Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 4578 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 4578 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a MELFI il 03/04/1950 COGNOME NOME IN PROPRIO E QUALE SOCIO STUDIO RAGIONE_SOCIALE nato a MONCALIERI il 21/08/1983 COGNOME NOME IN PROPRIO E IN QUALITÀ DI SOCIA DELLA RAGIONE_SOCIALE nato a TORINO il 20/04/1958 COGNOME NOME nato a MONCALIERI ITALIA il 10/01/1985 COGNOME NOME nato a MELFI il 30/08/1995 COGNOME nato a MELFI il 30/10/1978 RAGIONE_SOCIALE
avverso il decreto del 01/02/2024 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale COGNOME che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
lette le memorie presentate dagli avv.ti COGNOME i quali, nell’interesse, rispettivamente, di NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME hanno chiesto l’accoglimento dei ricorsi. chiesto
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto in data 1 febbraio 2024, la Corte di appello di Torino, in parziale riforma del decreto del Tribunale di Torino in data 24 marzo 2023, ha confermato l’applicazione, nei confronti di NOME COGNOME, della misura di prevenzione della sorveglianza speciale per 3 anni, della cauzione di 3.000 euro e della confisca, nei confronti dello stesso COGNOME, dei suoi familiari (NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME) e di altri intestatari (NOME e NOME COGNOME), di plurimi cespiti costituiti da beni immobili, complessi aziendali e conti correnti ritenuti riferibili al proposto, tra i quali l’intero compendio aziendale dello Studio COGNOME Società tra professionisti a responsabilità limitata, della RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Anna Maria RAGIONE_SOCIALE, dell’RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, società agricola a responsabilità limitata semplificata, nonché le quote sociali della C.F.P. Consulenza- formazione – progettazione società a responsabilità limitata semplificata in liquidazione e della RAGIONE_SOCIALE e, ancora, titoli e cassette di sicurezza, nel dettaglio riportati nel primo decreto.
1.1. I Giudici di merito hanno, in primis, affermato la pericolosità sociale di NOME COGNOME, sia generica, sia qualificata, ai sensi degli artt. 4, comma 1, lett. a) e b), 4, comma 1, lett. c) in relazione all’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, collocandola temporalmente dal 1991 all’attualità. All’uopo hanno evidenziato che COGNOME è stato condannato, in via definitiva, per il delitto previsto dall’art. 4, legge n. 516 del 1982, commesso nel 1991, nonché per omesso versamento di ritenute previdenziali, commesso nel 1996, per tre bancarotte fraudolente, commesse negli anni 1997, 2006, 2008. Inoltre, nell’ambito di vari procedimenti penali sono risultati suoi contatti, risalenti e qualificati, con soggetti legati ad ambienti ‘ndranghetisti (e precisamente con esponenti del clan COGNOME, operante in Natile di Careri e nel nord Italia, della famiglia COGNOME, responsabile di traffico internazionale di stupefacenti, del clan COGNOME operante in Lombardia, della cosca COGNOME di Sinopoli, del clan COGNOME della provincia di Reggio Calabria, della famiglia COGNOME, operante in Torino e nel nord Italia; nonché con i fratelli COGNOME). Infatti, con sentenza del 20 luglio 2020 il Tribunale di Torino ha condannato COGNOME a 6 anni di reclusione e 8.000,00 euro di multa per riciclaggio, intestazione fittizia di beni, reati fiscali per l’emissione di fatture per operazion inesistenti, dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, commessi, tra il 2006 e il 2015, nell’ambito di società facenti capo al ‘ndranghetista NOME COGNOME con cui il proposto intratteneva uno strettissimo rapporto di affari, e con NOME COGNOME quale intermediario (indagine cd. Panamera). I legami di COGNOME con la criminalità organizzata sono, altresì, emersi nei procedimenti a carico di NOME COGNOME e altri per i reati di riciclaggio e truffa, con l’aggravante
dell’agevolazione mafiosa, di NOME COGNOME per reati in materia di stupefacenti e di NOME COGNOME per omicidio, in cui è stato accertato che COGNOME aveva reso prestazioni professionali a favore di esponenti di vari sodalizi mafiosi. Ancora: i decreti hanno evidenziato che presso il Tribunale di Potenza è pendente un procedimento per il delitto previsto dall’art. 512-bis cod. pen., commesso dal proposto nel 2016 in concorso con la moglie NOME COGNOME, la figlia NOME, il cognato, NOME COGNOME e NOME COGNOME per il quale è stato emesso decreto di sequestro preventivo del 70% delle quote della RAGIONE_SOCIALE, attinta nel 2016 da interdittiva antimafia del Prefetto di Potenza in ragione dei rapporti tra COGNOME e soggetti appartenenti ad associazioni mafiose. Su tali basi, i Giudici della prevenzione hanno ritenuto che la pericolosità del proposto decorra dal 1991 all’attualità, tenuto conto che nel settembre 2021 vi è stata l’intestazione fittizia della RAGIONE_SOCIALE e che egli è stato condannato per un reato fiscale accertato nel 2017, commesso in epoca anteriore e prossima.
1.3. Con il decreto impugnalo, la Corte di appello ha anche revocato la confisca dell’immobile nel comune di Pecetto Torinese, disponendone la restituzione alla proprietaria, NOME COGNOME.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione deducendo tre distinti motivi di impugnazione, a loro volta articolati in vari sotto-motivi.
2.1. Con il primo, lamenta violazione degli artt. 1, 4 e 16, d.lgs. n. 159 del 2011 in relazione alla individuazione del tipo di pericolosità del proposto nonché alla perimetrazione temporale di ciascun tipo di pericolosità e all’illegittima creazione di nuova categoria di pericolosità.
2.A.1: La tassatività dei tipi di pericolosità.
Il Tribunale avrebbe definito la pericolosità di NOME COGNOME «qualificata e generica dal 1991 alla data odierna», senza distinguere tra le diverse forme di pericolosità in rapporto a fatti concreti e senza delimitarle temporalmente nella loro differente natura, di fatto delineando una pericolosità “omnicomprensiva”, “mista”, un tertium genus inesistente a livello normativo. E che la corretta individuazione del tipo di pericolosità sociale sia rilevante sarebbe dimostrato dal fatto che, sino al 2008, COGNOME avrebbe commesso reati non compresi nell’elenco dell’art. 4, d.lgs. n. 159 del 2011, indicativi solo di pericolosità generica; mentre dal 2008 avrebbe commesso due reati indicativi di pericolosità qualificata. Pertanto, ove ritenuto rientrante tra i «pericolosi generici», la confisca di prevenzione non avrebbe potuto essere disposta nei suoi confronti sino all’emanazione del d.l. n. 92 del 2008 per mancanza di base legale. Per ovviare a tale limite, i Giudici di merito avrebbero, dunque, proiettato la pericolosità qualificata all’indietro, «mescolandola» con quella generica e, così, aggirando il principio di tassatività delle misure di prevenzione.
2.A.2. Le erronee argomentazioni in diritto della Corte territoriale sul punto.
Secondo i Giudici di merito, il proposto, pur avendo commesso reati rilevanti ai fini della integrazione della pericolosità generica, avrebbe avuto rapporti risalenti con la criminalità organizzata, sicché a suo carico sarebbe stata ravvisabile una pericolosità qualificata. Tuttavia, COGNOME non sarebbe mai stato coinvolto nelle indagini per omicidio indicate nel decreto, né nelle attività criminali di Carbone, sicché non sarebbero esistiti, a suo carico, reati qualificati, che non avrebbero potuto essere accertati non sulla base di mere annotazioni di polizia giudiziaria, essendo state richiamate conversazioni telefoniche che non lo vedrebbero come protagonista e si riferirebbero a indagini del 2004, quando egli aveva commesso solo reati a pericolosità generica. Quanto al richiamo alla c.d. sentenza “Infinito” del Tribunale di Milano, mai il proposto sarebbe stato indagato in quel procedimento. Quanto al processo “RAGIONE_SOCIALE” e al procedimento “RAGIONE_SOCIALE” di Potenza, per fatti commessi dal 2008 in poi, la pericolosità qualificata di COGNOME potrebbe essere ritenuta sussistente solo dalla data di commissione di questi reati. Ogni «proiezione retroattiva» non sarebbe supportata da alcun «fatto storico»; e «suggestivo» sarebbe il riferimento al c.d. “metodo COGNOME“, ritenuto un articolato sistema in frode all’Erario, non essendo mai esistito, per le aziende citate nel decreto, alcun procedimento penale a carico di COGNOME, il quale avrebbe reso meri consigli professionali nell’attività di commercialista.
2.B. L’erronea applicazione dell’art. 200 cod. pen. e l’erronea applicazione retroattiva dell’art. 11-ter, d.l. n. 92/08.
La pericolosità manifestata da COGNOME sino al 1997, ovvero sino al 2008 (ove si ritenesse di considerare rilevante anche il periodo “silente” dal 1997 al 2006), sarebbe esclusivamente “generica”, sicché non potrebbero essere confiscati i beni acquistati sino al 27 maggio 2008, data di entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2008, non potendosi fare applicazione retroattiva di tale disciplina, diversamente da quanto ritenuto dai Giudici di merito, che avrebbero richiamato principi ormai superati dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, che riconosce la “prevedibilità” della condotta come elemento essenziale delle misure di prevenzione e dopo la sentenza “RAGIONE_SOCIALE” (pubblicata il 23 febbraio 2017) che individua la “prevedibilità” della condotta quale elemento irrinunciabile per armonizzare la materia delle misure di prevenzione alla Convenzione EDU.
2.8.1 La sequenza temporale della normativa sulle misure di prevenzione personali e patrimoniali.
Dal 1990 al 2008 i pericolosi generici non potevano essere attinti da misura di prevenzione patrimoniale se i proventi non conseguivano ai delitti tipizzati e, in ogni caso, anche per questi ultimi poteva disporsi la misura patrimoniale solo se congiunta a misura personale; solo il d.l. 92/08, in vigore il 27 maggio 2008, avrebbe consentito l’applicazione delle misure patrimoniali ai pericolosi generici.
2.8.2. L’illegittima interpretazione retroattiva dell’art. //-ter d. I. 92/08 a seguito della sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale e della sentenza “RAGIONE_SOCIALE” della Corte Edu.
I reati commessi da COGNOME sino al 2008, per i quali egli avrebbe manifestato esclusivamente una pericolosità generica, riguarderebbero delitti fuori del catalogo per cui l’art. 14, legge 23 marzo 1990, n. 55 consentiva l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale ai “pericolosi generici”. Con la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019 sarebbero stati superati i principi espressi dalle Sez. U, COGNOME in ordine alla applicabilità dell’art. 200 cod. pen. in caso di successione di leggi nel tempo, non potendo il destinatario prevedere le conseguenze, personali e patrimoniali, di una norma che non esiste.
2.B.3. Conclusioni: annullamento – in subordine questione di costituzionalità.
In subordine rispetto alla richiesta principale di annullamento, la Difesa chiede che venga sollevata questione di costituzionalità degli artt. 1, 4, 16, 20 e 24, d.lgs. n. 159 del 2011 nella parte in cui non prevedono che sequestro e confisca di prevenzione possano essere disposti solo ove la condotta sia stata tenuta nella vigenza di una legge che per essa prevedeva la possibilità della misura.
2.C. L’assenza di motivazione in ordine alla attualità della pericolosità sociale. Il decreto non si sarebbe pronunciato sulle censure espresse nell’atto di appello in ordine alla “attualità” della pericolosità, non essendo COGNOME intraneo
all’associazione criminale e non potendosi utilizzare la presunzione semplice di “partecipazione” al sodalizio criminale che giustifica una sua tendenziale permanenza, inapplicabile agli indiziati di “appartenere” a un’associazione di tipo mafioso (cfr. Sez. U, 30 novembre 2017, Gattuso). Infatti, la sentenza “Panamera” avrebbe escluso in capo al proposto l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.; e i Giudici di merito non avrebbero indicato gli elementi concreti che renderebbero attuale la pericolosità di COGNOME i cui reati contestati nei processi “Panamera” e “Ofanto” sarebbero terminati nel 2016, sicché avrebbero dovuto essere indicati gli elementi concreti successivi a tale data.
3. NOME COGNOME, moglie di COGNOME, ha proposto ricorso per cassazione deducendo, con un unico motivo di impugnazione, la violazione degli artt. 19 e 24, d.lgs. n. 159 del 2011, nonché la contraddittorietà della motivazione e il suo carattere meramente apparente con riferimento alla confisca operata sulla sua quota di capitale e sull’intero compendio aziendale dello RAGIONE_SOCIALE, (capo a.1), sull’intero compendio aziendale della RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Anna Maria RAGIONE_SOCIALE (capo a.2), sui terreni siti a Melfi (capo b.2), sui saldi attivi dei rapporti finanziari a lei intestati (capo c.3).
Secondo la documentazione contabile presente nel fascicolo di primo grado, la COGNOME sarebbe stata titolare di autonomo reddito, come da «prospetto reddituale» nella proposta di misura, potendo anche fruire delle c.d. “ricchezze” della famiglia di origine. Inoltre, per la Corte di appello la pericolosità qualificat del proposto verrebbe individuata con certezza nel 2006, data successiva alle acquisizioni della COGNOME di cui al capo b.2).
Quanto alla RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, la capacità economica della ricorrente sarebbe stata apoditticamente valutata attraverso il riferimento a redditi modesti, di poche migliaia di euro sino al 2000 e, comunque, non sufficienti alle acquisizioni. Tale motivazione sarebbe insufficiente rispetto a quanto dedotto dalla difesa in sede di gravame, ove si evidenziava come da un reddito netto imponibile pari a 17.353,98 euro nel 2001, si crescesse sino a 48.198,00 euro nel 2006, sufficienti all’acquisizione, con un versamento iniziale di 28.000,00 euro dell’immobile in Torino, INDIRIZZO. I successivi esborsi patrimoniali, pari a circa 1.800,00 euro mensili, risulterebbero autofinanziati dai canoni di locazione percepiti. Inoltre, la COGNOME avrebbe documentato di poter fruire delle ricchezze della famiglia di origine, come riconosciuto dalla Corte di appello in relazione all’acquisto di altro immobile, del quale, in riforma del primo decreto, sarebbe stata contraddittoriamente disposta la restituzione. Infine, la società svolgeva, avvalendosi di propri dipendenti, beni e strumenti professionali propri (v. fatture cespiti societari in atti), autonoma attività di elaborazione dati per conto terzi, in prevalenza clienti dello Studio
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COGNOME come ancora oggi accadrebbe col placet dell’Amministratore giudiziario. Ancora: la Corte territoriale, da un lato, limiterebbe l’operatività societaria alla mera gestione immobiliare e, dall’altro, evidenzierebbe l’attività professionale societaria, riferendo che sia stato il proposto a esibire, in sede di contenzioso tributario, documentazione sull’attività di elaborazione dati svolta dalla Tre B.
Quanto alla riconduzione dell’RAGIONE_SOCIALE a Bafunno sulla base di una serie di elementi indiziari, plurimi, gravi, precisi e concordanti, essa violerebbe l’art. 19, che non consentirebbe l’attribuzione di beni al proposto in assenza di una disamina analitica dei redditi leciti allegati dai terzi, posto che tale norma non individuerebbe una presunzione in senso stretto analoga a quella dell’art. 26. In atti non vi sarebbe alcuna intercettazione, telefonica o ambientale, che veda partecipe la COGNOME, né che facesse a lei riferimento. Tale assunto, indicato nei motivi di gravame, non sarebbe stato oggetto di verifica dal Giudice di merito, benché sollecitato sul punto.
Quanto ai terreni in Melfi, gli stessi sarebbero pervenuti alla Buglione nel 1993, quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e a lei personalmente assegnati all’atto dello scioglimento della società, nell’aprile 1999. Non essendovi in atti alcun accertamento patrimoniale sul punto, il mero richiamo alla presunzione ex art. 19, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 sarebbe superato dalla mancanza di verifica delle risorse economiche dell’acquirente originario e della natura, gratuita o meno, dell’atto di conferimento prima e di assegnazione immobiliare poi.
Quanto al buono postale di 2500,00 euro, come il Giudice dell’appello ha revocato la confisca dell’immobile in Pecetto, riconducendo l’acquisto a ragioni successorie della famiglia COGNOME, così avrebbe dovuto riconoscere che esso era frutto di donazione da parte del padre, che aveva donato anche al figlio un buono di pari importo e in pari data. L’affermare che nessun particolare elemento supporta la conclusione, integrerebbe vizio di mancanza della motivazione, nonché di erronea applicazione di legge, essendo stata ritenuta operante una presunzione superata dal dato documentale.
In ultimo si deduce l’erronea applicazione dell’art. 19 in ordine al contenuto della cassetta di sicurezza n. 3200/77647, a fronte della dichiarazione della ricorrente, richiamata nei motivi di gravame, circa la provenienza dei monili rinvenuti, donazioni alla madre da parte di parenti e amici in occasione di compleanni, battesimo, pi -ima comunione e cresima dei due figli.
NOME COGNOME in proprio e quale socio dello RAGIONE_SOCIALE, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, con un unico motivo di impugnazione, la violazione degli artt. 19 e 24, d.lgs. n. 159 del 2011 circa i presupposti della confisca dei beni di un terzo rientrante tra i soggetti del comma
3 dell’art. 19, l’erronea inversione dell’onere probatorio e la necessità di prova positiva della fittizietà dell’intestazione.
Quanto alla confisca del 40% del capitale di RAGIONE_SOCIALE e dei beni aziendali costituiti da rapporti finanziari, la Corte territoriale avrebbe mal governato l’istituto delle indagini patrimoniali di cui al comma 3 dell’art. 19, configurando una presunzione atipica di riferibilità del cespite al proposto analogamente a quanto previsto dall’art. 26, unica disposizione a prevedere una siffatta presunzione, ponendo sul terzo interessato la prova contraria, mentre spetterebbe all’autorità proponente la prova di interposizione.
Secondo il decreto, l’accrescimento del 2008 sarebbe avvenuto in costanza di convivenza e, quindi, di applicazione dell’art. 19 e, comunque, con risorse provenienti dal proposto nella misura di 1.250 euro. In realtà, la quota sarebbe stata ceduta nel 2012 e, poi, riacquistata nei 2014 da NOME COGNOME sicché è al 2014 che avrebbe dovuto valutarsi la sua capacità economica.
Secondo la giurisprudenza di legittimità l’art. 19, comma 3, non prevede alcuna presunzione, ma solo un potere di indirizzo dell’indagine patrimoniale e di sua estensione verso il figlio convivente con il proposto nell’ultimo quinquennio, sicché, al di fuori delle presunzioni di cui all’art. 26, comma 2, il rapporto esistente tra il proposto e tali soggetti potrebbe essere significativo della fittizietà della intestazione di beni quando il terzo, familiare convivente, sia sprovvisto di effettiva capacità economica; e dal momento che, nel caso che occupa, il terzo interessato non era convivente con il proposto sin dal dicembre 2008, non avrebbe potuto farsi applicazione dell’art. 19, che sarebbe stato erroneamente interpretato.
Inoltre, a pag. 40 del decreto si leggerebbe che «quanto meno per la prima fase, che si riverbera anche sulle successive, i congiunti non avevano certamente adeguata capacità professionale» e che sarebbe «irrilevante, poi, che la successiva movimentazione delle quote possa essere avvenuta in periodi in cui è ipotizzabile una eventuale capacità economica per l’acquisizione delle quote al valore nominale». Per entrambi gli elementi di fatto, l’orizzonte temporale sarebbe l’acquisizione del 2008 e non del 2014, con applicazione distorta dell’art. 19, posto che, nel 2008, il ricorrente sarebbe appena andato via di casa, non era laureato e aveva un reddito annuo di poco meno di 10.000 euro, mentre nel 2014 era dottore commercialista da qualche anno, viveva da tempo con la moglie e aveva un reddito disponibile di oltre cinquantamila euro. Dunque, la Corte territoriale, in luogo di considerare il momento dell’accrescimento patrimoniale dell’interposto, utilizzerebbe, come riferimento, una precedente· acquisizione già dismessa, in violazione dell’art. 19, ma anche dell’art. 24, che individua i presupposti della confisca di prevenzione.
Inoltre NOME COGNOME all’inizio del procedimento di prevenzione, sarebbe stato computato nel nucleo del proposto fino alla fine del 2012, escludendo dal
bilancio del nucleo familiare del proposto i redditi da lui conseguiti dal 2013 in poi e le sue operazioni patrimoniali comportanti variazioni finanziarie in entrata o in uscita dopo tale periodo, non tenendosi conto della sua presenza in famiglia ai fini della quantificazione delle spese per i consumi familiari forniti dall’ISTAT, non procedendosi alla confisca dei beni dallo stesso acquistati a partire dal 2013.
Dal momento che la quota del 40% e il compendio aziendale di RAGIONE_SOCIALE sarebbero stati acquistati nel 2014 e che non vi sarebbe prova che detto compendio non si sia accresciuto grazie all’apporto del terzo interessato, attivo in quegli anni come dottore commercialista, la confisca avrebbe dovuto essere esclusa, laddove la Corte territoriale si sarebbe appiattita su una ricostruzione fallace dell’art. 19 e rispetto all’orizzonte temporale cui riferire l’acquisizione del cespite, come dedotto nell’appello, non affrontato dalla Corte.
E dal momento che la giurisprudenza di legittimità richiede che, per assoggettare a confisca integrale una impresa solo inizialmente frutto di attività illecita, debba essere impossibile distinguere i redditi illeciti da quelli leciti, la Cort avrebbe dovuto riconoscere che, nel caso di specie, anche l’attività dello studio sarebbe stata alimentata, per anni, dall’attività professionale del ricorrente.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione deducendo quattro distinti motivi di impugnazione.
5.1. Con il primo motivo, lamenta la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 10, comma 3 e 21, comma 2, 19, 20, comma 1, 23, comma 3 e 24, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011, nonché degli artt. 30 Cost., 141 e 315-bis cod. civ. I cespiti intestati a NOME COGNOME sarebbero stati confiscati sull’erroneo presupposto dell’intestazione fittizia al padre nonostante le allegazioni di una lecita e proporzionata capacità economica per l’acquisto da parte della donna, nonché per l’erronea qualificazione come provvista illecita dei contributi di mantenimento verso la figlia da parte del proposto, esercente la potestà genitoriale.
5.1.1. La Corte di appello avrebbe ritenuto che i cespiti fossero stati fittiziamente intestati dal proposto alla figlia in quanto costei non avrebbe avuto le necessarie disponibilità economiche e sarebbe stata mantenuta dal padre fino al 2015, allorché uscì dal nucleo per andare a vivere col marito. Viceversa, la presunzione sarebbe superata dalle lecite e sufficienti disponibilità economiche in capo alla donna, laureata e iscritta all’albo dei consulenti del lavoro, esercente un’attività professionale andata in crescendo nel corso degli anni, per ogni singolo acquisto proporzionato al suo reddito. Il decreto impugnato avrebbe errato nel ritenere che il remoto, modesto contributo di mantenimento del padre possa costituire un’illecita provvista che giustifica la confisca di tutti i beni della figlia violazione degli artt. 19, comma 3, 20, 23 e 24, d.lgs. n. 159 del 2019 e delle disposizioni in materia di diritto di famiglia contenute negli artt. 30 Cost., 147 e
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315-bis cod. civ. che prevedono in capo al genitore l’obbligo di mantenere i figli e il corrispondente diritto al mantenimento a favore di questi ultimi.
5.1.2. Gli artt. 20 e 24, d.lgs. n. 159 del 2011 prevedrebbero che il sequestro e la confisca di prevenzione possano incidere solo sui beni di cui il proposto abbia la disponibilità, in valore sproporzionato al suo reddito, nonché sui beni frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego. Pur consentendo l’art. 19, comma 3, di estendere le indagini patrimoniali al coniuge, ai figli e ai soggetti che abbiano convissuto nell’ultimo quinquennio con il proposto, per la presunzione si richiederebbero i presupposti degli artt. 20 e 24, d.lgs. n. 159 del 2011 nei confronti dei terzi oggetto dell’indagine. Nel caso che occupa, la Corte d’appello avrebbe contravvenuto a tali disposizioni, avendo disposto la confisca di beni di proprietà esclusiva della terza interessata, non riferibili al proposto e di conclamata provenienza lecita, incorrendo nella dedotta violazione di legge.
5.1.3. La Corte di appello avrebbe erroneamente applicato la nozione di «intestazione fittizia», non potendo nella specie ravvisarsi né l’ipotesi prevista dall’art. 512-bis cod. pen., mai contestata al proposto, né quella prevista dall’art. 26, d.lgs. n. 159 del 2011, atteso che, per nessuno dei beni oggetto di misura di prevenzione, risulterebbe il passaggio di proprietà dal proposto alla figlia.
Nella vicenda de qua, l’unica disposizione astrattamente applicabile nei confronti della COGNOME sarebbe l’art. 19, comma 3, che però non prevede una presunzione di appartenenza al proposto dei beni intestati a coniuge, figli o conviventi, né di intestazione fittizia di detti beni, essendo necessario l’accertamento, da un lato, della sussistenza di elementi connotati da gravità, precisione e concordanza che facciano propendere per una disponibilità del bene intestato al terzo in capo al proposto e, dall’altro, dell’incapienza economica del terzo stesso, che rilevi oggettivamente in funzione del giudizio di sproporzione e che sia tale da dimostrare ex se, attraverso l’inferenza logica, una disponibilità del bene in capo al proposto. Dovrebbe essere, dunque, l’Accusa a dimostrare, nei casi di cui all’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011, che al terzo intestatario non corrisponda l’effettiva titolarità e disponibilità dei beni e la provenienza illecita della provvista utilizzata per l’acquisto. Dal canto suo, il terzo interessato sarebbe gravato da un semplice onere di allegazione di fatti, situazioni, eventi che ragionevolmente siano atti a indicare la lecita provenienza della provvista, una capacità reddituale autonoma e l’esclusiva disponibilità dei beni oggetto di richiesta di misura patrimoniale.
5.1.4. NOME COGNOME avrebbe fornito prova, mediante la ricostruzione documentale del suo percorso professionale ed economico, che nel periodo dell’indagine (2007-2016) maturò un reddito autonomo di complessivi 147.320,00 euro, acquisito grazie all’attività professionale e ai 500 euro mensili percepiti quale canone di locazione dell’immobile di INDIRIZZO acquistato grazie a un mutuo
garantito da ipoteca sull’immobile e pagato, a rate, senza il versamento di anticipo. Tale reddito, come ricostruito nella tabella, sarebbe andato aumentando in maniera esponenziale dal 2007 in avanti, in misura più che proporzionata al valore dei beni confiscandi, come riconosciuto dalla stessa Corte di appello (p. 48 Decreto), che però avrebbe proceduto comunque all’ablazione di tutti i beni della Bafunno, motivandone la riferibilità al proposto con l’uso di termini probabilistici quale «appare» o «doveva ritenersi», che denoterebbero un approccio presuntivo.
5.1.5. Quanto alla confisca di 85.000,00 euro dal conto corrente Intesa San Paolo intestato alla COGNOME, lecito ricavo quale corrispettivo dalla vendita dell’immobile sito in Torino, INDIRIZZO la Corte di appello non avrebbe tenuto in considerazione le allegazioni difensive per cui l’immobile, rappresentato da un appartamento di 64 mq in zona residenziale e non da un’abitazione di lusso, sarebbe stato da lei acquistato il 19 luglio 2007, quando era già titolare di redditi autonomi, mediante accensione di un mutuo da saldare con rate mensili, addebitate sul conto corrente intestatole, senza la corresponsione di un acconto. Mutuo che ammontava a 80.000,00 euro, senza anticipo, con rate mensili di circa 600 euro, sostenibili autonomamente dalla terza interessata grazie ai propri redditi, andati aumentando nel corso degli anni. Tali rate mensili, inoltre, sarebbero state pagate dalla terza interessata con risorse proprie anche dopo essersi affrancata dal nucleo familiare del padre, alla fine del 2015.
Del resto, quando l’immobile venne acquistato dalla COGNOME, esso non sarebbe stato libero, ma occupato da un conduttore in forza di contratto col precedente proprietario. La COGNOME subentrò nel predetto contratto, continuando a percepire canoni di locazione ininterrottamente, da conduttori succedutisi negli anni, che sconoscevano il proposto, fino alla vendita dell’immobile il 12 marzo 2021; pertanto, ella, al momento dell’acquisto, aveva già la certezza che, subentrando nel contratto di locazione, avrebbe percepito un’entrata·economica, estranea al proposto, che le avrebbe consentito di far fronte alle rate del mutuo.
Nel giudizio di merito non sarebbe, invece, emersa la prova di ingerenze del proposto nell’operazione, né dell’utilizzo di risorse provenienti da reato per saldare le rate” del mutuo. COGNOME, invero, rimase estraneo alla compravendita dell’immobile, mai destinato ad abitazione del proposto o dei familiari, e non ebbe a fornire alcun contributo nell’acquisto del cespite, non avendo versato alcun anticipo, né quale garante della figlia, essendo il pagamento del mutuo garantito da diritto reale di garanzia sull’immobile e non da fideiussione o altra garanzia personale del proposto, né si ingerì nella stipula dell’atto notarile o dei contratti di locazione, né nella successiva rivendita del cespite il 12 marzo 2021, data in cui la terza interessata era uscita da tempo dal nucleo familiare.
Di conseguenza, non ravvisandosi l’interposizione fittizia del proposto nell’acquisto dell’immobile né una “disponibilità” del bene in capo a costui, né la
riconducibilità della provvista utilizzata per l’acquisto a presunte sue risorse illecite ed essendo stata invece dimostrata la capienza reddituale della terza interessata rispetto all’operazione, non sussisterebbero i presupposti di cui agli artt. 20 e 24 d.lgs. n. 159 del 2011 per la confisca del corrispettivo di 85.000,00 euro derivante dalla vendita dell’appartamento, il quale, costituendo una lecita disponibilità nella titolarità esclusiva della ricorrente, deve esserle pertanto restituito.
5.1.6. Le considerazioni esposte varrebbero anche per i fondi di risparmio e assicurativi di modesto valore e compatibili con la capacità reddituale della ricorrente negli anni d’interesse, acquisiti in prossimità o dopo l’uscita dal nucleo familiare, allorché ella non era più a carico dei genitori. Infatti, le quote Sicav e Picted RAGIONE_SOCIALE, acquistate nel 2017 per l’importo complessivo di circa 11.000,00 euro, sarebbero compatibili con i redditi autonomamente maturati per l’attività professionale di consulente del lavoro, regolarmente dichiarati e sottoposti a tassazione. Peraltro, l’Accusa, rispetto a detti cespiti, non avrebbe dimostrato l’impiego di fondi del proposto, né l’interposizione del medesimo, il quale non avrebbe avuto motivo di ingerirsi in tali operazioni o di intestare tali beni alla figlia.
5.1.7. Si deduce altresì la violazione di legge per avere il decreto qualificato il mantenimento prestato dal padre quale compendio di provenienza illecita.
Anche volendo assumere che il proposto abbia concorso alle spese quotidiane per il mantenimento della figlia fino al 2015, ciò costituirebbe adempimento dell’obbligo previsto dagli artt. 30 Cost. e 147 cod. civ., discendente dall’esercizio della responsabilità genitoriale con un corrispondente diritto soggettivo della figlia ex art. 315-bis cod. civ. D’altronde, l’art. 648-ter.1, comma 4, cod. pen. esclude l’autoriciclaggio allorché la provvista da reato sia destinata al mantenimento della famiglia; e con riferimento all’art. 388 cod. pen. dottrina e giurisprudenza riterrebbero che l’adempimento dell’obbligo del genitore di mantenimento previsto dall’art. 147 cod. civ., correlato al diritto del figlio previsto dall’art. 315-bis co civ., integri la scriminante dell’art. 51 cod. pen. In ogni caso, la quota di mantenimento destinata a NOME COGNOME tra il 2007 e il 2016, secondo gli indici ISTAT, risultava congrua rispetto al reddito dichiarato dal nucleo, che come attestato dal proponente si collocava in quegli anni oltre i 100.000,00 euro annuali.
5.2. Con il secondo motivo, il ricorso deduce violazione degli artt. 19, comma 3, 20, 23, comma 3 e 24, 10, comma 3 e 27, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, nonché dell’art. 42 Cost. in relazione all’applicazione della confisca della totalità dei cespiti intestati alla COGNOME senza considerarne le risorse lecite, con omessa rideterminazione della quota confiscabile riferibile alle provviste del proposto.
Il decreto impugnato da atto che «è pur vero che vi è una progressione negli anni dei guadagni da parte di NOME COGNOME» e della circostanza che tra il 2007 e il 2016, oggetto dell’indagine patrimoniale sulla sua capacità reddituale, ella aveva maturato un reddito lecito di 147.320,00 euro, proporzionato all’ammontare del
mutuo acceso per l’acquisto dell’immobile di INDIRIZZO e degli investimenti finanziari. Pertanto, la confisca dei beni intestati all’odierna ricorrente nella loro integralità risulterebbe sproporzionata per la presenza di una percentuale di risorse lecite e giustificate, compatibili con una quota di tali beni.
5.3. Con il terzo motivo, il ricorso denuncia la violazione degli artt. 10, comma 3 e 27, comma 2, 19, comma 3, 23, comma 3, 20, comma 1 e 24, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011. La Corte di appello ha confiscato l’intero importo di 85.000,00 euro ricavato dalla vendita dell’immobile di INDIRIZZO compresa la quota riferibile alla porzione di mutuo contratto con risorse proprie, fuori del perimetro di indagine sulla sua capacità reddituale, limitato agli anni tra il 2007 e il 2016, quando uscì dal nucleo, così esorbitando dai limiti posti dall’art. 19, comma 3, posto che dal 2016 il potere di spesa della ricorrente non è stato più oggetto di analisi, con riconoscimento di sufficiente disponibilità di lecite risorse economiche, sicché la confisca non sarebbe stata estesa ai beni da lei acquistati dal 2016. Pertanto, anche gli esborsi per il pagamento delle residue rate del mutuo e per la sua estinzione non potrebbero ricondursi a risorse del proposto e devono ritenersi esclusi dall’art. 19, comma 3, con venir meno dei presupposti per la confisca.
La Corte, peraltro, avrebbe esteso la confisca alla plusvalenza di 5.000,00 euro acquisita sulla rivendita dell’immobile, che non avrebbe alcun legame con il negozio iniziale, costituendo l’incremento di valore del bene successivo alla chiusura del mutuo. Dunque, la porzione dell’importo di 85.000,00 euro riferibile agli esborsi successivi al 2016, compresa la plusvalenza di 5.000,00 euro, avrebbe dovuto essere scorporata dal quantum confiscabile, in quanto estranea all’ambito di accertamento dell’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011. Tale doglianza, dedotta con specifico motivo nell’appello, sarebbe stata obliata dal decreto, in violazione degli artt. 10, comma 3 e 27, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011.
5.4. Con il quarto motivo, il ricorso deduce la violazione degli artt. 10, comma 3 e 27, comma 2, 19, comma 3, 20, comma 1 e 24, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011 in relazione alla confisca della quota del 40% dello RAGIONE_SOCIALE, intestata a NOME COGNOME.
Secondo la Corte ella era soggetto interposto del padre avuto riguardo alla «presunzione atipica di cui all’art. 19 comma 3 d.lgs. n. 159 del 2011», laddove la presunzione di riferibilità al proposto del cespite intestato al terzo è prevista dall’art. 26 d.lgs. n. 159 del 2011. La Corte, inoltre, avrebbe obliterato che lo Studio COGNOME era un rinomato studio multidisciplinare, nel quale lavoravano commercialisti e consulenti del lavoro quali l’odierna ricorrente, che nel 2012 acquisì le quote della STP dal fratello, per 4.000,00 euro, somma proporzionata al suo reddito e che, dallo stesso anno, svolse la pratica professionale presso lo Studio quale consulente del lavoro, per poi iscriversi al relativo Albo nel settembre 2014. Da tale data iniziò a pagare i contributi previdenziali, a seguire le pratiche
dello studio nella propria area di competenza, nonché ad acquisire un proprio parco clienti svincolato dall’attività di commercialista del padre. Tale attività professionale è stata portata avanti anche negli anni successivi alla sua fuoriuscita, nel 2015, dal nucleo familiare, esclusi dall’indagine.
6. NOME COGNOME, anche nella sua qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME, anche nella sua qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, hanno proposto ricorso per cassazione deducendo, con un unico motivo di impugnazione, la inosservanza o erronea applicazione dell’art. 24, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011 in relazione al concetto di disponibilità del bene da parte del soggetto pericoloso, non potendosi ritenere afferente alla RAGIONE_SOCIALE l’ipotesi di cui all’art. 26, comma 2, lett. b), riguardante trasferimenti e intestazioni effettuate nei due anni precedenti la proposta e non il periodo di tempo successivo. Nel dettaglio, il ricorso lamenta che il decreto non consenta di comprendere quale sia la condotta indicativa della disponibilità in capo a Bafunno della RAGIONE_SOCIALE. Non l’avvenuta costituzione nel 2017 da parte di soggetti non sfiorati da imputazioni ex art. 512-bis cod. pen., sicché sarebbe stato onere dell’Accusa e dei Giudici di merito ricostruire le condotte attraverso cui si sarebbe esplicitata l’interposizione, sfuggendo i terzi alle presunzioni di cui agli artt. 19 e 26, d.lgs. n. 159 del 2011. Non le condotte asseritamente diminutorie del patrimonio della Ofanto, né quelle poste in essere attraverso i negozi giuridici ritenuti sospetti, né le attività materiali poste in essere dai terzi nell’esercizio della nuova attività imprenditoriale.
Né la Corte darebbe atto di un qualsiasi apporto, contatto o negozio attraverso il quale.COGNOME abbia esercitato la propria ingerenza sulla Tenuta I Gelsi.
Secondo la giurisprudenza, al fine di disporre la confisca, nel caso di beni formalmente intestati ad un terzo che si assumono nella disponibilità del proposto indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa, il giudice ha l’obbligo di addurre non più soltanto circostanze di spessore indiziario, ma fatti che si connotino della gravità, della precisione, della concordanza, sì da costituire prova del superamento della coincidenza tra titolarità apparente e disponibilità effettiva dei beni.
D’altro canto, la nuova attività fondata dai COGNOME non potrebbe nemmeno essere inquadrata nel novero dei frutti di attività illecite o che costituiscano il reimpiego di queste, perché la norma – insuscettibile di analogia – riferisce tali condotte al proposto e non ai terzi.
In definitiva, a voler applicare la norma nel senso indicato dal decreto, il portatore della pericolosità in danno della RAGIONE_SOCIALE non sarebbe il proposto ma i fratelli COGNOME, non perché soggetti socialmente pericolosi ma perché già interposti per conto di COGNOME. Trattasi di una errata interpretazione della norma,
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idonea ad ampliarne oltre misura la portata, tanto da consentire l’ablazione di beni ulteriori rispetto a quelli che siano frutto delle locupletazioni illecite.
In data 30 ottobre 204 è pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stata chiesta la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi.
Successivamente alla trasmissione della requisitoria depositata dal Procuratore generale sono state inviate, via PEC, le memorie di replica ad essa a firma dell’avv. COGNOME per NOME COGNOME (in data 5 novembre 2024), dell’avv. COGNOME per NOME e NOME COGNOME (in data 12 novembre 2024), degli avv.ti NOME e ed NOME COGNOME per NOME COGNOME (in data , 12 novembre 2024) e dell’avv. NOME per NOME COGNOME (in data 12 novembre 2024).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
Va premesso che, ai sensi dell’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 (e del precedente art. 4, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3-ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575), nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge. In essa va, nondimeno, ricompresa sia l’ipotesi in cui la motivazione del provvedimento sia inesistente, che ricorre nei casi di assenza totale della motivazione, con conseguente violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. e dell’art. 10, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 (che ha preso il posto dell’abrogato comma 9 dell’art. 4, legge n. 1423 del 1956), secondo cui la decisione è assunta «con decreto motivato»; sia l’ipotesi della motivazione apparente, che sussiste quando essa sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare assolutamente inidonea a rendere comprensibile la ratio decidendi, ovvero, ancora, quando essa ometta del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettato da una parte, il quale, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246 01; Sez. 6, n. 21525 del 18/06/2020, Mulé, Rv. 279284 – 01; Sez. 2, n. 20968 del 06/07/2020, COGNOME, Rv. 279435 – 01; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080 – 01). Tale obbligo, previsto anche per le misure reali a seguito del richiamo dell’art. 10, comma 3 da parte dell’art. 27, comma 2, esclude che nel giudizio di legittimità possano essere dedotti meri vizi della motivazione che si traducano in prospettate forme di illogicità, in una diversa interpretazione degli elementi probatori ovvero
in una contraddittorietà del percorso giustificativo. Inoltre, va ricordato che secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità devono considerarsi implicitamente disattese le censure incompatibili con l’impianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche, del provvedimento medesimo, ovvero quando esse risultino assorbite dall’esame di altro motivo, giacché, in tal caso, esse sono state comunque valutate, pur essendosene ritenuta superflua la trattazione per effetto della disamina del motivo ritenuto assorbente (così Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841 – 01; Sez. 6, n. 50946 del 18/09/2014, COGNOME, Rv. 261590 – 01; Sez. 1, n. 6636 del 7/01/2016, COGNOME, Rv. 266365 – 01; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593 – 01; si veda anche Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, COGNOME, Rv. 221283 – 01). Tale statuto cognitivo del giudice della prevenzione, ritenuto aderente ai precetti costituzionali (Corte cost. n. 106 del 15/04/2015), deve essere poi integrato dalle regole proprie del giudizio di legittimità, che deve attenersi alla verifica della correttezza giuridica e logica del provvedimento impugnato, senza che la Corte di cassazione possa sostituire ad esso una propria alternativa decisione sulla lettura degli elementi probatori. Dunque, la verifica in sede di legittimità deve necessariamente arrestarsi alla corrispondenza degli elementi valorizzati nel provvedimento impugnato ai criteri dettati dalla legge per l’applicazione della misura di prevenzione, non essendo consentite le doglianze difensive che, pur denunciando il vizio di violazione di legge per motivazione apparente, censurano la motivazione riproponendo argomentazioni adeguatamente esaminate dalla Corte di merito, che si risolvono nella richiesta di una rilettura dell’ordito argomentativo del decreto impugnato.
2.1. Sempre in premessa va ricordato che le misure di prevenzione, personali e reali, possono essere disposte, per quanto di interesse nel caso esaminato, I provvedimenti previsti dal presente capo si applicano ai soggetti indicati all’art. 4, d.lgs. n. 159 del 2011, ovvero, secondo quanto previsto dal comma 1 di tale articolo: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416-bis cod. pen.; b) ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. ovvero del delitto di cui all’art. 12-quinquies, comma 1, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, o del delitto di cui all’art. 418 cod. pen.; c) ai soggetti di cui all’art. 1 e, tra e secondo quanto stabilito dal comma 1, lett. b) di tale ultima disposizione, a coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose.
Quanto, in particolare, ai soggetti indicati alla lett. a) dell’art. 4, comma 1, va ribadito che secondo il consolidato indirizzo interpretativo della Corte di cassazione la nozione di appartenenza alla associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. va distinta da quella di partecipazione contenuta nella predetta fattispecie
incriminatrice, atteso che il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, appare idoneo a ricomprendere anche le condotte che, pur non riconducibili alla “partecipazione” stricto sensu intesa, si sostanziano in qualunque azione funzionale agli scopi associativi (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, Gattuso, Rv. 271512 – 01), come quelle di supporto causale del non associato, rientranti nell’area del concorso esterno (Sez. 6, n. 4926 del 06/12/2016, dep. 2017, Formica, Rv. 269162 – 01; Sez. 1, n. 16783 del 07/04/2010, Profilo, Rv. 246943 – 01; Sez. 2, n. 7616 del 16/02/2006, Catalano, Rv. 234745 – 01; Sez. 2, n. 1023 del 16/12/2005, 2006, Canino, Rv. 233169 – 01; Sez. 6, n. 1120 del 17/03/1997, Prisco, Rv. 208005 01) o comunque idonee ad apportare un contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso (Sez. 2, n. 27855 del 22/03/2019, Valenza, Rv. 277402 – 01; Sez. 6, n. 3941 del 8/01/2016, Gagliano’, Rv. 266541 – 01; Sez. 6, n. 9747 del 29/01/2014, COGNOME, Rv. 259074 – 01; Sez. 1, n. 5649 del 16/01/2002, COGNOME, Rv. 221156 – 01), con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale.
Tanto osservato deve, innanzitutto, rilevarsi la manifesta infondatezza delle censure svolte con riferimento al giudizio di pericolosità del proposto.
3.1. Sul punto la Difesa ha articolato, innanzitutto, una serie di osservazioni critiche in relazione alla corretta individuazione della categoria di pericolosità ritenuta sussistente a carico di COGNOME.
Sotto un primo profilo non può in alcun modo condividersi il rilievo secondo cui i Giudici di merito avrebbero ritenuto di ravvisare una sorta di ibrido, un tertium genus tra la pericolosità generica e quella qualificata, in violazione del principio di tassatività in materia di prevenzione. Invero, dalla piana lettura del provvedimento impugnato emerge che nei confronti del proposto sono state ritenute sussistenti entrambe le categorie di pericolosità, essendo stato egli ritenuto appartenente ad organizzazioni mafiose di tipo ‘ndranghetista e, al contempo, autore di reati lucrogenetici dai quali abbia tratto profitti dai quali aveva tratto, sia pure in parte il sostentamento suo e dei familiari.
Come già osservato, infatti, COGNOME è stato condannato per il delitto previsto dall’art. 4, legge n. 516 del 1982 (per evasione imposte e IVA, nella qualità di amministratore della RAGIONE_SOCIALE, commesso nel 1991, per il quale gli è stata applicata, con sentenza in data 23 maggio 1995 pronunciata ex 444 cod. proc. pen., alla pena pecuniaria, applicata in sede di conversione, di 7.500.000 lire; per il delitto di omesso versamento di ritenute previdenziali, commesso nell’agosto 1996, per il quale con decreto penale del 25 gennaio 2000 gli è stata inflitta la pena di 6.150.000 lire di multa; per tre episodi di bancarotta fraudolenta, commesse, rispettivamente, fino al 1997, sino al 2007 e il 22 gennaio 2008, per i
quali è stato condannato alla pena di 2 anni e 4 mesi di reclusione inflitta con sentenza in data 26 ottobre 2007 e gli è stata applicata la pena di 1 anno di reclusione con sentenza ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. in data 3 marzo 2009 nonché di 3 mesi di reclusione applicata in continuazione con sentenza ex 444 cod. proc. pen. del 2 dicembre 2010. Infine, si è dato atto che COGNOME è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Torino, nel 2002, per il reato fiscale previsto dagli artt. 110 cod. pen., 11, comma 1, d.l. n. 201 del 2011, accertato nel settembre 2017. Elementi certamente idonei, stante il carattere lucrogenetico delle violazioni penali accertate, a fondare il riconoscimento, a suo carico, di una pericolosità generica ai sensi della lett. b) dell’art. 1, che non pare essere stata contestata con argomenti specifici nel presente giudizio.
Inoltre, i due decreti di merito hanno evidenziato, al fine di fondare il giudizio di pericolosità qualificata del proposto, la sentenza con cui, in data 20 luglio 2020, il Tribunale di Torino, nell’ambito dell’indagine cd. COGNOME, ha condannato COGNOME a 6 anni di reclusione e 8.000,00 euro di multa per riciclaggio, intestazione fittizia di beni, reati fiscali per l’emissione di fatture per operazion inesistenti, dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, commessi, tra il 2006 e il 2015, nell’ambito di società facenti capo allo `ndranghetista NOME COGNOME e nel cui contesto NOME COGNOME fungeva da intermediario. Nell’ambito di tale procedimento, pur essendo stata esclusa l’aggravante dell’art. 416-bis.1 cod. pen., il Giudici di merito, nell’ambito dell’autonomia valutativa del giudizio di prevenzione, hanno comunque ritenuto che dall’istruttoria svolta fossero emersi strettissimi rapporti con letto e la protratta contiguità di COGNOME con soggetti gravitanti nell’ambito ‘ndranghetista e che non fossero stati adeguatamente apprezzati una serie di elementi di fatto indicativi di una conoscenza, da parte del proposto, della provenienza illecita dei beni. Inoltre, attraverso il richiamo alle emergenze di vari procedimenti penali che non hanno condotto alla condanna di COGNOME sono stati ricostruiti i qualificati contatti intrattenuti dal proposto, sin dagli anni ’80, con soggetti legati ad ambienti ‘ndranghetisti (è il caso dei procedimenti a carico di NOME COGNOME e altri per i reati di riciclaggio e truffa, con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, di NOME COGNOME per reati in materia di stupefacenti e di NOME COGNOME per omicidio, nell’ambito dei quali era emerso che COGNOME aveva reso prestazioni professionali a favore di esponenti di vari sodalizi mafiosi, partecipando, tramite intitolazione di quote e/o l’assunzione di cariche sociali, a società ad essi riferibili alle quali aveva offerto la domiciliazione nel suo studio); ed è stato citato il procedimento pendente davanti al Tribunale di Potenza per il delitto previsto dall’art. 512-bis cod. pen., risalente al 2016, ascritto a COGNOME in concorso con la moglie, la figlia, NOME COGNOME e NOME COGNOME per il quale era stato emesso un decreto di sequestro Corte di Cassazione – copia non ufficiale
preventivo delle quote della RAGIONE_SOCIALE a responsabilità limitata, attinta nel 2016 da interdittiva antimafia del Prefetto di Potenza in ragione del controllo esercitato di fatto da COGNOME e dei rapporti tra costui e soggetti appartenenti ad associazioni mafiose.
Rispetto a tale puntuale ricostruzione, non colgono in alcun modo nel segno le considerazioni critiche con cui si sostiene che non risulterebbe motivata la appartenenza del proposto ad organizzazioni mafiose. Si sostiene che COGNOME non sarebbe mai stato coinvolto nelle indagini per omicidio indicate nel decreto, né nelle attività criminali di Carbone, sicché non sarebbero esistiti, a suo carico, reati qualificati, che non avrebbero potuto essere accertati non sulla base di mere annotazioni di polizia giudiziaria, essendo state richiamate conversazioni telefoniche che non lo vedrebbero come protagonista e si riferirebbero a indagini del 2004, quando egli aveva commesso solo reati a pericolosità generica. E analogamente, con riferimento alla sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano nel procedimento c.d. “Infinito”, la Difesa evidenzia che mai il proposto sarebbe stato indagato in quel procedimento.
Tali considerazioni, invero, sono chiaramente aspecifiche, non confrontandosi con gli articolati passaggi motivazionali dei provvedimenti di merito che hanno dato atto che, pacificamente, in tali procedimenti COGNOME non era stato destinatario di alcuna condanna, né, in altri, era stato formalmente indagato; ma che hanno evidenziato, al contempo, che l’ampia autonomia valutativa riconosciuta al giudice della prevenzione, consentiva una specifica valorizzazione delle informazioni ivi acquisite ai fini del giudizio di pericolosità qualificata.
3.2. Ribadita la correttezza della sussunzione della situazione riferibile a COGNOME ad entrambe le categorie, generica e qualificata di pericolosità sociale, vi è nondimeno da affrontare l’ulteriore questione, logicamente connessa, del profilo cronologico e, in particolare, a partire da quando possa ravvisarsi a suo carico la pericolosità cd. qualificata. E ciò per due ordini di ragioni.
Sotto un primo aspetto, la Difesa ha evidenziato come COGNOME, sino al 2008, avesse commesso reati espressivi di mera pericolosità generica, di tal che, sino a tale anno, non avrebbe potuto disporsi nei suoi confronti la misura patrimoniale, atteso che soltanto con il d.l. n. 92 del 2008 è stata introdotta la possibilità della confisca anche per i casi di pericolosità generica.
Sotto altro profilo, il ricorso di COGNOME ha sottolineato la diversa operatività del meccanismo di perimetrazione temporale a seconda che venga il rilievo la pericolosità “qualificata” ovvero sia ritenuta configurabile quella “generica”.
3.2.1. Ora, la Difesa ha sostenuto, come ricordato, che i decreti abbiano applicato retroattivamente le norme più sfavorevoli in materia di confisca di prevenzione, consentendone l’applicazione anche agli acquisti compiuti prima del 2008, quando la confisca non sarebbe stata ammessa per le ipotesi di pericolosità
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generica. Tuttavia, come detto, tale affermazione non si confronta con quanto emerso dai richiamati procedimenti in ordine ai legami qualificati, risalenti addirittura alla fine degli anni ’80, con soggetti appartenenti a contesti ‘ndranghetisti, caratterizzati da rapporti stabili, addirittura per parecchi decenni, di cointeressenza illecita; ciò che all’evidenza dimostra l’erronea premessa fattuale dell’intera argomentazione difensiva sul punto. Il complesso dei due provvedimenti di merito, infatti, ha ben delineato quello che è stato denominato come “metodo COGNOME“, ovvero la realizzazione di numerosi reati lucrogenetici in un contesto professionale attraverso il quale il proposto si era prestato anche a riciclare denaro proveniente dalle attività di alcuni gruppi ‘ndranghetisti, attraverso operazioni di frodi fiscali, realizzate specialmente tramite “cartiere”, come emerso da intercettazioni e dalla documentazione sequestrata in occasione della perquisizione presso l’abitazione di COGNOME al momento dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare e presso il suo studio torinese di INDIRIZZO
3.2.2. Venendo, quindi, alla perimetrazione temporale, va osservato che una volta risolta nei termini già indicati la questione dell’inizio delle condotte rilevanti ai fini del giudizio di pericolosità, rimane da affrontare quella relativa alla valutazione di attualità di quest’ultima compiuta dai due decreti. Sul punto, la ricostruzione compiuta sia dal provvedimento genetico, sia da quello impugnato, rivela in maniera chiarissima la radicale inesistenza del vizio denunciato, essendo stato evidenziato che COGNOME ha riportato un ulteriore condanna, in primo grado, inflitta dal Tribunale di Torino nel 2022 per il delitto previsto dagli artt. 110 cod. pen., 11, comma 1, d.l. n. 201 del 2011, accertato in Torino nel settembre 2017, relativo a una alterazione dei registri IVA della società RAGIONE_SOCIALE eseguita nel settembre 2017; e che ancora nel settembre 2021 vi era stata l’intestazione fittizia della RAGIONE_SOCIALE limitata.
Ne consegue, conclusivamente, l’inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME in quanto in parte aspecifico e, in altra parte, manifestamente infondato.
3.3. In ultimo è appena il caso di osservare come la questione di costituzionalità degli artt. 1, 4, 16, 20 e 24, d.lgs. n. 159 del 2011 che la Difesa ha chiesto venga sollevata nella parte in cui essi non prevedono che il sequestro e la confisca di prevenzione possano essere disposti soltanto ove la condotta sia stata tenuta nella vigenza di una legge che ne prevedeva la possibilità, sia del tutto irrilevante nel presente procedimento. Ciò in quanto, come diffusamente argomentato, nel caso cui esaminato non si è proceduto ad alcuna applicazione retroattiva delle norme che prevedono la possibilità di fare luogo alla confisca di prevenzione nelle ipotesi di pericolosità generica.
Inammissibile è anche il ricorso di NOME COGNOME moglie di NOME COGNOME terza interessata rispetto alla confisca operata sulla sua quota di capitale
e sull’intero compendio aziendale dello RAGIONE_SOCIALE (capo a.1), sull’intero compendio aziendale della RAGIONE_SOCIALE (capo a.2), sui terreni siti a Melfi (capo b.2), sui saldi attivi dei rapporti finanzia a lei intestati (capo c.3). L’odierno ricorso, infatti, si connota in termini di evident aspeficità, reiterando le medesime censure già svolte con l’atto di appello, cui la Corte territoriale ha fornito adeguata risposta, con motivazione complessivamente congrua e di certo non apparente, né tantomeno inesistente.
Ciò è a dirsi con riferimento all’argomento, trasversale rispetto alle vicende dei singoli acquisti, secondo i Giudici di merito avrebbero obliterato l’allegazione difensiva secondo cui NOME COGNOME sarebbe stata titolare di autonomo reddito, come da «prospetto reddituale» di cui alle pagine 198 e ss. della proposta di misura e avrebbe potuto fruire delle “ricchezze” della famiglia di origine, come indicato ai prospetti delle pagg. 252, 255, 257, 260, 260-265.
In disparte la circostanza che, come si vedrà, taluni degli acquisti della COGNOME sono stati riferiti a COGNOME non già sulla base della esiguità dei redditi della moglie e della loro incongruità rispetto al valore dei cespiti, all’osservazione difensiva il decreto ha replicato rilevando che il «prospetto reddituale» di cui alle pagine 198 e ss. attestava redditi assai modesti della COGNOME, per poche migliaia di euro sino al 2000, comunque non sufficienti per le acquisizioni effettuate; di tal che la riproposizione della questione nei medesimi termini di quanto riportato nell’atto di appello deve ritenersi non consentita.
Venendo, indi, ai singoli acquisti, premesso che rispetto alla confisca della quota della Buglione della RAGIONE_SOCIALE e dei relativi beni della società, il ricorso non ha articolato specifiche censure, giova soffermarsi sulle censure relative alla confisca della RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE
In proposito, gli argomenti difensivi si sono, innanzitutto, appuntati sulla circostanza che essa fosse stata costituita con un capitale sociale di 1.000,00 euro, versato per 900,00 euro dalla Buglione e per euro 50,00 da ciascuno dei figli, aventi autonoma sufficienza patrimoniale; e che per acquistare l’immobile sito in Torino, INDIRIZZO venne stipulato un contratto di locazione finanziaria con un primo canone pari a euro 28.000, con onere sopportato dalla ricorrente, che aveva autonomia reddituale (posto il suo reddito netto imponibile pari a 17.353,98 euro nel 2001 era cresciuto sino a 48.198,00 euro nel 2006 e che ella in ogni caso poteva fruire delle ricchezze della famiglia di origine), mentre i successivi canoni mensili, di 1.844,39 euro e le rate del mutuo contratto nel 2016 vennero finanziati anche, ma non solo, con i proventi dei contratti di locazione, in cui il soggetto locatore, nel tempo, fu anche diverso dal proposto.
Il decreto ha, tuttavia, congruamente replicato a tali rilievi evidenziando come la riconducibilità a COGNOME della società RAGIONE_SOCIALE sia stata ritenuta a partire da plurimi, gravi, precisi e concordanti elementi indiziari, costituiti d
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intercettazioni telefoniche attestanti la fittizietà della separazione coniugale (e in generale il ruolo servente dei suoi familiari rispetto all’attività dello Studio COGNOME, alla quale la società immobiliare era strumentale) e da una serie di pregnanti argomenti logici, quali: il fatto che, in occasione di un controllo dell’Agenzia della Entrate nel 2012 sulla regolarità della dichiarazione UNICO PF/2009 presentata da COGNOME, costui avesse richiesto, in sede di adesione, il riconoscimento delle spese per la tenuta della contabilità riferite a fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE nonché una quota parte delle spese per i servizi contabili forniti dalla RAGIONE_SOCIALE di letto NOME RAGIONE_SOCIALE, esibendo copia del libro dei cespiti ammortizzabili nonché copia del libro matricola della RAGIONE_SOCIALE al fine di evidenziare che la stessa fosse dotata di una propria struttura organizzativa e di personale in grado di svolgere l’attività di elaborazione dati, nonché il fatto che il proposto fosse delegato a operare sul conto corrente n. 1000/60218 aperto, il 24 gennaio 2003, presso l’Intesa Sanpaolo, nonostante che egli non abbia mai rivestito formalmente alcuna carica, né abbia mai detenuto quote societarie: circostanza indicativa del fatto che egli fosse il reale dominus dell’impresa. Inoltre, è stato evidenziato, accanto al contratto di comodato stipulato nel 2013 dalla società con NOME COGNOME avente ad oggetto una autovettura FIAT 161, che l’attività dell’Immobiliare RAGIONE_SOCIALE era strumentale agli interessi e all’attività del proposto, avendo essa acquistato, sin dalla sua costituzione, l’immobile di INDIRIZZO ove COGNOME operava e ove aveva anche sede la STP prima di trasferirsi in INDIRIZZO e riguardando la sua operatività prevalentemente la locazione dell’immobile allo Studio COGNOME, attraverso i cui canoni la RAGIONE_SOCIALE si finanziava.
Una ricostruzione, congrua e logica, rispetto alla quale il ricorso si è limitato ad affermare, con modalità apoditticamente confutative, l’assenza di un rapporto di strumentalità tra l’attività della RAGIONE_SOCIALE e lo Studio COGNOME, che il decreto ha argonnentatamente ritenuto e, altrettanto, assertivamente l’insussistenza di elementi indiziari, plurimi, gravi, precisi e concordanti, con i quali, per tale via, esso ha rinunciato a confrontarsi.
Venendo, indi, alle acquisizioni patrimoniali sub b2), costituite dai terreni siti a Melfi, sia l’appello che l’odierno ricorso hanno evidenziato, innanzitutto, come esse fossero antecedenti al 1996, epoca in cui viene collocata la pericolosità generica del proposto. Un’osservazione, questa, che però non si confronta con la perimetrazione temporale operata dai decreti di merito, che collocano l’inizio della pericolosità di Bafunno al 1991. Quanto, poi, alla circostanza che gli immobili fossero stati in realtà acquisitati dalla COGNOME quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, senza che sia stata compiuta alcuna disamina sulla capacità economica dell’acquirente al momento dell’acquisto, il decreto ha ben sottolineato come, in tale periodo, la capacità economica della COGNOME fosse nulla, con ciò
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argomentando logicamente in ordine alla riferibilità al proposto delle quote della società, tenuto conto della commissione, all’epoca, di reati lucrogenetici da parte di costui. Né appare pertinente il richiamo, in relazione a tali acquisti, al diverso epilogo decisorio che ha riguardato l’immobile di INDIRIZZO in Pecetto Torinese, pervenuto alla Buglione il 9 febbraio 1993 quale acquisto dal fratello NOME, che la Corte ha riferito a un passaggio generazionale dei beni della famiglia originaria; differente valutazione che la Corte territoriale ha compiuto proprio in relazione alla ridefinizione dei loro rapporti ereditari, cui la proprietà della RAGIONE_SOCIALE non risulta riferibile.
Quanto, poi, al buono postale di 2.500,00 euro, l’affermazione secondo cui esso rientrasse nella successione e corrispondesse ad analoga dazione a favore del fratello NOME da parte dei genitori non è stata ritenuta riscontrata, senza che il ricorso abbia fornito determinanti elementi per sovvertire . tale approdo valutativo. E ad analoga conclusione deve pervenirsi quanto al contenuto della cassetta di sicurezza n. 3200/NUMERO_DOCUMENTO presente presso la Banca Intesa Sanpaolo che secondo la ricorrente riguarderebbe monili di famiglia e regali ricevuti in occasione della nascita, del battesimo, della prima comunione e della cresima dei figli; affermazione che i decreti hanno ritenuto priva «di specifiche dimostrazioni», senza che, anche in questo caso, il ricorso abbia fornito decisivi riscontri.
Quanto, infine, ai conti correnti intestati alla COGNOME, che secondo la tesi difensiva sarebbero stati alimentati con i proventi della sua attività professionale nel settore dell’elaborazione dati, anche in questo caso la confisca è stata logicamente motivata con il fatto che, in realtà, l’attività formalmente intestata alla donna fosse riferibile al proposto e che, dunque, la COGNOME non percepisse redditi congrui rispetto alle disponibilità rilevate.
Inammissibile è, ancora, il ricorso proposto da NOME COGNOME avente ad oggetto le sue quote, pari al 40%, e il patrimonio della società Studio COGNOME RAGIONE_SOCIALE, costituiti in particolare da rapporti finanziari.
5.1. In argomento, la Difesa del ricorrente ha censurato, da un lato, l’erronea applicazione dell’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 e, con essa, della presunzione di riferibilità del cespite al proposto, ponendo illegittimamente sul terzo interessato la prova contraria, laddove secondo la giurisprudenza di legittimità tale disposizione prevedrebbe soltanto un potere di indirizzo dell’indagine patrimoniale, sicché, al di fuori delle presunzioni di cui all’art. 26, comma 2, il rapporto esistente tra il proposto e i familiari conviventi potrebbe essere significativo della fittizietà della intestazione quando il terzo sia sprovvisto di effettiva capacità economica, laddove il ricorrente non sarebbe stato convivente con il proposto sin dal dicembre 2008 e avrebbe avuto una adeguata capacità
professionale quando, nel 2014, aveva riacquistato le quote cedute nel 2012, posto che in quell’anno egli era dottore commercialista da tempo e aveva un reddito disponibile di oltre cinquantamila euro, tanto che all’inizio del procedimento di prevenzione egli sarebbe stato escluso dal bilancio del nucleo del proposto dal 2013 in poi. Ciò che avrebbe dovuto comportare il riconoscimento dell’apporto all’attività dello studio fornito dall’attività professionale del ricorrent sicché l’impresa sarebbe stata frutto di attività illecita solo inizialmente, essendo poi possibile distinguere i redditi illeciti da quelli leciti.
Ne consegue, conclusivamente, che il ricorso deve ritenersi del tutto aspecifico e, nel merito delle argomentazioni svolte, manifestamente infondato, non ravvisandosi, nella specie, alcuna apparenza di motivazione.
Inammissibile è, ancora, il ricorso per cassazione proposto da NOME COGNOME e articolato in quattro distinti motivi di impugnazione.
6.1. Con il primo motivo, la Difesa lamenta che i cespiti intestati alla COGNOME sarebbero stati confiscati sull’erroneo presupposto dell’intestazione fittizia al
padre, nonostante le allegazioni di una lecita e proporzionata capacità economica per l’acquisto da parte della donna, nonché per l’erronea qualificazione come provvista illecita dei contributi al mantenimento versati alla figlia dal proposto, esercente la potestà genitoriale.
6.1.1. Muovendo da tale premessa, il ricorso evidenzia come la ricorrente avrebbe confutato la ricostruzione accolta dai due decreti in ordine alla fittizia intestazione da parte del proposto alla figlia dei cespiti confiscati, atteso che la donna avrebbe potuto contare su lecite e sufficienti disponibilità economiche, derivanti dall’attività professionale svolta, che sarebbe andata in crescendo nel corso degli anni, oltre che, nei primi anni, su un modesto contributo di mantenimento da parte del padre, rientrante nell’obbligo gravante sul genitore di mantenere i figli ai sensi degli artt. 30 Cost. e 147 cod. civ., comunque congruo rispetto al reddito dichiarato dal nucleo. In questo modo, i Giudici di merito avrebbero presunto la falsa intestazione senza che essa sia stata mai contestata formalmente; e avrebbero erroneamente applicato una norma, l’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 che prevedrebbe la possibilità di estendere le indagini patrimoniali al coniuge, ai figli e ai soggetti che abbiano convissuto nell’ultimo quinquennio con il proposto, ma che contemplerebbe alcuna presunzione, prevista invece dall’art. 26, d.lgs. n. 159 del 2011, sicché l’Accusa avrebbe dovuto dimostrare che al terzo intestatario non corrispondeva l’effettiva titolarità e disponibilità dei beni e la provenienza illecita della provvista utilizzata per l’acquisto. Nel caso in esame, la COGNOME avrebbe fornito prova documentale che nel periodo dell’indagine (2007-2016) aveva maturato un proprio reddito per complessivi 147.320,00 euro, grazie all’attività professionale e ai 500 euro mensili percepiti quale canone di locazione dell’immobile di INDIRIZZO; reddito proporzionato al valore dei beni confiscandi, come riconosciuto dalla stessa Corte di appello, che li avrebbe riferiti al proposto alla stregua di un approccio presuntivo. In particolare, proprio con riferimento alla confisca dei 85.000,00 euro rinvenuti sul conto corrente della Intesa San Paolo intestato alla Bafunno, costituenti corrispettivo dalla vendita del predetto immobile, la Corte di appello non avrebbe tenuto in considerazione le allegazioni difensive per cui esso sarebbe stato acquistato il 19 luglio 2007, quando ella era titolare di redditi autonomi, mediante accensione di un mutuo da saldare con rate mensili, senza la corresponsione di un acconto, da lei versate grazie ai propri redditi, andati aumentando nel corso degli anni, integrati dal canone di locazione corrisposto da conduttori succedutisi negli anni. E ciò senza che il proposto avesse partecipato all’operazione, essendo COGNOME rimasto estraneo alla compravendita dell’immobile. Parimenti, anche per i fondi di risparmio e assicurativi di modesto valore e compatibili con la capacità reddituale della ricorrente negli anni d’interesse, acquisiti in prossimità o successivamente all’uscita dal nucleo Corte di Cassazione – copia non ufficiale
familiare, allorché -ella non era più a carico dei genitori, l’Accusa non avrebbe dimostrato l’impiego di fondi del proposto, né l’interposizione del medesimo.
6.1.2. Osserva il Collegio che il presente motivo è stato articolato con modalità del tutto generiche, sul presupposto di una capacità reddituale della COGNOME che, negli anni, sarebbe andata in crescendo, tale da consentirle gli acquisti dei beni oggetti di confisca. E’, però, evidente che un siffatto modo di argomentare non può essere consentito, dal momento che, per alcuni acquisti, si pensi alle quote e al compendio aziendale della Studio COGNOME società temporanea di professionisti a r.l. la fittizia intestazione è stata ritenuta dimostrata a partire da una serie di elementi logico-fattuali, indicativi del ruolo di effettivo dominus del proposto, rispetto ai quali il ricorso non ha formulato alcuna osservazione critica; e dal momento che la capacità reddituale deve essere contestualizzata sul piano temporale e in relazione al singolo acquisto, laddove il ricorso, a ben vedere, non ha sviluppato, nel presente motivo, una critica specifica delle acquisizioni dei singoli beni, fatta eccezione per il ricavato della vendita dell’immobile di INDIRIZZO su cui si vedano le considerazioni articolate con riferimento al terzo motivo di ricorso, e per i fondi di risparmio e assicurativi, peraltro richiamati solo in maniera generica e onnicomprensiva attraverso il riferimento alle quote Sicav e Picted Funds (v. pag. 10 del ricorso). Anche laddove il ricorso ha, appunto, richiamato tali acquisti in maniera specifica, le critiche difensive non si sono però confrontate con la motivazione del provvedimento impugnato. Nel rinviare, per quanto concerne l’immobile, alle considerazioni svolte al § 6.3 del «considerato in diritto», deve solo osservarsi, quanto ai menzionati fonti di risparmio e assicurativi, che il decreto impugnato ha ritenuto non rilevante che, nel 2017, NOME COGNOME avesse una propria autonomia economica che le avrebbe consentito un investimento di complessivi 11.367,79 euro, essendone stata disposta la confisca in ragione del fatto che erano state acquisite su una provvista presente su un conto corrente alimentalo da bonifici di NOME COGNOME. Motivazione, tutt’altro che apparente, con cui il presente motivo non si confronta in alcun modo, risultando all’evidenza aspecifico. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
6.2. Inammissibile è anche il secondo motivo, con cui il ricorso lamenta l’applicazione della confisca della totalità dei cespiti intestati alla COGNOME, senza considerare le risorse lecite nella sua disponibilità, tanto più che il decreto impugnato darebbe atto che «vi è una progressione negli anni dei guadagni da parte di NOME COGNOME» e che, tra il 2007 e il 2016, ella aveva maturato un reddito lecito di 147.320,00 euro. Pertanto, la confisca dei beni intestati alla ricorrente, nella loro integralità, risulterebbe sproporzionata per la presenza di una percentuale di risorse lecite e giustificate, compatibili con una quota di tali beni.
Il motivo, invero, è nuovo, non trovando riscontro nei motivi di appello riportati nel decreto impugnato e non avendo il ricorso denunciato di avere dedotto le
presenti censure con il gravame e di voler aggredire il passaggio del provvedimento contenente le relative statuizioni sull’argomento. Inoltre, esso è articolato in maniera del tutto generica, prospettando una circostanza di fatto, ovvero l’avvenuta ablazione di qualunque utilità patrimoniale riferibile alla ricorrente, che non è verificabile da questo Collegio. E in ogni caso la relativa censura sembra fondarsi su una premessa non condivisibile, posto che, in astratto, potrebbe anche ammettersi la confisca di tutte le utilità patrimoniali riferibili al terzo interessato, quando queste siano riferibili al proposto e possano ritenersi acquisite nel periodo coinvolto nel giudizio di pericolosità; di modo che la relativa censura, per poter essere scrutinabile, dovrebbe indicare specificamente, ovvero con riferimento al singolo acquisto, le ragioni per le quali debba escludersi la riferibilità dell’acquisto al proposto e la legittimità del medesimo, in quanto avvenuto con utilizzo delle lecite risorse economiche dell’interessato.
6.3. Inammissibile è anche il terzo motivo, relativo alla confisca dell’intero importo di 85.000,00 euro ricavato dalla vendita dell’immobile di Torino, INDIRIZZO. La Difesa lamenta che la misura reale abbia riguardato sia gli esborsi per il pagamento delle residue rate del mutuo, che non potrebbero ricondursi a risorse del proposto in quanto effettuati dalla ricorrente con risorse proprie, sia la plusvalenza di 5.000,00 euro acquisita sulla rivendita dell’immobile, che non aveva nessun legame con il negozio iniziale; doglianza che, dedotta con specifico motivo nell’appello, sarebbe stata obliata dal decreto.
Sul punto, la Corte territoriale ha evidenziato come l’acquisto, avvenuto il 19 luglio 2007, dovesse ritenersi riconducibile a NOME COGNOME in quanto al momento in cui esso era stato effettuato NOME COGNOME non disponeva di alcun reddito. Quanto, poi, al pagamento della rata mensile del mutuo di 664,00 euro, che si assume essere stato effettuato grazie ai canoni da lei percepiti dalla locazione dell’immobile, il decreto ha rilevato che, in ogni caso, la rata mensile era inferiore al costo di quella del mutuo, pari a 500,00 euro; e che dovevano essere sostenute delle spese per l’immobile. Infatti, anche ad ammettere che, in ragione del ruolo rivestito dal 2012 al 2014 quale amministratore unico dello Studio COGNOME e dei redditi da fabbricati, tra il 2007 e il 2016, ella abbia progressivamente maturato un reddito disponibile complessivo di 147.320 euro, sufficienti a pagare i ratei del mutuo di circa 75.000 euro, la deduzione difensiva non terrebbe conto delle spese di mantenimento dell’immobile richiedeva e delle ulteriori onerose acquisizioni che si assume ella avrebbe potuto autonomamente effettuare. Fermo restando che il lavoro svolto, in particolare nel primo periodo, in cui non aveva alcuna esperienza, poteva comunque garantire introiti modesti. Dunque, in definitiva, l’erogazione del mutuo era stata resa possibile, in assenza fin dall’origine di risorse adeguate al pagamento delle rate da parte di NOME COGNOME grazie alle disponibilità che il padre le garantiva e che avevano consentito
di pagare le rate in scadenza. In altri termini, il mutuo era stato acceso anche grazie alle illecite risorse di cui NOME COGNOME disponeva, a partire dalle quali il padre aveva disposto l’intestazione del bene in capo alla figlia. Una motivazione, quella appena riassunta, che deve ritenersi logica e congrua e che, in ogni caso, non può essere censurata in sede di legittimità come apparente. Mentre con riferimento alla plusvalenza, ovvero all’incremento di valore dell’immobile tra il momento dell’acquisto e quello della successiva vendita, pari a 5.000 euro, non può in alcun modo dubitarsi della confiscabilità di essa, siccome riferibile al bene acquistato con gli illeciti proventi dell’attività delittuosa del proposto. In proposito, infatti, è stato condivisibilmente affermato che la giustificazione di provenienza che – in sede di prevenzione patrimoniale – deve essere fornita dal soggetto interessato, una volta che venga dimostrato dall’accusa il complessivo squilibrio di valori tra reddito e investimenti non può alimentarsi dalla allegazione di un reddito ‘derivante’ dall’impiego (o dalla vendita a terzi) di uno dei beni il cui acquisto primario non sia, a sua volta, giustificato. Ciò perché l’impiego del bene in questione realizza, in realtà, una forma di utilizzo a fini ulteriormente speculativi di una porzione di patrimonio di illecita provenienza, passibile, di per sé, di confisca. Il successivo recupero di una plusvalenza equivale, pertanto, a reimpiego e non può assumere alcuna connotazione giustificativa (Sez. 1, n. 30219 del 15/01/2016, COGNOME, in motivazione).
6.4. Inammissibile, in quanto aspecifico, è anche il quarto motivo di ricorso, relativo alla confisca della quota del 40% dello Studio COGNOME RAGIONE_SOCIALE a Responsabilità Limitata, intestata alla stessa NOME COGNOME.
Anche in questo caso devono richiamarsi le considerazioni già svolte in relazione alla riferibilità della società al proposto, valendo le osservazioni che sono state articolate con riferimento alla posizione del fratello NOME e, in particolare: la continuità tra tale società e quella con cui, in precedenza, il padre esercitava l’attività professionale, nonché il ruolo di dominus dallo stesso esercitato e palesate dal richiamato compendio intercettativo; ruolo mai venuto meno nemmeno nel periodo in cui NOME come il fratello NOME, avevano acquistato una posizione professionale autonoma ed avevano iniziato a lavorare per lo studio. Considerazioni con le quali, come già avvenuto per il germano, il ricorso non si confronta in alcun modo.
7. Inammissibili, infine, devono ritenersi i ricorsi proposti da NOME e NOME COGNOME in relazione alla confisca della RAGIONE_SOCIALE, rispetto alla quale hanno contestato, sotto il profilo della violazione di legge, la disponibilità del compendio da parte del proposto, la quale, non essendo stato indicato l’apporto che COGNOME avrebbe recato sulla società, non potrebbe essere affermata né a partire dalla costituzione di essa nel 2017 in mancanza di condotte
attraverso cui si sarebbe esplicitata l’interposizione, né in base alle condotte asseritamente diminutorie del patrimonio della Ofanto o commesse attraverso i negozi giuridici ritenuti sospetti.
7.1. In proposito va evidenziato che, ancora una volta, il ricorso non si confronta con l’ampia ed esaustiva motivazione resa dal provvedimento impugnato, assumendo, apoditticamente, la mancanza di elementi fattuali dai quali ricavare la disponibilità in capo al proposto del bene oggetto di confisca.
La Corte territoriale ha premesso che il 4 febbraio 2006 era stata costituita la Azienda agricola Ofanto tra Ruggiero Potito, NOME COGNOME e i figli del proposto, NOME e NOME, i quali, non presenti all’atto, erano stati rappresentati dal padre, quale loro procuratore speciale, il quale è stato individuato come il reale titolare delle quote intestate ai figli, che avrebbero conferito 7.000.00 euro pur essendo studenti e privi di autonomia economica, in una situazione familiare di sperequazione a scalare pari a -30.533,69 euro e che avrebbero finanziato pro quota l’aumento di capitale sociale deliberato il 24 dicembre 2007, da 10.000 a 110.000 euro, in presenza della medesima situazione di sperequazione a scalare e quando i figli del proposto non avevano la possibilità economica di versare il conferimento; possibilità che, invece, aveva il padre, autore, nel periodo, di reati lucrogenetici, come la bancarotta fraudolenta della cooperativa RAGIONE_SOCIALE, in cui era stata contestata al proposto la distrazione di circa un milione di euro. Inoltre, i decreti hanno richiamato gli elementi riportati nel decreto di sequestro preventivo disposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza in data 9 settembre 2021 e, in particolare, le plurime intercettazioni dalle quali emergeva che fossero nella disponibilità di NOME COGNOME anche le quote di NOME COGNOME, NOME COGNOME (cugino della moglie del proposto) e NOME COGNOME (moglie di NOME COGNOME, collegato professionalmente a Bafunno), atteso che nelle relative conversazioni il proposto impartiva disposizioni precise a NOME COGNOME sulla gestione della società, sulle strategie di marketing e di sviluppo aziendale e veniva riconosciuto, come nella conversazione con tale COGNOME, come il reale dominus della Ofanto. Inoltre, il decreto ha evidenziato, da un lato, che una automobile intestata alla società era stata sequestrata a Bafunno a Torino; e, dall’altro lato, che era stata documentata una serie di flussi finanziari tra la RAGIONE_SOCIALE società di cui COGNOME era legale rappresentante (RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE la società cooperativa e altre). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Dopo tale premessa, il decreto ha evidenziato che l’RAGIONE_SOCIALE era stata destinataria dell’interdittiva antimafia adottata il 10 febbraio 2016 dalla Prefettura di Potenza e che il 6 dicembre 2016 NOME COGNOME e NOME COGNOME avevano ceduto le loro quote a NOME COGNOME e a COGNOME. Indi, il 26 ottobre 2017 NOME COGNOME e NOME COGNOME fratello di COGNOME, avevano costituito la RAGIONE_SOCIALE, attraverso cui la RAGIONE_SOCIALE
avente un oggetto sociale sovrapponibile, era stata svuotata e posta al riparo dalla
RAGIONE_SOCIALE apprensione dei suoi beni, atteso che il ramo di azienda della
era stato concesso in affitto, con un canone esiguo, per 30 anni alla
Ofanto
Tenuta
I COGNOME, cui in data 10 marzo 2021 la prima aveva ceduto i beni strumentali con
una minusva lenza di ben 60.000 euro. E dal momento che COGNOME, come detto, gestiva la
RAGIONE_SOCIALE per il tramite di NOME COGNOME e che tale società era
Tenuta I Gelsi, sostanzialmente confluita nella
formalmente gestita dal fratello di quest’ultimo, NOMECOGNOME ma che lo stesso COGNOME come ammesso dal germano
era colui che gestiva anche la nuova società, come confermato riferito nella nota della D.D.A. di Torino del 1° aprile 2022, secondo cui COGNOME era stato
l’interlocutore per entrambe le società del dott. COGNOME depositario delle scritture contabili di esse, il decreto ha logicamente concluso che COGNOME fosse
nella disponibilità anche della Tenuta I Gelsi, ancora una volta per il tramite di
NOME COGNOME traendo un’ultima conferma anche dalla pubblicazione sul sito internet dell’azienda di un contenuto che riferiva come la
Tenuta COGNOME fosse nata
per volere di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Ne consegue, conclusivamente, l’inammissibilità anche dei ricorsi proposti dai COGNOME, in ragione della loro evidente aspecificità, avendo essi omesso totalmente di confrontarsi con i logici e congrui passaggi motivazionali del decreto impugnato.
Sulla base delle considerazioni che precedono, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla medesima declaratoria di inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 euro.
PER QUESTI MOTIVI
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in data 20 novembre 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente