della ricostruzione contenuta nella sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019 che ha esaminato, fra gli altri, anche il tema della prevedibilità dell’applicazione della misura della confisca in relazione alla fattispecie di pericolosità di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), d. Igs. n. 159 cit.
Anche la Corte di cassazione, con i precedenti richiamati nella requisitoria del Procuratore generale, l’uno in materia di revocazione (Sez. 2, n. 27397 del 13/01/2023, Moceri, Rv. 284801), l’altro proprio in relazione all’applicazione della confisca, in relazione al reato di cui all’art. 12-quinquies dl. n. 306 cit., per fatti precedenti alla entrata in vigore della I. n. 94 del 2009 (Sez. 6, n. 45642 del 03/10/2024, COGNOME, Rv. 287372), ha parimenti esaminato il tema della prevedibilità dell’applicazione della misura di prevenzione al momento dell’acquisto dei beni, confermando la risalente giurisprudenza sull’applicabilità, alla misura della confisca, della disposizione di cui all’art. 200 cod. pen. e, quindi, delle norme vigenti al momento di applicazione della misura.
4.5. Rilevano, ad avviso della Corte, due principi che la sentenza n. 24 del 2019 ha affermato con riferimento alla natura della misura di prevenzione patrimoniale e al principio di prevedibilità dell’assoggettabilità a confisca del bene.
La Corte costituzionale ha, in primo luogo, ribadito la estraneità delle misure di prevenzione allo statuto delle sanzioni penali, costituendo, quelle personali, momenti limitativi della libertà di circolazione, in quanto tali assoggettate alla riserva di legge di cui all’art. 13, comma 2, Cost. e alla previsione di cui all’ar 2, § 3, Protocollo addizionale n. 4 alla Cedu, mentre quelle reali trovano i loro referenti costituzionali negli artt. 41 e 42 Cost. e convenzionali nell’art. 1 Protocollo addizionale Cedu.
Da qui la estraneità delle misure di prevenzione alle previsioni di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e all’art. 7 Cedu, riferibili alle sanzioni penali – nel caso, ancora oggi, indebitamente evocate dalla difesa – configurandosi le misure di prevenzione reali (sequestro e confisca) come interventi diretti a ripristinare la situazione precedente ad accumulazioni patrimoniali correlate, anche temporalmente, a condotte illecite sintomatiche della pericolosità sociale del soggetto attinto dalla ablazione e, pertanto, accomunate, in forza del richiamo alla pericolosità alle misure di sicurezza disciplinate dal codice penale, dalle quali tuttavia le prime si differenziano in quanto non presuppongono l’instaurarsi di un processo penale nei confronti del soggetto (§ 9.6 del Considerando in diritto).
Sufficiente e necessario a legittimare l’applicazione di una misura di prevenzione personale è, infatti, che l’attività criminosa – descritta nelle varie fattispecie elencate oggi nell’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011, e il cui riscontr probatorio funge da base sulla quale sviluppare il giudizio in ordine alla pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica – risulti da evidenze che la legge indica ora come «elementi di fatto», più spesso come «indizi»; evidenze che debbono essere vagliate dal tribunale nell’ambito di un procedimento retto da regole probatorie e di giudizio diverse da quelle proprie dei procedimenti penali.
La Corte costituzionale ha rilevato che, non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano, peraltro, misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzio (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. Addiz. CEDU).
Tali misure dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui – segnatamente -: a) la su previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futur possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. Addiz. CEDU); b) l’essere la restrizione “necessaria” rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Pr Addiz. CEDU), e pertanto proporzionata rispetto a tali obiettivi, ciò che
rappresenta un requisito di sistema anche nell’ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità che incide sui diritti dell’individuo alla luce dell’art. 3 Cost.; nonché c) la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU, nel suo “volet civil”), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misu sia richiesta.
Alla luce di tale interpretazione, letta attraverso la lente della prevedibilità collegata alla specifica materia (non penale) delle misure di prevenzione reali e in relazione al rango di tutela, costituzionale e convenzionale, assegnato al diritto di proprietà, la Corte costituzionale è pervenuta ad una decisione di rigetto della questione di costituzionalità dell’art. 1, lett. b), n. 2 I. n. 1423 del 1956 (er dell’art. 1, lett. b) del d. Igs. n. 159 cit.) sul rilievo che «in via interpretativa, la fattispecie presentasse contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali «casi» – oltre che in quali «modi» – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della
Ed è con riferimento a tale complessivo statuto della misura di prevenzione reale, e dopo avere richiamato espressamente “la garanzia della previsione per legge” tanto della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, quanto del sequestro e della confisca di prevenzione, che la Corte costituzionale ha dichiarato fondata la questione di illegittimità costituzionale concernente l’art. 1, lett. a), del d.lgs. n. 159 cit. e, viceversa, escluso fondatezza della questione relativa all’art. 1, comma 1, lett. b), d. Igs. n. 159 cit. alla luce della progressiva “tipizzazione” compiuta sia dal legislatore (attraverso una serie di interventi risalenti perlomeno al 1982), mediante il richiamo alle numerose tipologie specifiche di reato, tra cui quello di associazione mafiosa, tipologie oggi confluite nell’elenco tassativo contenuto nell’art. 4 del d.l.gs. n 159 del 2011, sia ad opera della giurisprudenza che, in relazione alle varie componenti della disposizione ( soggetti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» e a «coloro che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»), aveva compiuto uno sforzo per conferire maggiore precisione alla fattispecie di “pericolosità generica”, attraverso una lettura cd. tassativizzante che aveva riguardato le varie componenti della disposizione ai fini della definzione della categoria dei soggetti pericolosi. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.
La locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile, infatti, di essere interpreta come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato.
Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura.
Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito e, quanto, invece, alle misure patrimoniali del sequestro e della confisca, i requisiti poc’anzi enucleati dovranno – in conformità all’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di cui si è poc’anzi dato conto (al punto 10.3) – essere accertati in relazione al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l’illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare. Dal momento che, secondo quanto autorevolmente affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, la necessità della correlazione temporale in parola «discende dall’apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880), l’ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare» Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4.6. Ed è facendo applicazione di tali coordinate che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, in materia di revocazione, che in tema di misure di prevenzione patrimoniale non è esperibile il rimedio della revocazione di cui
all’art. 28, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nei confronti del provvedimento definitivo di confisca fondato sul giudizio di pericolosità ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), del citato d.lgs., nel caso in cui il propo eccepisca il difetto di “base legale” del provvedimento ablatorio, in quanto emesso in relazione a condotte tenute prima dell’entrata in vigore della normativa richiamata e, quindi, in forza di un’applicazione retroattiva della misura di prevenzione patrimoniale (Sez. 2, n. 27397 del 13/01/2023, COGNOME, Rv. 284801) e nella specifica materia della confisca di prevenzione applicata ad un soggetto per fatti antecedenti alla entrata in vigore della I. n. 94 del 2009 che aveva inserito una ipotesi qualificata di pericolosità sociale in relazione all’art. 12-quinquies, d.l. n. 306 cit. – ha escluso che tale norma avesse inserito una previsione di ablazione dei beni con effetto a sorpresa (Sez. 6, n. 45642 del 03/10/2024, COGNOME, Rv. 287372).
La sentenza COGNOME ha, infatti, riaffermato il principio secondo cui /in tema di misure di prevenzione, non opera il principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 25 Cost., bensì – in ragione della loro natura non sanzionatoria, ma preventiva, che le assimila alle misure di sicurezza – quello fissato dall’art. 200 cod. pen., per cui esse sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, sicché è consentito fondare il giudizio di pericolosità sociale qualificata su ipotesi di reato ritenute sintomatiche a tali fi in forza di una legge successiva alla commissione dei fatti.
A proposito della ragionevole prevedibilità degli effetti conseguenti alla violazione della base legale posta a fondamento degli interventi di prevenzione la sentenza ora citata ha osservato come «la novella del 2009 abbia finito per catalogare tra i fatti ritenuti ex lege sintomaticamente espressivi della pericolosità sociale, condotte di reato già puntualmente tipizzate (dal 1991) in termini di illecito penale, foriere di effetti ben più pregnanti rispetto a sottoposizione all’azione di prevenzione (perché fonte di responsabilità penale e al contempo motivo di applicazione della confisca allargata), tali da allertare senza incertezza il possibile destinatario del precetto quanto al disvalore delle condotte poi valorizzate anche in ottica preventiva. Il tutto con riguardo ad agiti illeciti che immediatamente si correlavano al tema della prevenzione, perché ontologicamente diretti proprio a neutralizzare l’efficacia dei relativi interventi prevenzione rispetto alle accumulazioni illecite realizzate nel tempo, così da rendere marcatamente inconferente il tema della non prevedibilità degli effetti legati alle dette condotte».
4.7. Solo per completezza è opportuno evidenziare che, in materia di confisca di prevenzione, rileva, per i più attuali riferimenti alla natura di ta misura, la sentenza Garofalo c/Italia, del 21 gennaio 2025, successiva al decreto
impugnato, che ha esaminato la natura della confisca di prevenzione di cui agli artt. 1 e 4 d. Igs. n. 159 del 2011, escludendone la riconducibilità alla categoria delle sanzioni penali ai sensi dell’art. 7 CEDU, e che, invece, ha attribuito rilievo decisivo alla finalità “ripristinatoria” della misura della confisca di prevenzione, valorizzando le precisazioni recate dalla sentenza COGNOME e dalla sentenza n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale.
La Corte Edu, pur riconoscendo gli effetti para-punitivi della confisca di prevenzione, ha ritenuto prevalente la natura preventiva e ripristinatoria della misura di cui all’art. 1, commi 1 e 2, I. 1423 del 1956 – oggetto del ricorso precisando che “la finalità della misura fosse quella di evitare l’ingiusto arricchimento derivante da reati, privando i soggetti proposti di profitti illeciti”.
Secondo la Corte “limitare la confisca ai profitti illeciti derivanti da reat commessi presumibilmente dal soggetto proposto è una caratteristica importante che esclude la sua natura sanzionatoria”.
In conclusione la Corte Edu ha ritenuto che la principale finalità della misura di prevenzione reale fosse quella di evitare l’ingiusto arricchimento derivante da reati, privando i soggetti proposti di profitti illeciti. Osserva che nella su giurisprudenza prevalente le misure che perseguivano tale obiettivo erano state generalmente considerate aventi un fine ripristinatorio anziché sanzionatorio, riconosciuto, invece, “a quelle misure dirette più ampiamente nei confronti dei proventi di attività illecite, compreso del loro prodotto, senza limitarsi all’effetti arricchimento o profitto”.
4.8.Facendo applicazione dei principi fin qui descritti ritiene la Corte che siano corrette le conclusioni della Corte di appello di Palermo, descritte al punto 3 che precede, nella parte in cui ha ritenuto applicabile la misura della confisca in relazione alle società nelle quali, attraverso le fittizie intestazioni, era sta interessato NOME COGNOME valorizzando fatti di interposizione che, al di là della sottoposizione a processo penale o del suo esito (conclusosi quello relativo alla società Nicosia NOME & NOME con decreto di archiviazione per prescrizione; quello relativo alla RAGIONE_SOCIALE con sentenza di prescrizione dei reati, dichiarata in appello; le evidenze descritte in relazione alla società COGNOME, intestata alla moglie e a NOME COGNOME, prestanome del COGNOME anche nella RAGIONE_SOCIALE), denotano la fittizia intestazione delle stesse, nei cui affari il COGNOME continuava in concreto a ingerirsi.
La Corte di appello ha individuato solidi elementi di fatto che costituiscono la piattaforma probatoria delle sue conclusioni, riconducendoli alle fattispecie delittuose di cui all’art. 12-quinquies, d.l. n. 306 cit. , vigente fin dall’anno 1992, e, anzi, precisando che le reiterate attività, che conducevano ad un vero e proprio “sistema” organizzativo delle attività imprenditoriali facenti capo al
COGNOME ne denotavano in modo significativo lo stile di vita / avendo il proposto consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita, per periodi significativi, attraverso meccanismi societari nei quali aveva coinvolto svariati soggetti, meccanismi che sono risultati produttivi di redditi illeciti.
Non contrasta con la delineata nozione di profitto illecito, individuato nella sentenza n. 24 della Corte costituzionale e nella sentenza COGNOME, la realizzata ablazione delle società, dei beni aziendali e dei profitti conseguiti poiché, come ben evidenziato nel decreto impugnato, in relazione al reato di cui all’art. 12quinquies, d.l. n. 306 cit., il profitto non è costituito solo dal vantaggi rappresentato dall’incremento positivo della consistenza del patrimonio del reo derivante dalle società costituite, simulandone la titolarità di terzi – ma anche da qualsiasi utilità o vantaggio suscettibile di valutazione patrimoniale o economica derivante dalle attività economiche delle predette società, utilità o vantaggi che sono suscettibili di dare luogo a ulteriori condotte di riciclaggio, ricettazione o reimpiego, e che sono considerati pericolosi in virtù di una sorta di “proiezione sul bene” della pericolosità del soggetto che ne dispone.
Anzi, il profitto delle attività oggetto di fittizia intestazione “assum carattere illecito proprio in quanto apparente titolare dello stesso è soggetto diverso da quello esposto all’applicazione della misura di prevenzione e, quindi, esposto alle misure ablatorie; diversamente opinando si finirebbe con attribuire un effetto “sanante” allo svolgimento di attività produttive di effetto economico pur oggetto di iniziale intestazione fittizia, in palese dispregio dello scopo della norma”.
5.11 quinto e il sesto motivo di ricorso proposti nell’interesse di NOME COGNOME sono generici e manifestamente infondati e possono essere esaminati congiuntamente per la connessione tra le deduzioni sul requisito della sproporzione che, allegato con il quinto motivo, è oggetto di più articolato esame con il sesto motivo di ricorso.
La ricorrente denuncia la mancanza di motivazione sul punto della disponibilità di tutti i beni intestati a NOME COGNOME in capo a NOME COGNOME e contesta che è erronea la prospettazione del decreto impugnato sia con riguardo al giudizio di pericolosità sociale del marito, NOME COGNOME, che sulla sproporzione e sulla circostanza che la COGNOME non fosse titolare di redditi autonomi perché ella, quale imprenditrice agricola autonoma dal 1994, aveva accumulato un reddito (pari a ca. tre milioni di euro), mantenutosi inalterato negli anni. La ricorrente evidenzia, infine, che non sussistono i presupposti per ritenere comprovata l’intestazione fittizia che, ai fini della confisca, deve essere oggetto di adeguata dimostrazione probatoria e non può fondarsi sulle mere
presunzioni che, a norma dell’art. 19 d. Igs. n. 159 del 2011, giustificano gli accertamenti patrimoniali sui conviventi del proposto.
La giurisprudenza di legittimità è univoca nel ritenere che il sequestro e la confisca di prevenzione possono avere ad oggetto i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi, dovendosi ritenere che il prevenuto ne abbia la disponibilità e li faccia apparire formalmente come beni nella titolarità delle persone di maggior fiducia, sulle quali grava, pertanto, l’onere di dimostrare l’esclusiva disponibilità degli stessi onde sottrarli alla confisca (Sez. 2, n. 7346 del 17/01/2023, COGNOME, Rv. 284387).
Sul coniuge e sugli altri conviventi grava l’onere di dimostrare che i beni sono di loro esclusiva proprietà quando possano dimostrare il possesso di redditi autonomi, idonei a giustificare l’acquisto.
Il decreto impugnato ha richiamato, sul primo aspetto, “il giudicato” che si era formato sull’attribuibilità al COGNOME dei beni formalmente intestati alla Barone, e, in particolare, della società RAGIONE_SOCIALE, costituita nell’anno 2007, aspetto questo già esaminato dal decreto del Tribunale del 11 marzo 2015 e dal decreto della Corte di appello del 13 dicembre 2019, che non erano stati oggetto di specifica impugnazione con il ricorso per cassazione. Soprattutto, la Corte di appello ha valorizzato gli elementi che rinviavano alla gestione della società in capo al COGNOME, “utilizzata per acquistare beni immobili personali di NOME COGNOME” e che restavano nella disponibilità di questi, in particolare il complesso immobiliare ubicato in Buseto Palizzolo, c.da MentaINDIRIZZO
Nella contabilità della società RAGIONE_SOCIALE venivano infatti, rinvenuti i titoli per i pagamento dell’immobile, provenienti da flussi riconducibili al Mazzara.
Il decreto richiamava, infine, una conversazione del 7 gennaio 2011, intervenuta tra COGNOME e il nipote, che discutevano della possibilità di utilizzare la società RAGIONE_SOCIALE per l’acquisto di un villaggio turistico in San Vito Lo Capo.
L’allegazione di autonomi redditi della Barone è rimasta mera asserzione, del tutto genericamente evocata, tenuto conto che la ricorrente, anche in fase di merito, non aveva indicato una specifica correlazione tra l’attività svolta e i singoli acquisti, pur a prescindere dal rilievo che anche i redditi del nucleo familiare hanno costituito oggetto dell’esame dei periti pervenuti alla conclusione della ricostruzione di saldi scalari negativi delle risultanze così aggregate, negli anni dal 1980 al 2011.
Può, dunque, affermarsi che il motivo di ricorso della Barone, nella parte in cui non si risolve in affermazioni meramente assertive, trova un ostacolo nella preclusione processuale.
5.1. Il dedotto vizio di violazione di legge, evocato dal ricorso con rinvio alla carenza di motivazione, non sussiste, tenuto conto che in tale nozione non rientra la sottovalutazione di argomenti difensivi in realtà presi in considerazione dal giudice o, comunque, assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del decreto impugnato (S.U., n. 33451 del 29 maggio 2014, Repaci, in motivazione).
Il decreto impugnato ha esaminato anche il requisito della sproporzione fondato sull’esito delle perizia che aveva costituito oggetto di approfondimento, sulla scorta delle deduzioni dei consulenti tecnici di parte, attraverso le relazioni integrative prodotte dai periti il 14 maggio 2014 e il 9 luglio 2014, seguite dall’escussione dei periti esaminati all’udienza del 17 settembre 2014, nonché dalla perizia integrativa del 14 dicembre 2021 e dall’esame del perito escusso, da ultimo, all’udienza del 23 marzo 2023 / rispondendo, punto er punto, sulle note tecniche difensive elencate nella memoria difensiva e Zrudocumentazione prodotta nell’interesse del COGNOME (fatture; mezzi di pagamento tracciabili; finanziamenti pubblici percepiti dal 1988 al 2008; dichiarazioni I.V.A. nel periodo 1985-1985; altra documentazione allegata alla consulenza tecnica di parte):documentazione che il perito ha, conclusivamente, ritenuto del tutto parziale.
Il perito, in esito alle successive interlocuzioni, ha confermato le conclusioni cui era pervenuta la perizia iniziale, in tema di sperequazione descritta nella tabella comparativa con indicazione del differenziale annuo, e, con riferimento alle spese annuali, fondata, per gli anni in cui il collegio peritale aveva avuto a disposizione gli estratti conto bancari, sulla sommatoria degli addebiti registrati nei conti correnti bancari, che “costituiscono un dato fisso e incontrovertibile”.
Il perito ha, infine, redatto una nuova tabella comparativa – a partire dall’anno 1980 e fino all’anno 2011- con individuazione della differenza progressiva, accumulata fino ad ascendere a 1.549.614,89 nell’anno 2011, e sostanzialmente irrilevante fino all’anno 1985 (nell’importo di euro 15.153.70), ritenuto scarsamente significativo a causa della quasi totale assenza di documentazione relativa ai redditi e operazioni I.V.A. e tenendo in conto anche la congruità degli investimenti immobiliari ascendenti, nell’anno 2011, a euro 1.959.115,52 (senza tenere conto dei maggiori valori derivanti dalla valutazione di congruità degli investimenti immobiliari ) ovvero a euro 2.472.911,66 (tenendo conto dei maggiori valori derivanti dalla valutazione di congruità degli investimenti immobiliari).
5.2. La ricorrente contesta, in particolare, il metodo di calcolo seguito dai periti per la ricostruzione della sproporzione perché nei calcoli non si è tenuto conto del surplus dell’anno precedente; per la mancata valorizzazione di differenze annue positive o pari a zero ovvero di saldi negativi, ma di valore
inconsistente; per l’erroneo computo delle entrate ingiustificate (ascendenti a euro 3.960.457,76), perché risultato di un approccio formalistico, non essendo stato individuato il corrispondente documento contabile e delle rimanenze poiché, fino all’anno 2010, sussisteva una eccedenza di fatturato per 2.145.587, 44 euro (importo che il perito ha ritenuto non giustificato sol perché non fatturato), importi, calcolati i quali, si determinerebbe un ammontare decisamente inferiore pari a 1.778.735,42
La difesa ha escluso, attraverso la consulenza, che si trattasse di entrate illecite e documentato che le entrate bancarie erano certamente riferibili ad operazioni commerciali agricole con la conseguente necessità di rettificare l’importo indicato dal perito, che ha escluso la sussistenza di tali importi sol perché non esisteva la prova del rapporto sottostante (vendita di prodotti, prestiti agrari, prestiti tra padre e figlio).
5.3. La Corte di appello, su ciascuno di tale aspetti, ha fornito adeguata risposta alle deduzioni difensive, in primo luogo rilevando che la difesa ha chiesto di calcolare importi tra i quali non potevano comprendersi le entrate “ingiustificate” pari a complessivi euro 3.960.457,76, posto che la giustificazione delle entrate non derivava solo dalla loro tracciabilità – secondo la tesi della ricorrente – ma richiedeva la esatta imputazione ad una causa sottostante lecita, nel caso non dimostrata e riconducibile, per la maggior parte (euro 2.513.968), ad assegni di conto corrente fra l’altro non a traenza diretta ma per girata; per euro 211.472 da assegni circolari e per 199.806,14 da bonifici o da movimentazioni in contante (per un importo di 841.779,63 euro).
Si tratta, come precisato alle pagg. 53 e ss. del decreto di documenti (fatture, bonifici, assegni), “tracciabili” – ovvero di cui vi è traccia documentale dell’operazione economica – ma non giustificati con riferimento alle operazioni sottostanti, perché privi di adeguato supporto documentale non fornito dall’interessato, che si era limitato ad asserire che si trattasse di entrate “lecite”. Secondo la ricorrente, peraltro, anche tenuto conto dell’eccedenza registrata fino all’anno 2010 e pari a 2.145.587 euro, lo sbilancio sarebbe decisamente inferiore, e pari a soli euro 1.778.735,43 di importo, comunque, oggettivamente elevato.
Nel decreto impugnato i rilievi difensivi, basati sulla consulenza di parte, risultano essere stati esaminati e disattesi con articolate argomentazioni e le conclusioni raggiunte circa la provenienza della società confiscata e i beni aziendali – non suscettibili di integrare violazione di legge – si sostanziano nella deduzione del vizio di motivazione, non potendosi ravvisare gli estremi della motivazione omessa o apparente.
La Corte di appello ha puntualmente ricostruito la situazione patrimoniale del proposto e della ricorrente, dando atto dell’insanabile sproporzione tra i redditi lecitamente maturati e gli acquisti di beni che si sono succeduti nel corso del tempo.
Parimenti sono stati esaminati i contributi pubblici ricevuti, escludendo dal calcolo solo importi che risultavano privi di giustificazione contabile e, dunque, somme di dubbia provenienza.
A differenza di quanto dedotto dalla ricorrente, la Corte di appello ha fornito un’esauriente motivazione con riguardo a ciascuna deduzione, indicando espressamente le ragioni dalle quali desumere l’incertezza circa la liceità dell’operazione sottostante alle movimentazioni bancarie: ciò che richiede la ricorrente è, dunque, una rivalutazione nel merito ed in punto di fatto di tali conclusioni, il che, tuttavia, non è consentito in sede di legittimità.
6.Anche il settimo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La ricorrente sostiene che, depurato dall’importo innanzi indicato, andrebbe scorporata dalla somma anche l’imposta evasa, in materia di I.V.A., perché ascendente ad una somma di poco superiore ai trentamila euro negli anni dal 2002 al 2009.
Anche a tal riguardo la Corte di merito, posta la premessa che la misura di prevenzione è stata adottata in relazione alla fittizia intestazione dei beni, in realtà facenti capo al COGNOME, ha fatto corretta applicazione dei principi di questa Corte secondo cui, in tema di confisca di prevenzione di cui all’art. 2-ter legge 31 maggio 1965, n. 575, la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, atteso che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti i beni che siano frutto di attività illecite costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso. (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260244).
Non ignora il Collegio che lo stesso non è a dirsi per il terzo interessato allorché intende rivendicare la disponibilità dei beni, poiché egli – non essendo socialmente pericoloso e non essendo soggetto cui può applicarsi la confisca di prevenzione, che può attingere i beni di cui egli è intestatario, e apparentemente a lui riferibili, nella misura in cui non siano nella effettiva disponibilità soggetto socialmente pericoloso e siano frutto delle attività illecite di quest’ultimo o ne costituiscano reimpiego- può provare di averne acquisito l’effettiva disponibilità anche in forza di evasione fiscale, fermo restando che, qualora ne ricorrano i presupposti, potrà disporsi nella sede propria una ablazione nei suoi confronti in relazione alle sue condotte.
Purtuttavia, l’adesione al principio qui non condiviso da parte della Corte di merito, non incide sulla confisca dei beni intestati alla ricorrente in ragione del ritenuto difetto di prova di tali entrate e della genericità dell’allegazione difensiva, secondo cui gli importi delle somme evase nel periodo 1996/2011 sarebbero stati di importo contenuto anche in ragione dell’aliquota I.V.A. agevolata per le imprese agricole, e a prescindere dalla riferibilità o meno alla ricorrente delle disponibilità economiche in discorso.
Al di là della correttezza dei calcoli, non può certo ritenersi che l’evasione sia stata “puntuale, circoscritta e unisussistente”, senza effettivo reimpiego, circostanze, queste, che, ove sussistenti, renderebbe problematica la individuazione della quota non confiscabile.
Ragion per cui la censura de qua non ha incidenza effettiva sulla decisione, difettando di specificità.
7.In relazione al secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME le allegazioni difensive sono del tutto incongrue poiché, ai fini del suo giudizio di pericolosità sociale, rileva non già il decreto del Tribunale di Latina, ma la decisione irrevocabile a suo carico, in forza della sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione del 29 settembre 2020, che ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso il decreto di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza applicatogli con decreto del Tribunale di Trapani e confermato dalla Corte di appello di Palermo il 26 novembre 2018.
Come osservato nel provvedimento oggi impugnato (pag. 4 e ss.), nella parte in cui riassume i fatti accertati a carico del ricorrente, NOME COGNOME veniva sottoposto a indagini, insieme al COGNOME, nel procedimento penale n. 6566/1999 (poi archiviato per intervenuta prescrizione), perché individuato quale prestanome del COGNOME, che gli aveva intestato il 50% delle proprie quote nella società “RAGIONE_SOCIALE“. Egli veniva inoltre indicato come socio occulto del Nicosia sia da NOME COGNOME – responsabile della estorsione ai danni della società per la costruzione di alcune villette – che riferiva di avere ricevuto proprio dal COGNOME il pagamento dei lavori di scavo, eseguiti per conto della società sia dalle conversazioni intercettate, intercorse tra Nicosia e tale COGNOME, dalle quali emergeva come il COGNOME fosse indicato dal “socio” come ~4″ la persona che asma un autonomo e insindacabile potere di direttiva nella compagine societaria e come la persona (ve la dovete vedere con COGNOME) alla quale il COGNOME rinviava il suo interlocutore per il pagamento delle estorsioni che gli venivano avanzate.
8.Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti contestano che sia stata disposta la confisca di “beni personali” dei Nicosia, pur se venuti in essere o acquistati prima dell’inizio della pericolosità sociale di Nicosia NOME, beni riconducibili alle quote della società intestati alla RAGIONE_SOCIALE nonché beni mobili o immobili acquistati prima del 2001, momento della ritenuta pericolosità sociale di NOME COGNOME e della intestazione fittizia della società e dei beni intestati alla società RAGIONE_SOCIALE fra i quali un hotel realizzato ultimato ben 24 anni prima della contestata pericolosità sociale.
La Corte di appello ha precisamente esaminato le censure difensive in merito ai beni acquistati prima del 1998 dalla RAGIONE_SOCIALE (un immobile in Erice; una gru gommata e un terreno e capannone in località Ospedaletto e relativa costruzione ) e, con argomentazioni non controvertibili, ha spiegato che, trattandosi non di beni personali dei ricorrenti / ma di beni della società RAGIONE_SOCIALE, era irrilevante l’acquisto o la realizzazione prima dell’inizio della pericolosità sociale di NOME COGNOME poiché i beni, entrati a far parte di un compendio aziendale successivamente “contaminato” in radice dall’illiceità, non possono che seguire le sorti dell’intero, senza possibilità di distinguo, a ciò ostando, in ogni caso, la disposta ablazione di tutte le quote della società.
Anche con riferimento alla società RAGIONE_SOCIALE (di cui COGNOME deteneva il 30% e i Nicosia, rispettivamente, il 12,50%), la Corte di appello (pagg. 80 e ss.) ha ricostruito sia le vicende societarie sia le attività svolte, a seguito dell’ingresso nella risalente compagine societaria di NOME COGNOME, per la ristrutturazione e l’ampliamento dell’hotel.
Trascurando le vicende precedenti, il decreto impugnato ha ricondotto all’iniziativa del COGNOME e dei Nicosia l’ingresso nella società RAGIONE_SOCIALE – attraverso il contratto preliminare dell’Il aprile 2001 – e l’immissione di capitali (con un investimento che nell’anno 2011 raggiunse 1.842.406, euro), sebbene nella vecchia compagine societaria fossero rimasti gli originari proprietari dell’hotel (NOME COGNOME e NOME COGNOME), che avevano investito nella ristrutturazione le somme percepite dalla cessione delle rispettive quote sociali (pari a oltre un 1.616.000.000, delle vecchie lire), con lavori affidati alla RAGIONE_SOCIALE e dietro l’impegno del COGNOME e dei COGNOME a fornire le somme necessarie per i lavori a titolo di acconti sul “contenuto” prezzo di cessione e a compensazione del medesimo.
Al termine dei lavori, ultimati nel 2011, l’hotel aveva subito una complessa ristrutturazione, trasformandosi da un vetusto hotel con 40 posti in una moderna struttura ricettiva di 99 posti letto, il cui valore era stato determinato in cir otto milioni di euro dall’am-ministratore giudiziario.
La Corte di appello – sulla scorta di tale compiuta analisi delle vicende societarie della RAGIONE_SOCIALE e dei risultati economici raggiunti per effetto dell’intervento economico di NOME COGNOME e NOME COGNOME – è pervenuta alla confisca anche della predetta società e del compendio aziendale i coerentemente osservando che “l’illecito vantaggio economico derivante dall’investimento finanziario effettuato da NOME COGNOME e NOME COGNOME tramite l’impiego di illecite risorse ha condizionato e dominato la fattibilità delle strategie aziendali e si è posto come fattore di alterazione dell’intera redditività aziendale, con conseguenti ricadute sul valore del patrimonio dell’RAGIONE_SOCIALE L’intervento finanziario dei proposti si è posto come decisivo fattore di pervasiva contaminazione del patrimonio della società, sì da risultare ingiustificata una separazione tra prevalente componente illecita, imputabile alla quota di conferimento illecito degli stessi, e residuale componente astrattamente lecita, imputabile alla quota di conferimento lecito dei terzi intervenienti rispetto ai quali era stato pertanto tutelato soltanto il loro diritto alla quota ma non anche le aspettative patrimoniali correlate alla proiezione del valore ciliWagrffl delle loro quote sul patrimonio sociale”, con conseguente riconoscimento, in favore dei terzi (ovvero NOME COGNOME e NOME COGNOME, vecchi proprietari della struttura), del diritto alla rispettiva quota societaria.
9.11 quinto motivo di ricorso di NOME COGNOME è del tutto generico e si limita alla contestazione della motivazione del decreto impugnato sul punto della effettiva disponibilità dei beni a lui intestati, e, in particolare, delle quote e beni aziendali della RAGIONE_SOCIALE, in capo ai proposti, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Con riferimento a NOME COGNOME il decreto impugnato (cfr. pag. 75) ha individuato precisi elementi che ne denotano “il ruolo ancillare” rispetto al fratello NOME, da sempre socio e amministratore della società a far data dal 2000 e interlocutore di NOME COGNOME in tutti gli affari programmati e realizzati compreso quello, affidato alle determinazioni del COGNOME, di acquisto, nell’anno 2001, della maggioranza (il 55%) del capitale sociale RAGIONE_SOCIALE
L’esame della Corte di appello, correlato alla definitività dell’accertamento della disponibilità in capo a NOME COGNOME e a NOME COGNOME della disponibilità della società, è, dunque, completo ed esaustivo nell’esame dei motivi di appello proposti dal ricorrente, che non si confronta con gli argomenti spesi dalla Corte di appello e che neppure ha dimostrato di avere effettivamente esercitato i propri diritti di socio, partecipando alla vita della società percependo gli eventuali utili pro-quota: il che giustifica la conclusione della
mancanza di una propria reale autonomia di posizione e di un oggettivo non coinvolgimento nel complessivo programma illecito riferibile ai due proposti.
Anche a tal riguardo può, conclusivamente, affermarsi che non sussiste il denunciato vizio di carenza della motivazione e che il ricorrente denuncia un vizio
di motivazione sull’aspetto della sua effettiva proprietà e disponibilità dei beni che, come noto, non è deducibile con riguardo alla misura di prevenzione.
10.Consegue al rigetto dei ricorsi la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 16 giugno 2025.