Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 24345 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 24345 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 28/04/2025
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dalla consigliera NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto dei ricorsi; letta la memoria di replica depositata nell’interesse di NOME COGNOME dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME letta la memoria di replica depositata nell’interesse di NOME COGNOME e
NOME COGNOME dall’avvocato NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Bari, con decreto del 19 dicembre 2024, ha rigettato l’appello proposto da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME quali terze interessate, avverso il decreto del 7 marzo 2024 con il quale il Tribunale di Bari aveva ordinato la confisca, tra gli altri, di beni immobi disponibilità bancarie e finanziarie, dell’impresa individuale “COGNOME RAGIONE_SOCIALE” e della società “RAGIONE_SOCIALE” nonché della somma di euro 20.000 sul libretto intestato a NOME COGNOME cointestato con la nonna, NOME COGNOME.
Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. at cod. proc. pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione NOME COGNOME e le terze interessate, NOME COGNOME e NOME COGNOME chiedono l’annullamento del decreto impugnato perché viziato dall’erronea applicazione della legge penale.
2.1. NOME COGNOME con i motivi di ricorso denuncia:
2.1.1. violazione di legge (artt. 4, lett. b) d. Igs. 159 del 2011 in relazio all’art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen.), per effetto della ritenuta pericolosità sociale derivante dall’inquadramento del predetto quale componente, in grado apicale, di due associazioni a delinquere finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 d.P.R. n. 309/1990). La Corte di appello ha inquadrato il COGNOME nella categoria di soggetti pericolosi cd. specifici, integrando in tal senso il decreto del Tribunale, ma violando sia il principio della domanda sia il principio di devoluzione poiché tale inquadramento non era posto a fondamento della proposta né della decisione di primo grado.
La Corte di appello ha disposto un trattamento in peius del proposto in mancanza di appello, sulla base elementi in fatto che non erano stati contestati e soprattutto, in violazione del disposto di cui all’art. 4, lett. b) cit., integrat riferimento all’art. 74 d.P.R. n. 309 cit. solo con la I. 161 del 2017 (entrata vigore il 19 novembre 2017), e, quindi, in epoca successiva ai fatti contestati, commessi negli anni 1994 e 1996, che non erano costitutivi della fattispecie di pericolosità sociale al momento della commissione. Concludente con tale affermazione, tenuto conto del principio secondo cui le misure di sicurezza sono disciplinate dalla legge in vigore al momento della loro applicazione, è la previsione recata dall’art. 36, comma 4, della I. 161 cit. secondo cui le disposizioni dell’art. – che ha ampliato il catalogo delle misure di prevenzione a fattispecie di reato diverse dall’art. 416-bis cod. pen.- non si applicano ai procedimenti di misure di prevenzione in cui la proposta sia stata formulata prima della entrata in vigore
della legge. Una disposizione che consentisse di ritenere fonte dell’applicazione della misura di prevenzione fatti costitutivi della stessa non considerati tali dall legge in vigore al momento della loro commissione, si porrebbe in contrasto con l’art. 7 della CEDU. Nell’ampia nozione di condanna rientrano, anche ai fini dell’applicazione della misura della confisca, e non solo delle misure di prevenzione personali, condotte in senso lato punitive e che riducono i diritti fondamentali di libertà.
2.1.2. Erronea applicazione della legge penale (art. 24 d. Igs. 159 cit) in relazione alla ritenuta pericolosità sociale del COGNOME fino alla data del 16 novembre 2012, periodo “coperto da giudicato” in forza dell’applicazione al predetto della misura di prevenzione personale, che non è suscettibile di “passare in giudicato” potendo essere, sia la misura personale che quella reale, revocate per fatti sopravvenuti, tanto è vero che a tali tipologie di provvedimenti non si applica l’istituto di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. che presuppone un provvedimento di condanna definitivo.
La Corte di appello di Bari ha errato nel ritenere sufficiente, ai fini del giudiz di pericolosità sociale del COGNOME, il decreto che aveva applicato al predetto la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza potendo, invece, con adeguata motivazione, escluderla.
Inoltre, ai fini dell’applicazione della confisca, la Corte di appello avrebbe dovuto accertare il nesso di derivazione, diretta e causale, tra i fatti e le condott che sostanziano la pericolosità e l’acquisto dei beni, e, quindi, avrebbe dovuto accertare se l’acquisto dei beni rinvenisse direttamente dalle condotte costitutive della pericolosità o ne costituisse il reimpiego e se la loro presenza nel patrimonio del proposto fosse sproporzionata rispetto alle fonti di cui il prevenuto poteva disporre lecitamente.
E’, pertanto, erronea l’affermazione contenuta nel decreto impugnato secondo cui la pericolosità sociale del COGNOME poteva ritenersi accertata fino al 16 novembre 2012: la Corte di appello ha, in sostanza, riprodotto la motivazione del decreto di primo grado e ha ritenuto cristallizzata al 12 novembre 2012 la condizione di pericolosità sociale del COGNOME accertata con il decreto del Tribunale di Bari del 29 ottobre 1995, nonostante la detenzione da questi subita.
Il decreto del 9 novembre 2012, con il quale la Corte di appello di Bari aveva escluso la sussistenza di condizioni che, rispetto all’originario provvedimento del 1995, limitassero e escludessero la condizione di pericolosità sociale del COGNOME, non riguardava anche l’accertamento della sussistenza di condotte che avessero prodotto profitti illeciti, comportamenti che il giudice della misura di prevenzione reale avrebbe dovuto, invece, accertare in positivo.
Il decreto impugnato, ancorando il giudizio di pericolosità sociale del COGNOME “perlomeno fino al 16 novembre 2012” ha commesso una serie di errori ed ha ritenuto accertata la pericolosità del COGNOME a fronte di un accertamento risalente all’anno 1995 e dell’assenza di meri elementi idonei a modificare tale accertamento; non ha compiuto accertamenti relativi al perdurare della pericolosità sociale rispetto a fatti-reato commessi fino al 1994 e 1995, senza verificare il perdurare delle associazioni la cui operatività era cristallizzata alle da ora indicate; ha ancorato la pericolosità del COGNOME alla pretesa pericolosità qualificata insussistente al momento di applicazione della misura; non si è posto il problema che, comunque, tali associazioni erano state disarticolate e della detenzione subita dal COGNOME a partire dall’anno 2000; ha travisato il contenuto del decreto n. 24/2012 della Corte di appello di Bari.
Ne discende la illegittimità del sequestro dell’impresa individuale costituita da COGNOME Nicoletta nell’anno 2010 a notevole distanza temporale dalla manifestazione di pericolosità del COGNOME.
2.1.3. Erronea applicazione della disposizione di cui all’art. 24 d. Igs. 159 del 2011.
La confisca della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE” e “a cascata” della società “RAGIONE_SOCIALE” e degli altri beni è frutto dell’applicazione di “una catena di presunzioni” che contrastano con la regola secondo cui la derivazione dei beni oggetto di confisca da fonti primarie illecite …o che ne costituiscano il reimpiego deve essere certa (…risultino…).
Non solo è stata applicata la presunzione della pericolosità del COGNOME a distanza dalla commissione dei reati ma è frutto di una mera presunzione che beni, di imprecisata grandezza, accumulati attraverso reati cessati dieci/dodici anni prima della costituzione della ditta individuale “fossero stati accumulati e conservati”.
Le argomentazioni del decreto impugnato sono, a tal riguardo, apodittiche e, comunque, “agganciate” al mero requisito della sproporzione rispetto ai redditi leciti, sproporzione che, da sola, non giustifica l’adozione della confisca dovendo sussistere al momento della costituzione dell’impresa individuale, la pericolosità sociale del COGNOME (insussistente per le ragioni innanzi indicate) e, comunque, perché il requisito di sproporzione postula la individuazione dell’entità delle somme investite nell’attività, mai accertata, perché il proposto e i terzi avevano ampiamente documentato i redditi prodotti comprovando, altresì, la minima rilevanza dell’apporto lavorativo fornito dal COGNOME rispetto alle somme investite di cui era stata indicata la provvista.
E’ frutto di un vero e proprio paralogismo l’argomento con il quale il decreto ha respinto l’obiezione difensiva secondo la quale avrebbe dovuto essere
individuato il sistema di conversione delle somme in lire rispetto all’investimento in euro (che, cioè, il COGNOME avesse fatto ricorso ad intestazioni a terzi delle somme).
Non erano state adeguatamente esaminate le prove testimoniali allegate dalla Acquaviva (le dichiarazioni di terzi che l’avevano sovvenzionata; il modesto impiego di somme poiché la RAGIONE_SOCIALE aveva subappaltato le lavorazioni che le erano state commissionate; la circostanza che l’Acquaviva avesse rilevato l’avviamento della ditta dal cognato; la dimostrazione del pagamento, con gli introiti ricavati, di stipendi e fatture di acquisto merci): tesi difensive super perché ritenute inverosimili, ma trascurando il fatto che al prevenuto incombe un onere di allegazione laddove la “prova” della sproporzione e illiceità spetta comunque all’accusa.
Anche l’analisi del conto corrente bancario dell’Acquaviva e relativi depositi era fondata su un evidente fraintendimento poiché, invece, le somme versate corrispondevano al prestito ricevuto dai coniugi COGNOME/COGNOME (con una differenza di 50 euro) e il versamento di seimila euro corrispondeva all’incasso dei pagamenti effettuati dai clienti.
L’affermazione secondo cui nell’impresa erano confluiti beni di provenienza lecita e illecita, che aveva giustificato l’apprensione generalizzata dell’impresa e dei redditi prodotti, è frutto dell’erronea applicazione alla fattispecie in esame delle regole che la giurisprudenza ha dettato per le imprese mafiose.
Anche con riferimento alla costituzione della società “RAGIONE_SOCIALE” non solo è erronea l’affermazione che era stata costituita nel periodo di pericolosità sociale del RAGIONE_SOCIALE, del tutto cessata nell’anno 2012, ma anche della sussistenza del requisito della sproporzione, tenuto conto del capitale sociale sottoscritto (euro diecimila), di quello versato, corrispondente al 25%; dell’apporto di capitali di euro 8.500 da parte dei soci affatto sproporzionato rispetto al reddito dichiarato del nucleo familiare (di euro 28.000) che, per il sostentamento, poteva contare sul reddito prodotto dalla ditta individuale. Il decreto impugnato ha indicato tali dati numerici ma non ne ha tratto le debite conseguenze avendo adottato un criterio di imputazione (quello della illegittimità a cascata) presunto.
2.2. Con i comuni e cumulativi motivi di ricorso, le ricorrenti NOME COGNOME e NOME COGNOME denunciano:
violazione di legge ed erronea applicazione delle disposizioni in materia di confisca (in relazione agli artt. 26 d. Igs. n. 159 del 2011, 14, 16 e 24 e 111 Cost., 6 CEDU, 41 e 42 Cost, 1, Protocollo addizionale CEDU, 63, cod. proc. pen., 597, comma 3, cod. proc. pen.) nonché carenza o apparenza della motivazione con riferimento ai capi e punti concernenti la sussistenza e la perimetrazione della Th
pericolosità sociale del proposto; la sussistenza della ragionevolezza temporale e della sproporzione
Le ricorrenti contestano, in particolare, la ricostruzione svolta nel decreto impugnato con riferimento alle condizioni patrimoniali di NOME COGNOME nel periodo antecedente all’avvio della prima impresa (la ditta individuale), al periodo successivo all’avvio di tale impresa e al versamento della somma di euro 20.000 sul libretto intestato a cointestato a NOME COGNOME nonché la riconducibilità dei beni confiscati al COGNOME e ai proventi illeciti dallo stes accumulati, attraverso un’operazione ricostruttiva che “prescinde dalla perimetrazione della sua pericolosità”.
Al di là della apparente rifiuto del paradigma contenuto nel decreto di primo grado – che, sulla scorta delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, aveva espressamente collocato la pericolosità sociale del COGNOME fino all’anno 2020 la Corte di appello, pur perimetrando la pericolosità sociale del COGNOME in un periodo decisamente più breve (fino al 16 novembre 2012, data di cessazione della misura di prevenzione personale), ha eluso tutte le eccezioni difensive sulla inesistenza della sproporzione tra redditi leciti e acquisti in ragione della “illice a cascata di tutti i beni acquistati e delle ulteriori imprese avviate grazie al stesse” , come se si trattasse di “impresa mafiosa”.
La Corte di merito ha, erroneamente, ritenuto che non fosse stata contestata la riconducibilità al COGNOME dell’impresa individuale trascurando, a tal riguardo, i motivi di appello della COGNOME, che aveva rivendicato il suo ruolo imprenditoriale, pur non negando l’apporto operativo del marito, e che aveva evidenziato come, dopo il sequestro, si fosse nuovamente impegnata nel settore edilizio costituendo, grazie alla vendita di un immobile pervenutole dai genitori, una nuova società.
Illegittimamente, perché rese in assenza del difensore, erano state utilizzate le dichiarazioni della Acquaviva.
Erano state disattese, con affermazioni apodittiche, anche le allegazioni difensive che avevano comprovato (attraverso le dichiarazioni dei testi COGNOME/COGNOME e NOME COGNOME) la formazione del primo capitale della Acquaviva con l’acquisizione, grazie ai piccoli prestiti ottenuti, delle prime somme che le avevano permesso l’avvio dell’attività imprenditoriale e il pagamento delle fatture di costo all’anno successivo, secondo modalità documentate – attraverso la consulenza COGNOME– anche per tutti i costi sopportati negli anni successivi, fino all’anno 2019.
Era smentita dalla disponibilità di denaro aziendale lecito (oltre 160.000,00 euro) l’affermazione della Corte territoriale che aveva, invece, valorizzato i versamenti “in contanti” e con causale lecita non dimostrata, di importo inferiore
(trattandosi di poco più di 40.000,00 euro) e che, invece, costituiscono meri “spostamenti” di somme dall’uno ad altro conto, e non “impieghi”, somme lecite cui vanno aggiunte quelle risultanti dalle dichiarazioni dei redditi e da altr pagamenti ricevuti per contanti.
Del pari apodittica la motivazione con la quale la Corte ha disatteso la riconducibilità ad NOME COGNOME della somma di 20.000 euro, depositata sul libretto cointestato con la nipote: la Corte, infatti, non ha esaminato la capacità reddituale della COGNOME e del compagno convivente.
La Corte di merito ha, inoltre, ritenuto che COGNOME (pag. 29 del decreto) avesse utilizzato un tesoretto che aveva intestato a persone compiacenti trascurando che il passaggio lira/euro aveva reso difficili tali tipologie di operazioni
La Corte di appello non ha applicato correttamente le regole di giudizio sui punti fondanti l’applicazione della confisca con l’effetto di confermare la confisca di tutto il patrimonio dei terzi e con la conseguenza di disporre una vera e propria sanzione a loro carico.
Il giudizio sulla sproporzione va formulato (cfr. Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262602) in relazione a ciascun bene e al momento dell’acquisto e, dunque sulla base della “correlazione temporale” tra il periodo di manifestazione della pericolosità sociale, correlazione che solo con riferimento ai soggetti qualificati per pericolosità mafiosa, “copre l’intero percorso esistenziale del proposto”.
Il decreto impugnato non solo ha utilizzato il criterio valutativo dei pericolosi “qualificati” di tipo mafioso, ma è andato oltre, giungendo a sindacare la formazione del patrimonio degli ascendenti del proposto e di soggetti estranei e in presenza di documentate fonti lecite, di molteplici impieghi e di uno squilibrio poco significativo in violazione di legge, poiché l’art. 24, comma 1, d. Igs. 159 del 2011 prevede espressamente la valutazione in relazione al singolo bene e, comunque, contravvenendo alla funzione “ripristinatoria” della confisca.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1 ricorsi proposti da NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME devono essere rigettati perché proposti per motivi infondati.
2.Rileva il Collegio che la confisca oggetto di impugnazione, avente ad oggetto una barca, moto, automobili e beni immobili, nonché la ditta individuale “NOME COGNOME” e la società “RAGIONE_SOCIALE“, proprietaria di altri immobili fra i quali quelli adibiti ad abitazione del COGNOME e del suo nucleo familiare e la somma di euro ventimila, è stata disposta ai sensi dell’art. 4, lett. b), d. Igs.
159 del 2011 per la ritenuta pericolosità sociale di NOME COGNOME marito di NOME COGNOME e padre di NOME, pericolosità ricondotta alle condanne del predetto per avere fatto parte, con ruolo apicale, di due associazioni a delinquere dedite al traffico di droga, operanti in Molfetta, l’una fino a marzo 1994 e l’altra fino a giugno 1996. Le condanne, a pena unificata, avevano comportato lo stato di detenzione del COGNOME dall’8 giugno 2000 al 12 novembre 2011. Dopo la scarcerazione il COGNOME veniva nuovamente sottoposto alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza – interrotta per la detenzione- fino al 16 novembre 2012.
Non è revocabile in dubbio, secondo la Corte di appello, che la pericolosità sociale del COGNOME debba essere perimetrata negli anni dal 1994 al 16 novembre 2012 e che il COGNOME sia stato ritenuto soggetto di pericolosità specifica e qualificata con la conseguenza, in carenza della dimostrata liceità delle acquisizioni patrimoniali realizzate nel corso degli anni, di poter disporre la confisca sia delle imprese che la moglie del COGNOME aveva costituito nell’anno 2010 (la ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE“) e nell’anno 2012 (la società “RAGIONE_SOCIALE“, iscritta nel registro delle imprese il 30 gennaio 2012), in quant costituite in epoca coincidente con la pericolosità sociale del COGNOME e in presenza della sproporzione con i redditi leciti prodotti, sia di tutti i prove riconducibili all’esercizio delle predette attività imprenditoriali e degli acqui effettuati grazie agli stessi, fra i quali le attività imprenditoriali successivamen realizzate.
La Corte di appello (pagg. 15 e ss. del decreto impugnato) ha ritenuto sussistente il requisito della sproporzione ed ha ricostruito la formazione del patrimonio della Acquaviva cominciando dall’avvio, nell’anno 2010, della ditta individuale, passando, poi, ad analizzare, anche sulla scorta degli elementi rinvenibili nella documentazione bancaria, la costituzione della società “RAGIONE_SOCIALE” ed ha ritenuto riconducibili al proposto (in parte diretta e in par “a cascata”) tutti i beni sottoposti a confisca «essendo del tutto irrilevante l’esistenza di una eventuale “proporzione” tra redditi in quanto costituiscono frutto dell’utilizzo, a fini speculativi, di una porzione di patrimonio di illecita provenien e beni acquistati grazie agli stessi».
La Corte di appello ha ritenuto che mancasse la giustificazione della provenienza delle risorse utilizzate per la costituzione della ditta individuale, prima, e della società, poi, dalla cui attività lecita, nella prospettazione difensiv era iniziato l’accumulo lecito delle provviste utilizzate per l’acquisto degli altri b poi confiscati.
A questo fine la Corte di merito ha richiamato un precedente di questa Corte secondo cui in materia di confisca di prevenzione, una volta dimostrata la
sproporzione tra redditi ed investimenti, l’onere difensivo della dimostrazione della legittima provenienza di un bene, non può essere assolto attraverso la mera allegazione di una plusvalenza derivante dalla operazione commerciale di acquisto e rivendita di altro bene di proprietà del destinatario della misura, laddove manchi la giustificazione della provenienza delle risorse utilizzate per l’acquisizione del bene stesso. (Sez. 1, n. 30219 del 15/01/2016, De, Rv. 267326).
3.11 primo motivo di ricorso proposto da NOME COGNOME è manifestamente infondato.
3.1. Va premesso che il Tribunale di Bari, con decreto del 13 dicembre 2023, aveva ritenuto sussistente la pericolosità sociale di NOME COGNOME richiamando i suoi precedenti penali specifici per reati associativi in materia di stupefacenti (art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990) ed altre, sia pure più risalenti condanne (una per reato di rapina) (cfr. pag. 2 e ss.), in linea con la proposta e con le ragioni poste a fondamento del decreto di sequestro anticipato.
A carico del COGNOME il Tribunale aveva, altresì, richiamato le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME i quali avevano riferito come “fosse probabile” che, scarcerato nel 2011, il COGNOME avesse iniziato a lavorare e investire nel settore edilizio “i miliardi che aveva nascosto prima del suo arresto”. I collaboratori, che riferivano notizia dettagliate sul tenore di vita condotto dal COGNOME e dalla sua famiglia, precisavano – in particolare NOME COGNOME– che il COGNOME, nel periodo in cui era a capo dei gruppi dediti al narcotraffico, aveva conseguito guadagni enormi, ascendenti a circa a novanta milioni di lire al giorno. Il Tribunale aveva, inoltre perimetrato la pericolosità sociale del COGNOME a tutto il 2020, cioè al momento di acquisizione delle dichiarazioni dei predetti collaboratori.
Il decreto del Tribunale di Bari contiene, inoltre, un’analisi dettagliata, a confronto con la consulenza di parte e con l’analisi della pertinente documentazione bancaria, dei movimenti patrimoniali ed economici che avevano interessato sia il nucleo familiare del COGNOME (con le dichiarazioni dei redditi acquisite a partire dal 1996, confrontate con la spesa media annua ISTAT) sia i redditi prodotti dalla ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE“, dalla società “RAGIONE_SOCIALE” e dalle altre imprese o ditte ritenute riconducibili al RAGIONE_SOCIALE
3.2.La Corte di appello di Bari, in accoglimento dei motivi di appello, ha, innanzitutto, escluso che fosse condivisibile la perimetrazione temporale della pericolosità del COGNOME estesa fino all’anno 2020 per inidoneità delle dichiarazioni rese dai collaboratori che avevano riferito notizie generiche e, pertanto, ne ha determinato la manifestazione di pericolosità fino al 16 novembre
2012, data di cessazione della misura di prevenzione disposta in epoca risalente e oggetto di riesame, a seguito di richiesta di revoca proposta dal COGNOME, della Corte di appello di Bari con decreto dell’8 novembre 2012.
Ha, inoltre, con maggiore precisione, inquadrato il COGNOME come soggetto pericoloso ai sensi dell’art. 4, lett. b), d. Igs. n. 159 cit., disposizione che, peral veniva espressamente richiamata in più passaggi argomentativi del decreto di primo grado che aveva valorizzato, ai fini della confisca, proprio le risalenti condanne del COGNOME per reati associativi in materia di stupefacenti.
Ne consegue la manifesta infondatezza del motivo di ricorso del COGNOME nella parte in cui sostiene che l’inquadramento tra i soggetti cd. “pericolosi specifici” ha violato il principio della domanda, il principio di devoluzione e il diri al contraddittorio perché tale inquadramento non era posto a fondamento della proposta né della decisione di primo grado, essendo stato, invece, il ricorrente messo a conoscenza degli elementi di fatto sui quali si fondava la proposta e sui quali è fondata la più precisa definizione giuridica della Corte di appello, in relazione alla quale è stato assicurato alla difesa un contraddittorio effettivo e congruo.
Va ricordato, per completezza, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia di prevenzione, non si configura la violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione a condizione che sia stato assicurato alla difesa un contraddittorio effettivo in merito all’abitualità della commissione d delitti idonei a produrre profitti tali da aver costituito il reddito esclusi comunque significativamente rilevante, del proposto, nonché in merito alla perimetrazione temporale della pericolosità, alla riconducibilità degli acquisti a tale periodo ed alla commissione di reati fonte di profitti in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che si intendono confiscare (Sez. 6, n. 29157 del 12/04/2023, Valenti, Rv. 285039), conclusione giustificata dalla fluidità degli addebiti tipica del giudizio di prevenzione.
Anche il principio devolutivo si declina in termini diversi rispetto a procedimento di cognizione poiché, in sede di giudizio di prevenzione, la riqualificazione della pericolosità sociale opera limitatamente alle situazioni di fatto oggetto di valutazione (ex multis, Sez. 2, n. 3133 del 09/12/2022, deo. 2023, Held, Rv. 284051).
Nel caso in esame, da qui la manifesta infondatezza del motivo di ricorso, le risalenti condanne per reati associativi in materia di stupefacenti del COGNOME erano già poste a fondamento del decreto di primo grado e “ridimensionate” nella perimetrazione temporale del giudizio di pericolosità sociale per effetto dell’accoglimento dei motivi di appello.
4.Le argomentazioni in diritto svolte dal difensore del COGNOME nella parte in cui fanno riferimento, ai fini dell’inquadramento giuridico del giudizio d pericolosità sociale del COGNOME, alle disposizioni recate dalla I. n. 171 del 17 ottobre 2017 (entrata in vigore il 19 novembre 2017), sono manifestamente infondate.
Va, infatti, rilevato che il reato di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309 cit. riconnpreso fra quelli presupposto della pericolosità specifica in forza del richiamo all’art. 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen. contenuto nell’art. 4, lett. b), d. Igs. n. 159 cit. e, prima ancora, nell’art. 14 legge 19 marzo 1990 n. 55, secondo cui le misure di prevenzione si applicano, tra gli altri, ai soggetti indiziati di appartener ad associazioni per delinquere finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti.
La categoria della specificità della pericolosità sociale era, dunque, certamente prevista nel momento in cui NOME COGNOME si era reso responsabile dei reati associativi, commessi in Molfetta, l’uno fino a marzo 1994 e l’altro fino al giugno 1996.
Val bene rilevare che la modifica prevista dalla I. n. 161 del 2017, con l’introduzione del comma 7-bis dell’art. 74, d.P.R. n. 309 cit., ha previsto in relazione a tale reato la confisca cd. allargata, diversa da quella di prevenzione, disposta a carico del ricorrente.
La I. n. 171 cit. ha apportato una serie di modifiche “in parallelo” al regime delle misure di prevenzione patrimoniali contenute nel d. Igs. n. 159 cit. modifiche che operano sul piano procedurale e dell’amministrazione dei beni, in parte richiamate anche nel decreto di primo grado – e all’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, introducendo, anche sulla base del delle previsioni in materia contenute nella Direttiva2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014, disposizioni comuni ai due istituti allo scopo di colpire con la confisca i beni di sospetta provenienza illecita.
Ne risulta che la cd. confisca per sproporzione è disciplinata nel sistema vigente sia attraverso la cd. confisca allargata, regolata dal nuovo art. 240-bis cod. pen. (intitolato “confisca in casi particolari”) )sia con la più risalente confisca di prevenzione, prevista dall’art. 24 d. Igs. n. 159 cit., oltre che dalla confisca p equivalente, prevista dall’art. 25 d. Igs. n.159 cit.
I profili di omogeneità tra i due istituti, tuttavia, non giustificano sovrapponibilità di disciplina e, peggio ancora, della loro natura, poiché restano indiscutibili differenze di fondo che rinviano, quanto alla confisca in casi particolari alla natura di un provvedimento ablatorio post delictum, necessariamente fondato su una sentenza di condanna ( o di applicazione di pena su richiesta delle parti), per uno dei reati presupposto individuati, con elencazione tassativa, dal legislatore, mentre la confisca, misura di prevenzione, opera, ovviamente, praeter
delictum, prescindendo, quindi, dalla commissione di un reato ed essendo, invece, incentrata su figure “generiche” o “qualificate” di pericolosità sociale.
L’art. 24 d.lgs. n. 159 cit. indica, inoltre, la categoria a sé stante dei beni ch possono costituire oggetto di ablazione e, cioè, «i beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego».
Non esiste, pertanto, fondamento legale alle affermazioni difensive secondo le quali alla confisca di prevenzione a carico del COGNOME si applicano le disposizioni e i principi di diritto sostanziale in parte elaborati per la confisca di all’art. 240-bis cod. pen., nella quale rientra la previsione di confisca cd. allargat introdotta con l’art. 74, comma 7 -bis che ha integrato il d. Igs. n. 390 del 1990, con la conseguenza che i fatti posti a base della confisca non erano costitutivi, al momento della commissione, della fattispecie di pericolosità sociale.
4.1. Nella materia della confisca di prevenzione non opera, infine, il principio della irretroattività.
Si tratta di affermazione che la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito affermando che la confisca di prevenzione può essere disposta se prevista, in relazione ai fatti per i quali si procede, dalla legge in vigore al tempo della su applicazione, ovvero al momento della decisione emessa in primo grado (Sez. 6, n. 45462 del 03/10/2024, COGNOME, Rv. 287372), o, addirittura, in grado di appello, purché, in quest’ultimo caso, sia stato adeguatamente sollecitato il contraddittorio sui profili normativi di regolamentazione dell’istituto (Sez. 1, n 31209 del 24/03/2015, COGNOME, Rv. 264322).
Parimenti, la giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente affermato che deve escludersi la natura sanzionatoria della confisca di prevenzione, con la conseguenza che non può trovare applicazione, in questa materia, il principio di irretroattività, mentre rimane valida l’assimilazione dell’istituto alle misure sicurezza e, dunque, l’applicabilità della previsione di cui all’art. 200 cod. pen. in caso di successione di leggi nel tempo (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262602).
Lo statuto della confisca di prevenzione delineato nella giurisprudenza di legittimità, della Corte Costituzionale e della Corte Edu è univoco.
Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 43668 del 26/05/2022, COGNOME, Rv. 283707, non massimata sul punto) hanno esplicitato che la funzione sanzionatoria «è estranea allo statuto anche costituzionale proprio delle condanne che irrogano pene, assumendo una funzione meramente ripristinatoria». E, in linea con tale affermazione, hanno posto in rilievo le caratteristiche di irriducibile differenza tr le norme penali e quelle che disciplinano la confisca di prevenzione (Sez. U, n. 3513 del 16/12/2021, dep. 2022, Fiorentino, Rv. 282474).
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, ha evidenziato che la confisca di prevenzione non ha natura penale e ha riconosciuto che le misure di prevenzione patrimoniali, non avendo natura sostanzialmente sanzionatoria-punitiva, non sono sottoposte allo statuto costituzionale e convenzionale della pena. I beni oggetto di confisca possono essere considerati come “frutto delle attività criminose nelle quali il soggetto risultava essere impegnato all’epoca della loro acquisitone, sicché la loro confisca non costituisce una sanzione ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione che determina un vizio genetico nella costituzione del diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la disponibilità, risultando ovvio «che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo dall’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico».
Il riferimento, contenuto nei motivi di ricorso e nella memoria di replica, alla violazione dei principi della Carta Costituzionale, è, dunque, manifestamente infondato.
Anche l’indirizzo interpretativo della Corte Europea dei diritti dell’Uomo è univoco in tal senso e affermato in risalenti pronunce (la sentenza del 5 luglio 2001, nel caso COGNOME RAGIONE_SOCIALE, pgf 2; e 17 maggio 2011, COGNOME RAGIONE_SOCIALE pgf. 37-39) da ultimo richiamato nella sentenza emessa nel caso COGNOME c. Italia del 21 gennaio 2025.
4.2 Si è già precisato che, nel caso in esame, il decreto di primo grado era ampiamente motivato richiamando la pericolosità sociale del COGNOME riconducendola al narcotraffico a cui era stato dedito, attestato dalle sentenze di condanna intervenute a suo carico, diffusamente illustrate fin dalla proposta e, a seguire, nel decreto di sequestro anticipato e nel decreto di primo grado, evidenze sulle quali si erano innestate le argomentazioni difensive che avevano contestato il fondamento del giudizio di pericolosità sociale del COGNOME e la sua perimetrazione temporale, tanto è vero che, in parte, le censure difensive, su tale punto, hanno trovato accoglimento nel decreto oggetto di ricorso.
5.11 secondo motivo di ricorso di NOME COGNOME nella sua composita articolazione, è inammissibile data la conformazione giuridica della ricorribilità per cassazione del decreto di confisca di prevenzione (limitata vizio di violazione di legge) e in parte manifestamente infondato.
E’ vero che il decreto di applicazione della misura personale, e in generale i provvedimenti che concernono tale misura, non costituiscono un giudicato assoggettabile alla procedura di cui all’articolo 625-bis cod. proc. pen., secondo la tesi sostenuta nel ricorso. Nondimeno la giurisprudenza ne riconosce il carattere di giudicato “rebus sic stantibus” sia quando può dar luogo alla revoca “ex nunc”
del provvedimento, sia nel caso in cui può provocarne la revoca “ex tunc”: non è pertanto erronea l’affermazione dei decreto impugnato nella parte in cui rinvia, ai fini di giudizio della pericolosità sociale del COGNOME, alle sue condanne e, soprattutto ai fini della perimetrazione temporale della sua pericolosità sociale, al decreto con il quale la Corte di appello di Bari, dopo il lungo periodo di carcerazione subito, pur riducendo il termine di applicazione della misura personale, ne ribadiva il giudizio di pericolosità sociale fino al 16 novembre 2012.
La misura personale non costituisce più il presupposto di applicazione di quella reale ma neppure può sostenersene, ai fini delle valutazioni cui il giudice è chiamato, la neutralità o peggio la irrilevanza. La sottoposizione a misura costituisce, infatti, serio indizio che il giudice pone a fondamento del giudizio di pericolosità sociale che, nel caso, è stata valutata in una alla reiterazione dei gravi reati associativi e al complessivo tenore di vita del COGNOME in epoca coincidente con la sua scarcerazione.
Come si è detto nel procedimento di prevenzione il ricorso per Cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, con la conseguenza che in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi di illogicità manifesta di cui all’articolo 606, comma 1, lett cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246).
Nel ricorso del COGNOME non vengono allegate circostanze di fatto che la Corte di appello non avrebbe valutato per escluderne la pericolosità sociale, poiché viene attaccata sul piano della idoneità indiziaria la valenza del decreto con il quale la Corte d’appello aveva confermato la sottoposizione del COGNOME alla misura di prevenzione personale.
Il difensore del ricorrente richiama, inoltre, la risalenza delle condotte, l durata della detenzione subita dal COGNOME e la naturale evanescenza delle associazioni dedite al narcotraffico, rispetto alle associazioni mafiose, per inferirne la insussistenza della pericolosità sociale.
Si tratta, tuttavia, di argomentazioni che attaccano la logicità della motivazione proponendo una valutazione alternativa delle circostanze di fatto, già valutate nel decreto della Corte di appello del 1992, e che non denotano il vizio di motivazione mancante o apparente, risolvendosi nella censura della sottovalutazione di argomenti difensivi che sono stati presi in considerazione dal giudice, e assorbite nelle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato.
La perimetrazione della pericolosità sociale di NOME COGNOME fino al 16 novembre 2012 è stata, dunque, correttamente formulata sulla base di una valutazione globale dell’intera personalità del soggetto risultante dalle sue condanne, dalle manifestazioni sociali della sua vita e persistenti nel tempo, condotte tali da rendere necessaria una particolare vigilanza da parte degli organi di pubblica sicurezza.
6.11 terzo motivo di ricorso proposto nell’interesse del COGNOME è infondato.
Il decreto impugnato ha avuto ad oggetto, oltre alla somma di denaro costituita da disponibilità finanziarie ascendenti a 320.000 euro, numerosi beni mobili (una barca, una moto di grossa cilindrata, auto e mezzi di lavoro), beni immobili, imprese individuali, l’impresa individuale NOME COGNOME, cessata nel 2017, la “RAGIONE_SOCIALE“, la società RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, la ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE” e la società “RAGIONE_SOCIALE
6.1. Come noto, la possibilità di applicare disgiuntamente la misura di prevenzione reale rispetto a quella personale introdotta dall’art. 18, comma 1, d. Igs. n. 159 cit. è funzionale a realizzare, accanto alla finalità preventiva, l’esigenza ripristinatoria sottraendo al circuito economico i patrimoni illecitamente acquisiti in funzione di contrasto dell’accumulazione di beni di illecita provenienza.
La possibilità dell’applicazione disgiunta della misura patrimoniale ha comportato una profonda modifica del rapporto tra pericolosità sociale intesa in senso stretto come prognosi circa la futura commissione di reati- e i requisiti della misura patrimoniale, un rapporto che va letto in relazione al principio di tutela della proprietà privata (di cui all’art. 42 Cost.) e al princ di proporzione che richiede una ragionevolezza temporale e relazionale tra manifestazione di pericolosità sociale e l’arricchimento illecito, in modo da assicurare la proporzione tra fatto e confisca (nel perché e nel quantum) della misura ablativa.
Sul piano sistematico si è rilevato che all’interno del requisito soggettivo della confisca di prevenzione dovrebbero rilevare soltanto le fattispecie indiziarie costruite attraverso il richiamo a reati di carattere lucro-genetico e ad ipotesi di strutturata e sistematica commissione di reati lucro-genetici, con esclusione delle categorie criminologiche estranee alle logiche di accumulazione di proventi illeciti.
La questione della interrelazione tra la pericolosità sociale e i requisiti per l’adozione della confisca è stato affrontato dalle Sezioni unite di questa Corte con la nota sentenza COGNOME del 2015.
Con tale sentenza si è definitivamente affermata l’opzione interpretativa per cui risulta irrinunziabile, a fini di valida emissione del provvedimento di confisca, la ricostruzione preliminare dei profili di pericolosità soggettiva tali da consentire la constatazione argomentata della correlazione temporale tra condotte contra legem del soggetto ed incremento patrimoniale confiscabile.
Il giudice del merito è tenuto, in caso di confisca, non soltanto a ricostruire le specifiche condotte indicative dell’inquadramento del soggetto nella categoria tipica di pericolosità ma anche a delimitare in chiave storica il periodo caratterizzato dalla attitudine alla produzione di reddito illecito, escludendo dall’area di possibile intervento ablatorio gli acquisti verificatisi in moment antecedenti, proprio in quanto «non ricadenti» in tale ambito temporale.
Si è, così, affermato che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo; ne consegue che, mentre con riferimento alla cd. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, con riferimento alla c.d. pericolosit qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltant quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262605).
La necessità di apprezzamento della «correlazione temporale» tra la complessiva manifestazione di pericolosità del soggetto e le acquisizioni patrimoniali oggetto di ablazione comporta che, a monte e a giustificazione dell’ablazione, sia accertata la commissione di reati suscettibili di produrre lucro, posto che la misura della confisca, per rispettare il carattere funzionale e la natura giuridica di misura di prevenzione, deve ricadere su beni che, pur in rapporto alla semplificazione probatoria rappresentata dal giudizio di sproporzione, risultano derivare, sia pure in senso ampio, dalla attività contra legem posta in essere dal soggetto riconosciuto come portatore di pericolosità tipizzata.
La nozione di «correlazione temporale» e i passaggi logico-ricostruttivi del percorso decisorio ai fini dell’adozione della confisca sono stati individuati nella giurisprudenza, proprio in una fattispecie riguardante l’applicazione della misura della confisca in relazione all’appartenenza all’associazione dedita al narcotraffico, affermando che, in tal caso, il giudice deve previamente individuare il preciso periodo di manifestazione della pericolosità sociale, determinandone, pur solo attraverso elementi indiziari, i momenti iniziale e finale in funzione del coinvolgimento nelle attività illecite, con conseguente ingiustificato arricchimento,
e solo all’esito di ciò può procedere all’ulteriore valutazione attinente l’eventuale sproporzione degli acquisti rispetto alle entrate lecite, al fine di sottoporre a ablazione i beni il cui valore appaia incongruo (Sez. 2, n. 23000 del 20/05/2021, Oleszewska, Rv. 281457).
L’art. 24 d.lgs. n. 159 indica, inoltre, i beni che possono essere oggetto di confisca individuandoli nei beni di cui la persona nei cui confronti è iniziato i procedimento «non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibili a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini del imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego».
6.2. Sulla scorta della disposizione di cui all’art. 24, d. Igsl n. 159 cit. occor anche sottolineare l’autonomia della nozione di “beni di valore sproporzionato” da quella di beni che possono essere oggetto di confisca perché frutto e reimpiego di attività illecita.
Questi ultimi sono i beni suscettibili di confisca o perché costituiscono il risultato empirico dell’attività criminosa, ovvero perché costituiscono le utilit economiche conseguite per effetto della consumazione della condotta illecita. Ne costituiscono, invece, il reimpiego, i beni, correlati indirettamente alla condotta criminosa, che realizzano l’impiego in attività economiche dei vantaggi economici che ne sono derivati.
La descritta autonomia normativa intercorrente, ai sensi dell’articolo 24 citato, tra il requisito di sproporzione e il riferimento al frutto o reimpiego del ben derivante da attività illecita fonda la ragionevole conclusione che, ai fini dell confisca, non è necessario che alla sproporzione si accompagni anche l’acquisizione del bene in un periodo contestuale o successivo al manifestarsi dell’appartenenza del proposto alle categorie di soggetto pericoloso, pur rimanendo necessaria la verifica di tale appartenenza, trattandosi di elemento certamente sintomatico dell’origine illecita del bene, coerente con la commissione dei delitti maggiormente idonei alla produzione di frutti illeciti da reimpiegare nell’acquisto bene, come appunto il traffico di droga.
Ulteriori presupposti oggettivi della misura prevenzione patrimoniale, vicendevolmente autonomi, sono rappresentati da caratteristiche del bene nella disponibilità del prevenuto in quanto o di valore sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta dal medesimo, ovvero frutto di attività illecita ovvero reimpiego di essa, come positivamente accertato sulla base di sufficienti indizi.
Non è necessaria, dunque, né la coesistenza del parametro della sproporzione con la rilevata provenienza illecita degli stessi beni, né il nesso di pertinenzialit della confisca di prevenzione con una determinata tipologia di illecito.
L’acquisto operato da una persona pericolosa non perde il carattere genetico illecito, divenuto immanente connotato del bene, e il decorso del tempo, o comunque la cessazione della pericolosità del soggetto o qualunque ragione che non consenta l’applicazione della misura di prevenzione, non può avere l’effetto positivo di autorizzare il possesso del bene da parte di colui che lo ha illecitamente acquisito quando era pericoloso e ne ritrae la conseguente utilità economica.
Il limite della dell’operatività della confisca, che la rende compatibile con i principi costituzionali e con la normativa comunitaria, è costituito, piuttosto, dall riconosciuta facoltà per il proposto di fornire la prova della legittima provenienza dei suoi beni.
La sovrapposizione linguistica che pure affiora nel decreto impugnato e in quello di primo grado, sulla quale si sofferma anche il ricorso sostenendo che i provvedimenti valorizzano (pur avendole escluse, quello di appello, dagli elementi indiziari utili alle decisione) le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, secon quali il COGNOME “aveva investito” i miliardi ottenuti con il narcotraffico, ne imprese edilizie, risulta, comunque, del tutto marginale rispetto alla ratio decidendi del decreto impugnato, ricondotta alla confisca cd. per sproporzione e al giudizio di pericolosità sociale del COGNOME, poiché, in realtà, tali argomenti rinviano, per la loro genericità, alla natura lucro-genetica delle attività presupposto della misura, cioè la idoneità a produrre ricchezze illecite delle associazioni criminali di cui NOME COGNOME era stato capo nei risalenti anni ’90.
Le deduzioni difensive svolte con il ricorso del COGNOME, nel secondo motivo di ricorso, con riguardo alla confisca della ditta individuale “NOME COGNOME” e alla società.”RAGIONE_SOCIALE“, sono infondate.
Si tratta, peraltro, di motivi comuni alla ricorrente NOME COGNOME e che, pertanto, possono essere esaminati congiuntamente. Anche tali motivi sono infondati.
NOME COGNOME contesta, assumendone una nozione restrittiva, che sussista correlazione temporale tra il giudizio di pericolosità sociale e l’acquisizione dei beni: tuttavia, come precisato, la correlazione temporale non implica contestualità né che sussista un nesso di pertinenzialità con la condotta illecita a monte.
Nel decreto impugnato la motivazione sulla correlazione temporale e sul giudizio di sproporzione è articolata in una duplice prospettiva, poiché la confisca ha avuto ad oggetto beni “certamente” acquisiti in epoca coincidente con il giudizio
di pericolosità sociale del COGNOME (la costituzione della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE“, nell’anno 2010 e della società “RAGIONE_SOCIALE“, nell’anno 2012), ma anche beni di varia natura acquisiti in un periodo successivo, per i quali è stata applicata la nozione di “illiceità a cascata”, e la Corte di appello di Bari ha ritenuto superfluo l’esame delle censure difensive sull’asserita carenza di sproporzione.
La Corte di appello (pag. 17 e ss.) ha fatto coerente applicazione dei principi descritti al punto che precede e, concentrando l’attenzione ricostruttiva proprio sul reddito prodotto dal nucleo familiare di NOME COGNOME nell’anno 2010 (si ricordi che in tale periodo il ricorrente era detenuto), ha condiviso non solo il giudizio di pericolosità sociale del ricorrente, formulato nel decreto di primo grado, ma, soprattutto la ricostruzione argomentativa della correlazione temporale tra condotte contra legem del soggetto ed incremento patrimoniale confiscabile, perché privo di giustificazione patrimoniale, procedendo all’analisi sia delle modalità di avvio della ditta individuale che della società “RAGIONE_SOCIALE“, ricondotta, in ragione della data di costituzione, al pieno periodo pericolosità del COGNOME, cessata solo nel novembre 2012.
Soprattutto, i giudici della Corte hanno esaminato la tesi difensiva- proposta in particolare dalla terza interessata, NOME COGNOME ma ribadita anche nel ricorso del COGNOME – intesa a dimostrare che la ditta fosse stata avviata, prescindendo da contributi economici del marito, con propri mezzi.
Premesso che la perizia svolta in primo grado aveva accertato che il reddito dichiarato dall’COGNOME, nell’anno 2010, era stato di poco superiore a 7.000,00 euro, reddito derivato dall’impresa individuale avviata tra il settembre e l’ottobre 2010, quando il reddito era, dunque, pari a zero, NOME COGNOME aveva sostenuto che l’avviamento dell’impresa e i contratti in essere le erano stati ceduti dal cognato, NOME COGNOME, intonacatista, trasferitosi in Svizzera; che il personale era stato fornito da altra impresa, alla quale la ditta RAGIONE_SOCIALE subappaltava i lavori; che le poche risorse necessarie le erano state fornite da un “prestito”, di 6.500,00 euro concessole da amici (i coniugi COGNOME/COGNOME) che, generosamente, avevano anche “sovvenzionato” l’RAGIONE_SOCIALE negli anni precedenti, nel corso della detenzione del marito.
Non sono censurabili, nella descritta prospettiva del vizio di violazione di legge, le conclusioni alle quali la Corte di merito è pervenuta nel ritenere “inverosimile” la ricostruzione proposta, priva, su ciascuno dei decritti passaggi, di alcuna base documentale (il trasferimento all’estero del COGNOME; l’uso di mezzi o materiali di cantiere; la provvista dei coniugi COGNOME/COGNOME) e solo avallata, ex post, attraverso le dichiarazioni testimoniali del COGNOME e dei coniugi COGNOME/COGNOME.
Né poteva ritenersi adeguata fonte dimostrativa il versamento di somme in contanti sul proprio conto nei mesi di ottobre e dicembre 2010 da parte dell’Acquaviva, trattandosi di somme di cui non era nota la provenienza (vedi anche pag. 27 del decreto impugnato).
La Corte di appello ha anche evidenziato contrasti, affatto marginali, tra le ipotesi ricostruttive fornite dalla Acquaviva, secondo la quale aveva utilizzato mezzi lasciatile dal cognato, e la presenza di fatture di acquisto di materiali e altro, fatture che sarebbero state pagate, anche in tal caso senza fornire supporto documentale, nell’anno successivo alla data di emissione, aspetto, questo sul quale la difesa ha insistito, ma per dimostrare solo l’attendibilità del reddit dichiarato perché, nell’anno di avvio, non sarebbero stati sopportati costi.
Anche con riferimento alla seconda impresa, la società “RAGIONE_SOCIALE” ( iscritta nel registro delle imprese il 30 gennaio 2012 con inizi dell’attività il precedente 17 gennaio), la Corte di appello (pag. 21) ha ritenuto provata a livello gravemente indiziario, la correlazione temporale tra la sua costituzione e la pericolosità sociale del COGNOME e la sproporzione tra i capitali utilizzati e i redditi nel nucleo familiare, derivanti dalla ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE” e del COGNOME (quale dipendente della stessa), ascendenti a euro 28.448,00, neppure sufficienti a garantire il mantenimento del nucleo familiare composto da quattro persone e, vieppiù, erosi dal concomitante acquisto (con rogito del 29 dicembre 2012) di un bene immobile.
La Corte di appello ha, infine, evidenziato come al confronto del patrimonio investito (costituito dalle quote societarie, pari a euro 10.000, sottoscritto pe 9.900 euro da NOME COGNOME) la società possedesse (ed è parimenti confiscato) un complesso aziendale (costituito da beni mobili e immobili) fra i quali l’abitazione nella quale risiedevano i coniugi COGNOME. Elementi sospetti emergevano, sia pure al cospetto della modestia delle perdite dichiarate (pari a 998 euro), dalla circostanza che la maggior parte dei ricavi della società derivavano da prestazioni a favore dell’impresa individuale “RAGIONE_SOCIALE“.
Anche a tale riguardo la motivazione del decreto impugnato non è carente o apparente e le censure proposte con i ricorsi del COGNOME e dell’Acquaviva sul piano della ricostruzione patrimoniale risultano non valutabili in sede di legittimità, trattandosi di critiche argomentative al risultato di valutazioni di merito espresse dalla Corte territoriale e sostenute da razionale esplicazione dimostrativa.
Le critiche esposte nei ricorsi sono, dunque, in parte inammissibili (data la conformazione giuridica della ricorribilità) e in parte infondate.
In particolare, non può accogliersi, posto che non si confronta con il contenuto del provvedimento, la censura di omesso esame di circostanze di fatto a discarico proposte dall’Acquaviva poiché la Corte di appello, in linea con la più ampia
(
motivazione del decreto di primo grado, ha compiuto una approfondita disamina delle emergenze che, nella prospettazione difensiva, sarebbero state dimostrative della legittima provenienza dei beni in capo all’Acquaviva perché risultato della sua autonoma iniziativa imprenditoriale, con apprezzamento di ogni obiezione logica e storica, disattendendo la prospettazione difensiva di volta in volta proposta con puntuale motivazione, il che non equivale a non considerare le censure difensive.
Non può dirsi, dunque, sussistente alcun vizio di completezza argomentativa sulle censure proposte sia dal COGNOME che dalla COGNOME, conclusione che va confrontata con la regola di giudizio secondo la quale il sequestro e la confisca possono avere ad oggetto i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi, dovendosi ritenere che il prevenuto ne abbia la disponibilità e li faccia apparire formalmente come beni nella titolarità delle persone di maggior fiducia, sulle quali grava, pertanto, l’onere di dimostrare l’esclusiva disponibilità degli stessi onde sottrarli alla confisca (Sez. 2, n. 7346 del 17/01/2023, COGNOME, Rv. 284387).
La riconducibilità dei beni indicati al proposto è stata, infatti, ritenu sussistente valorizzando il dato che dal 2011 NOME COGNOME era stato assunto dalla ditta individuale. Risulta documentato, altresì, che NOME COGNOME è stato amministratore della società “RAGIONE_SOCIALE” dal 14 gennaio 2015 al 29 gennaio 2017, a ulteriore riprova della riconducibilità al predetto di tale attività imprenditoriale. La stessa COGNOME, al momento della esecuzione dei sequestri, aveva riferito che la ditta individuale e l’impresa erano, di fatto, gestite dal marito.
8. Anche il terzo motivo di ricorso proposto dal COGNOME e le censure delle terze interessate sul punto della confisca degli ulteriori beni (la motobarca; la moto; i beni immobili intestati a NOME COGNOME, prevalentemente un magazzino e terreni vari; ulteriori imprese individuali, confisca ricondotta alla “illiceità a cascata”), sono infondati.
La Corte di appello (pagg. 15, 21, 24 e ss.) è, infatti, pervenuta alla confisca di tutti i beni acquistati dal proposto e dall’Acquaviva negli anni successivi al 2012 (quindi dopo la cessazione della pericolosità sociale), facendo ricorso alla nozione di “illiceità a cascata”, ritenute irrilevanti le censure difensive sulla cessazione dell pericolosità sociale e sulla carenza di sproporzione.
L’accertata illiceità delle imprese avviate in concomitanza con la piena manifestazione di pericolosità sociale del proposto attrae, secondo il decreto impugnato, all’interno del perimetro applicativo della misura ablativa non solo dette imprese (frutto di un investimento illecito), ma anche tutti i proventi riconducibili all’esercizio dell’attività imprenditoriale e gli acquisti effettuati g ai guadagni derivanti da tali “illecite” attività.
Gli stessi ricorrenti, va rammentato, hanno ricondotto alle attività imprenditoriali svolte dalla ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE” e dalla società “RAGIONE_SOCIALE” (e dalle altre imprese via via costituite), i reddit idonei a giustificare, nella prospettazione difensiva, le acquisizioni patrimoniali realizzate nel corso degli anni.
Le censure difensive si fondano, essenzialmente, sulla natura totalizzante della disposta misura – che ha colpito l’intero patrimonio, piuttosto che i singoli acquisti – e sull’applicazione di una regola di giudizio che, nella giurisprudenza di legittimità, ha riguardato essenzialmente la cd. impresa mafiosa.
Si tratta, tuttavia, di censure non condivisibili, che rivelano una carenza strutturale dell’impostazione difensiva che avrebbe dovuto, invece, fornire la prova dell’utilizzazione di risorse lecite destinate all’acquisto dei beni, anziché rivendicar la legittimità delle acquisizioni grazie alla produzione dei redditi delle iniziali atti imprenditoriali “illecite”, avviate nel periodo di pericolosità sociale.
La Corte di appello ha fatto coerente applicazione alla fattispecie concreta di un principio che la giurisprudenza ha elaborato anche con riferimento alla cd. pericolosità generica (Sez. 6, n. 36421 del 06/09/2021, COGNOME, Rv. 281990) ed ha generalizzato affermazioni ricorrenti nella giurisprudenza di legittimità con riferimento agli investimenti realizzati attraverso operazioni che avevano determinato plusvalenze economiche da parte di società o attività economiche comunque riconducibili al destinatario della misura di prevenzione (Sez. 5, n. 24930 del 26/05/2022, COGNOME, Rv. 283508; Sez. 1, n. 30219 del 15/01/2016, COGNOME, Rv.267326), affermazioni che possono essere riferite anche agli acquisti effettuati grazie ai redditi prodotti da attività economiche “illecite”, perc frutto di un iniziale investimento di profitti illeciti in attività economiche avv nel periodo di pericolosità sociale del proposto.
Secondo il decreto impugnato la giustificazione della provenienza che, in sede di prevenzione patrimoniale, deve essere fornita dal soggetto interessato, una volta che venga dimostrata l’illiceità dell’investimento inziale, non può alimentarsi dalla allegazione di un reddito prodotto da un bene il cui acquisto primario non sia, a sua volta, giustificato, ciò perché l’impiego del bene in questione realizza una forma di utilizzo a fini ulteriormente speculativi di una porzione di patrimonio di illecita provenienza, passibile, di per sé, di confisca.
A tal riguardo, i giudici di appello hanno approfondito spunti rivenienti dalla motivazione della sentenza delle Sezioni Unite COGNOME (più volte citata), nella parte in cui tale sentenza esaminava la problematica del “raccordo cronologico” tra la fase di insorgenza dell’illecita accumulazione di denaro e il relativo reimpiego, osservando che la proiezione temporale di tale qualità non sempre è circoscrivibile in un determinato arco temporale.Tatavia, nell’ipotesi in cui la
pericolosità investa, come accade ordinariamente, l’intero percorso esistenziale del proposto e ricorrano i requisiti di legge, è pienamente legittima l’apprensione di tutte le componenti patrimoniali ed utilità, di presumibile illecita provenienza delle quali non risulti, in alcun modo, giustificato il legittimo possesso.
Tali spunti sono stati saggiati con dati di comune esperienza, secondo i quali l’autore di reati destinati a generare, direttamente o indirettamente, un arricchimento sul versante patrimoniale evitano, di regola, di provocare fenomeni “appariscenti” del nuovo status economico.
La Corte di merito ha, dunque, evidenziato come la confisca di prevenzione presenti connotati di pericolosità “in rem” di tipo relazionale, nel senso che non è il bene in quanto tale a presentare i requisiti di “res” intrinsecamente pericolosa, ma il fatto che il bene appartenga, e, quindi, continui ad essere gestito, da un determinato soggetto che ne dispone in ragione specifica dei propri connotati e trascorsi di “persona penalmente qualificata”.
La Corte di merito ha richiamato principi elaborati nella giurisprudenza di legittimità prevalentemente con riferimento alla pericolosità sociale qualificata di tipo mafioso e, in particolare, le decisioni che hanno confermato la legittimità della misura ablativa su beni acquisiti in periodo successivo a quello di cessazione della condotta permanente, ove ricorra una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi della diretta derivazione causale delle acquisizioni patrimoniali dalla provvista formatasi nel periodo di compimento dell’attività delittuosa (Sez. 2, n. 14165 del 13/03/2018, Alma, Rv. 272377) e, a condizione che sia provato il reinvestimento dei profitti illeciti, sulla base dell’eventuale sproporzione degl acquisti rispetto alle entrate lecite, la confisca dei beni acquistati dagli ere successivamente alla morte del soggetto proposto appartenente ad un’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti (Sez. 2, n. 23000 del 20/05/2021, COGNOME, Rv. 281457).
Non è dubbio che il tema si presta, attraverso il ricorso alle presunzioni evocate dalla difesa, a inaccettabili semplificazioni probatorie che nel caso in esame, tuttavia, non sussistono, essendo stati illustrati plurimi indici fattual dimostrativi della derivazione delle imprese avviate dal COGNOME dalla provvista accumulata grazie ai reati, di chiara matrice lucro-genetica, in materia di traffico di sostanze stupefacenti, unitamente alla solidità degli elementi che dimostrano la riconducibilità al proposto, e nel conclamato periodo di pericolosità sociale, dell’impresa individuale “RAGIONE_SOCIALE” e della società “RAGIONE_SOCIALE“, come si è illustrato al punto 7 che precede.
Tali conclusioni risultano asseverate da rilievi di ordine temporale (l’impresa individuale veniva costituita poco prima della scarcerazione del COGNOME e in coincidenza di un suo permesso premio) e dal fatto che: a) la ditta non è stata
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avviata né con risparmi della moglie né con ‘redditi percepiti dal nucleo familiare; b) non è nota la provenienza dei versamenti sui conti dell’Acquaviva.
Anche per la società “RAGIONE_SOCIALE” valgono rilievi analoghi e la Corte di appello ha, infine, rilevato come, nel periodo 2011/2018, sui conti del proposto e dei suoi familiari risultassero versamenti di somme in contanti dei quali non è nota la provenienza per complessivi euro 48.170, somme cui vanno aggiunte quelle, di ignota provenienza, versate sul conto cointestato tra NOME COGNOME e la nonna.
La correlazione tra la commissione di un reato di chiara matrice lucro-genetica (come il traffico di sostanze stupefacenti) e la manifestazione di pericolosità sociale e l’arricchimento illecito che ne consegue assicura il rispetto del principio di proporzione e la razionalità intrinseca della proporzione tra fatto e confisca.
La Corte di appello (pag. 28 del decreto), pur convenendo con l’ammontare (inferiore) dell’importo di tale movimentazione (rispetto a quello di 160.000 euro), ha contrastato le affermazioni difensive (reiterate nel ricorso delle terze interessate) riguardo alla presenza di “meri spostamenti” di somme dal conto delle imprese a quelli individuali, osservando che si trattava di acquisizioni comunque rivenienti dall’impresa illecitamente costituita, se non di versamenti di somme contanti rivenienti dal narcotraffico del COGNOME, affermazione, questa, per vero del tutto apodittica.
Ciò che, ad avviso della Corte, giustifica la confisca degli acquisti successivi alla costituzione della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE” e della società “RAGIONE_SOCIALE” è la illiceità dei redditi prodotti da attiv economiche che sono state frutto di un iniziale investimento di profitti illeciti i attività economiche avviate nel periodo di pericolosità sociale del proposto. L’acquisto operato da una persona pericolosa non perde il carattere genetico illecito, divenuto immanente connotato del bene, e il decorso del tempo, o comunque la cessazione della pericolosità del soggetto non può avere l’effetto positivo di autorizzare il possesso del bene da parte di colui che lo ha illecitamente acquisito quando era pericoloso e ne ritrae la conseguente utilità economica che, parimenti, deve essere oggetto di confisca.
Il motivo di ricorso di NOME COGNOME nella parte in cui denuncia le inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in assenza del difensore al momento di esecuzione del decreto di sequestro anticipato, è manifestamente infondato.
La Corte di appello, a fondamento della riconducibilità a COGNOME NOME della gestione dell’impresa individuale “RAGIONE_SOCIALE” e della società “RAGIONE_SOCIALE” ha, tra gli altri elementi, indicato proprio l dichiarazioni dell’Acquaviva, che all’atto di esecuzione del decreto di sequestro
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anticipato, dichiarava che di fatto l’impresa individuale e la società erano gestite dal COGNOME (pagg. 20 e 23 del decreto impugnato).
Si tratta, ad avviso della Corte, di dichiarazioni spontanee, pienamente utilizzabili trovando applicazione la disciplina di cui all’art. 350, comma settimo, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 12351 del 02/10/2013, dep. 2014, Antonello, Rv. 259148).
E’ infondato il motivo di ricorso di NOME COGNOME con riferimento alla confisca della somma di euro 20,000,00 su un libretto postale intestato a costei e alla nonna, NOME COGNOME madre del COGNOME, che era, inoltre, la effettiva titolare delle somme versate sul libretto perché frutto dei risparmi accumulati in venti anni.
La Corte di appello ha compiuto un’analisi dettagliata della prospettazione difensiva ed ha sottolineato il modesto importo della pensione della COGNOME, ascendente da un importo di 4.995, euro nel 1998 e ad un importo poco superiore ai seimila euro nell’anno 2015, epoca in cui veniva effettuato, in blocco, il versamento della somma. Inspiegabile sarebbe stata, inoltre, la circostanza del versamento unitario dei risparmi e parimenti inspiegabile, con la proprietà della COGNOME, il prelievo di una parte della somma da parte di NOME COGNOME per acquistare un’auto.
E’ agevole rilevare che il motivo di ricorso, che reitera le censure già proposte contro il decreto di primo grado, pur palesando la mera apparenza della motivazione, introduce un sindacato in ordine alla tenuta motivazionale del decreto impugnato, andando a contestare gli indici dai quali la Corte di appello ha desunto la riconducibilità della somma confiscata alla figlia del COGNOME e, in carenza della dimostrazione della sua lecita provenienza, ai profitti illeciti conseguiti da COGNOME attraverso l’impresa individuale e la società illecitamente costituite.
Va, infine, rilevato che il motivo di ricorso nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME è inammissibile nella parte in cui deduce la violazione di legge sul punto del ritenuto giudizio di pericolosità sociale del COGNOME e della perimetrazione temporale.
Il tema, controverso, della legittimazione del terzo interessato, perché ritenuto intestatario fittizio dei beni, a contestare anche i presupposti per l’applicazione della misura, quali la condizione di pericolosità, la sproporzione fra il valore del bene confiscato e il reddito dichiarato, nonché la provenienza del bene stesso, è stato esaminato dalle Sezioni Unite di questa Corte che hanno concluso nel senso che il terzo può rivendicare esclusivamente l’effettiva titolarità dei beni confiscati deducendo ogni elemento utile in relazione al thema probandum (Notizia
di decisione delle Sezioni Unite in relazione al ricorso n. 27791(/2024 deciso all’udienza del 27/03/2025, Putignano e altri).
12. Consegue alle argomentazioni svolte il rigetto dei ricorsi di NOME
COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME che devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 28 aprile 2025
La Consigliera relatrice
Il Presidente