Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 47046 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 47046 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 30/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 14/4/1960 NOME nata a Napoli il 13/3/1963
avverso il decreto del 7/2/2019 della Corte di appello di Napoli visti gli atti, il decreto impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con decreto depositato il 31 maggio 2024 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma del decreto n. 56 del 2017, previa revoca della confisca e dei pregressi decreti di sequestro delle autovetture Lancia Musa (tg. CODICE_FISCALE), intestata a NOME COGNOME, e Smart for two coupé (tg. CODICE_FISCALE), intestata a NOME COGNOME nonché del saldo del conto corrente, intestato a quest’ultima, ha
confermato la confisca di una quota pari al 50% del capannone industriale, sito in Napoli, I INDIRIZZO, intestato a COGNOME Paolo; di una quota pari al 50% dell’appartamento sito in Napoli, INDIRIZZO, intestato a COGNOME Paolo; di una quota pari al 25% del capitale sociale della RAGIONE_SOCIALE, intestata a NOME COGNOME; dell’abitazione, sita in Sessa Aurunca, INDIRIZZO, del box, sito in Sessa Aurunca, INDIRIZZO intestati a NOME COGNOME.
Avverso tale decreto hanno presentato ricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME con atto sottoscritto dal loro comune difensore, i quali hanno dedotto i motivi di seguito indicati.
2.1. Con il primo motivo di ricorso, si deducono l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 2-ter L. n. 575/1965 con riferimento ai presupposti per l’applicazione della misura patrimoniale della confisca con riguardo alle quote del 50% del capannone industriale e del 50% della proprietà dell’appartamento, siti in Napoli. La Corte di appello avrebbe confermato la suddetta misura anche relativamente a beni acquistati in epoca di gran lunga antecedente rispetto alla “ritenuta contaminazione delle attività imprenditoriali ricondotte al proposto” e non avrebbe considerato che i fondi, utilizzati per l’acquisto dei beni, provenivano dalle rendite percepite da NOME COGNOME
2.2. Con il secondo motivo, si deduce l’erronea applicazione dell’art. 2-ter L. 575/1965 con riferimento alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della confisca della quota pari al 25% del capitale sociale della RAGIONE_SOCIALE, dell’abitazione, sita in sessa Aurunca, INDIRIZZO, del box, sito in sessa Aurunca, INDIRIZZO; beni intestati a NOME COGNOME e che, secondo l’assunto difensivo, sarebbero stati acquistati ricorrendo a fonti economiche lecite.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Le censure formulate nell’interesse di NOME COGNOME sono fondate solo in parte mentre le residue doglianze di tale ricorrente e quelle sollevate nell’interesse di NOME COGNOME non sono consentite.
Va precisato che dalla lettura della motivazione dei decreti sia del Tribunale che della Corte di appello emerge che in essi si è fatto riferimento al capannone, intestato a NOME COGNOME, sito a Napoli, INDIRIZZO, per intendere anche la parte dello stesso immobile adibita ad abitazione, sita al primo piano. Tali parti sono state, invece, indicate in modo separato nel dispositivo del decreto del Tribunale ma devono ritenersi un unico bene, come si evince chiaramente dal prospetto dei beni immobili intestati a NOME COGNOME
oggetto di sequestro, che comprende, oltre ai beni siti in Sessa Aurunca, solo il capannone industriale ubicato a Napoli (v. f. 31 del decreto cit.).
Ne discende che, laddove nel dispositivo del presente provvedimento si è disposto l’annullamento del provvedimento impugnato limitatamente al capannone, deve intendersi che si è fatto riferimento all’intero immobile sito in Napoli, INDIRIZZO.
Tanto precisato, va premesso che il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione, in coerenza con la natura e la funzione del relativo procedimento, è limitato alla sola violazione di legge (L. n. 1423 del 1956, ex art. 4, comma 11) e non si estende al controllo dell’iter giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante o apparente: ipotesi in cui sussisterebbe comunque il vizio di violazione di legge (Sez. 6, n. 15107 del 17/12/2003, dep. 2004, COGNOME, Rv. 229305 – 01; Sez. 6, n. 35044 del 08/03/2007, COGNOME, Rv. 237277 – 01; Sez. 5, n. 19598 dell’8/04/2010, Palermo, Rv. 247514 – 01).
Deve anche preliminarmente precisarsi che – come affermato nel provvedimento impugnato – il presente procedimento trae origine dalle proposte provenienti dal Questore di Napoli del 20 dicembre 2004 e dal Procuratore della Repubblica di Napoli del 4 aprile 2007, non ricadenti sotto la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159, atteso che la norma transitoria di cui all’art. 117 di tale decreto esclude l’applicabilità delle disposizioni contenute nel libro primo, dedicato alle misure di prevenzione, ai procedimenti nei quali alla data di entrata in vigore del medesimo decreto, ossia al 13 ottobre 2011, era stata già formulata la proposta di applicazione della misura di prevenzione, prevedendo che in tali casi continuino ad applicarsi le norme previgenti.
Al procedimento in esame si applica, dunque, l’art. 2-bis della L. n. 575/1965, che richiede, quali presupposti applicativi, l’accertamento della pericolosità sociale del proposto e la sproporzione degli acquisti rispetto ai redditi leciti.
Al riguardo va rammentato che, secondo l’orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte, la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo. Ne consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, i giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale e un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili
ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, COGNOME, Rv. 262605 – 01).
Si è anche stabilito che, in tema di misure di prevenzione, ove la fattispecie concreta consenta al giudice di determinare il momento iniziale e il termine finale della pericolosità sociale qualificata, sono suscettibili di confisca solo i ben acquistati in detto periodo temporale, salva restando la possibilità per il proposto di dimostrare l’acquisto dei beni con risorse preesistenti all’inizio dell’attività ille (Sez. 6, n. 31634 del 17/05/2017, Rv. 270710). Tale affermazione risulta poi precisata e ribadita sempre in tema di pericolosità qualificata nel senso che, in tema di confisca di prevenzione disposta nei confronti di soggetto indiziato di appartenere ad un’associazione mafiosa, anche nel caso in cui la fattispecie concreta consenta di determinare il momento iniziale e finale della pericolosità qualificata, è legittimo disporre la misura ablativa su beni acquisiti in periodo successivo a quello di cessazione della condotta permanente, ove ricorra una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi della diretta derivazione causale delle acquisizioni patrimoniali dalla provvista formatasi nel periodo di compimento dell’attività delittuosa (tra le altre: Sez. 2, n. 14165 del 13/03/2018, Alma, Rv. 272377 – 01).
4. Alla luce di tali coordinate ermeneutiche deve rilevarsi – con riguardo ai beni intestati a NOME COGNOME – che la Corte di appello ha affermato che non era stato possibile operare un tipo di perinnetrazione cronologica maggiormente precisa, considerato che NOME COGNOME è appartenuto prima al clan COGNOME e poi dal 2000 circa al clan COGNOME, coinvolto, con la propria attività imprenditoriale, nel commercio internazionale di prodotti con marchio contraffatto.
Pertanto, per supplire a tale incertezza, la Corte territoriale ha fatto riferimento alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME, confermate da quelle dell’altro collaboratore NOME COGNOME, secondo cui i clan c.li Secondigliano avevano gestito la maggior parte delle attività imprenditoriali a Napoli, ivi compreso il commercio delle giacche in similpelle – di cui hanno il monopolio – fin dalla metà degli anni ’80. Ha, inoltre, richiamato l’esito delle indagini svolte dalle polizie estere da cui era emersa la commercializzazione nel mercato estero dei capi prodotti dall’impresa dei COGNOME, già stabilmente inserita nell’associazione camorristica, quantomeno all’inizio dell’anno ’90, circostanza da cui ha desunto che tale attività, e, conseguentemente, l’instaurazione dei rapporti con la cosca, doveva sicuramente risalire a un periodo antecedente, da ciò traendo la conferma della fondatezza delle dichiarazioni dell’COGNOME. Pertanto, risalendo gli acquisti dei beni immobili, oggetto di
confisca, al dicembre 1985, è stato affermato che in tale periodo NOME COGNOME doveva avere già avviato i suoi rapporti con la cosca in quanto, se già nel 1990 gli indumenti realizzati con il marchio del Gruppo V erano stati commercializzati nel mercato europeo (segnatamente, in Germania) attraverso i canali illeciti instaurati dalla camorra, evidentemente gli accordi e i “finanziamenti” illeciti erano preesistenti.
Siffatta motivazione è inficiata da violazione di legge.
Deve rilevarsi, in primo luogo, che la Corte territoriale ha genericamente evocato la difficoltà di perimetrazione della pericolosità sociale qualificata del prevenuto, facendo riferimento all’appartenenza del medesimo a due cosche di camorra, che di per sé – all’evidenza – non è un dato che ostacola l’individuazione del periodo di svolgimento dell’attività illecita del ricorrente. Del resto, con l sentenza resa dal Giudice dell’udienza preliminare di Napoli il 22 luglio 2005, confermata dalla Corte di appello e dalla Corte di cassazione, la partecipazione al clan camorristico del ricorrente era stata temporalmente individuata e circoscritta al periodo 1990 – 2003.
Nel prosieguo dell’ordinanza, la Corte di appello, dopo avere richiamato la motivazione della sentenza di condanna penale, che aveva affermato che il legame esistente tra l’impresa dei COGNOME e il contesto criminale, nel quale la medesima era inserita e dal quale traeva la sua forza commerciale, era certamente retrodatato all’anno ’90, quando già erano avvenute la penetrazione e l’egemonizzazione del mercato tedesco, ha aggiunto che, mentre il giudice del merito, al fine della prova certa della datazione dei fatti ascritti all’appellante, era dovuto necessariamente attenere agli atti acquisitivi, dimostrativi della commercializzazione dei capi prodotti in Germania, il giudice della prevenzione poteva ragionevolmente osservare che il momento di instaurazione dei rapporti compenetrativi con la cosca di camorra fosse avvenuto in epoca anche precedente e ciò in coerenza con quanto riferito dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME secondo il quale i clan di Secondigliano gestivano il settore specifico già dalla metà degli anni ’80.
Al cospetto di tali argomentazioni deve rimarcarsi che, pur considerando le diverse regole che governano il processo penale e quello di prevenzione, la Corte di appello, tuttavia, ha superato il dato temporale emergente dal processo penale, valorizzando le dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME che, in realtà, facevano riferimento ad una non altrimenti precisata seconda metà degli anni ’80 e non individuavano specificamente l’anno in cui i clan camorristici avevano acquisito il monopolio del commercio delle giacche, come vengono chiamate nel gergo dei magliari i giubbotti di finta pelle.
Anche l’argomento logico per cui, se la società era attiva nella vendita all’estero nei primi anni ’90, inevitabilmente gli accordi e le iniezioni di denaro dovevano precedere tale attività, non consente di fissare l’anno in cui vi erano stati i menzionati accordi e iniezioni di denaro.
In definitiva, la Corte di appello ha retrodatato all’epoca di acquisto del capannone, ossia al 1985, la pericolosità qualificata del ricorrente ma sulla base di elementi che non consentivano di individuare con precisione il dies a quo dell’anzidetta pericolosità e di affermare che essa fosse sussistente nel 1985.
In tal modo ha violato il disposto di cui all’art. 2-ter L. n. 575/1965, avendo sottoposto a misura ablatoria un bene nella disponibilità diretta o indiretta del ricorrente, senza un’accurata indagine circa la sussistenza dei presupposti che ne consentissero l’applicazione in termini di delimitazione temporale del loro acquisto.
Come precisato da questa Corte a Sezioni unite (sen. COGNOME cit.), intanto può essere aggredito un determinato bene, in quanto chi l’abbia acquistato fosse al momento dell’acquisto soggetto pericoloso.
Ne consegue che il decreto impugnato deve essere annullato nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alla confisca della quota di proprietà dell’immobile sito a Napoli, INDIRIZZO, con rinvio alla Corte cli appello di Napoli che emenderà i vizi riscontrati.
Quanto ai beni intestati a NOME COGNOME deve rilevarsi che le censure non sono consentite.
Con riguardo alla deduzione secondo cui tali gli immobili sarebbero stati acquistati con fondi leciti, riconducibili a NOME COGNOME, la Corte di appello ha affermato che quest’ultimo era “socio di fatto” dell’impresa mafiosa, a cui veniva “consentita una formale gestione per ragioni di rispetto e riconoscenza, dal momento che era stato socio fondatore dell’attività imprenditoriale”.
Quanto al dedotto prestito, erogato da NOME COGNOME, genero di NOME COGNOME, per l’acquisto della quota pari al 25% del capitale sociale della RAGIONE_SOCIALE, la Corte di appello ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale che, a fronte della prospettata liceità della fonte di reddito, valorizza il profilo de restituzione del prestito, affermando che, in tema di misure di prevenzione patrimoniali, l’onere di allegazione difensiva in ordine alla legittima provenienza dei beni non può essere soddisfatto con la mera indicazione della esistenza di una provvista sufficiente per concludere il negozio di acquisto degli stessi, dovendo invece indicarsi gli elementi fattuali dai quali il giudice possa dedurre che il bene non sia stato acquistato con i proventi di attività illecita, ovvero ricorrendo ad esborsi non sproporzionati rispetto alla sua capacità reddituale.
Si è precisato che l’acquisto di un immobile mediante l’accensione di un mutuo non costituisce dimostrazione della legittima provenienza della provvista, dovendosi fornire la prova della disponibilità di risorse lecite e sufficienti sostenere il pagamento delle rate mensili (Sez. 6, n. 21347 del 10/04/2018, COGNOME, Rv. 273388 – 01).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha rimarcato che NOME COGNOME non aveva redditi leciti.
A fronte di siffatte argomentazioni – corrette, logiche ed esaurienti – le doglianze, messe a fuoco dai ricorrenti, pur formalmente etichettate come violazione di legge, finiscono per refluire nell’alveo di un non consentito sindacato della motivazione del provvedimento impugnato e del merito, come tale non riconducibile al vizio di violazione di legge che, come già detto, è l’unico devolvibile a questa Corte in materia di misure di prevenzione.
In definitiva, il provvedimento impugnato deve essere annullato nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alla confisca della quota di proprietà dell’immobile sito a Napoli, INDIRIZZO, con rinvio alla Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio, mentre il ricorso di tale ricorrente è inammissibile nel resto e il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME consegue la condanna della medesima al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Annulla il decreto impugnato nei confronti di COGNOME NOME limitatamente alla confisca della quota di proprietà del capannone industriale di Napoli, INDIRIZZO e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Napoli. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso del COGNOME. Dichiara inammissibile il ricorso di NOMECOGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 30 ottobre 2024.