Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 36408 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 36408 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/10/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da COGNOME NOME nata a Catania il DATA_NASCITA; COGNOME NOME nato a Catania il DATA_NASCITA; COGNOME NOME nato a Catania il DATA_NASCITA; COGNOME NOME nata a Catania il DATA_NASCITA; RAGIONE_SOCIALE;
avverso il decreto del 4 aprile 2025 della Corte d’appello di Catania;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME AVV_NOTAIO, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi proposti nell’interesse di NOME, NOME e NOME COGNOME e NOME COGNOME e il rigetto del ricorso proposto nell’interesse della RAGIONE_SOCIALE.
RITENUTO IN FATTO
La vicenda processuale trova la sua genesi nel decreto del 14 luglio 2023, con il quale il Tribunale di Catania, ritenuta la pericolosità (generica: art. 1 lett. b d.lg
159 del 2011) di NOME COGNOME (oggi deceduto), disponeva la confisca degli immobili siti in Catania, alla INDIRIZZO, dell’impresa individuale di NOME COGNOME, della ditta RAGIONE_SOCIALE e dell’associazione RAGIONE_SOCIALE. Beni in parte acquistati per successione dagli eredi di COGNOME NOME, in parte ritenuti come fittiziamente intestati ai figli NOME, NOME.
Investita RAGIONE_SOCIALE impugnazioni formulate nell’interesse dei proposti e dei terzi interessati, la Corte di appello di Catania ribadiva il giudizio di pericolosità operato dal Tribunale e confermava l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale.
Avverso il provvedimento emesso dalla Corte d’appello ricorrono per cassazione NOME, NOME e NOME COGNOME nonché NOME COGNOME (in proprio e quali eredi di NOME COGNOME) e la RAGIONE_SOCIALE, quale proprietaria dei beni mobili ubicati all’interno dell’esercizio “RAGIONE_SOCIALE“.
Il ricorso proposto nell’interesse dei COGNOME e della COGNOME si compone di quattro motivi d’impugnazione.
4.1. Il primo deduce, sotto il profilo della violazione dell’art. 18 D. Lgs. n. 159 del 2011 e dei principi costituzionali e convenzionali del diritto di difesa, del diritto al contraddittorio e del principio del ne bis in idem sostanziale, l’insussistenza del necessario presupposto della pericolosità del proposto (NOME COGNOME), già definitivamente esclusa in altro parallelo provvedimento giurisdizionale, emesso dalla stessa Corte d’appello nel procedimento per l’applicazione della misura personale.
Seppure, infatti, il procedimento sia proseguito, dopo il decesso del proposto, nei confronti dei suoi eredi, il giudizio di pericolosità è stato fondato su condotte illecite già note e risalenti nel tempo e già oggetto di verifica giurisdizionale, ne procedimento di applicazione della misura di prevenzione personale ed ha riguardato un soggetto ormai deceduto, che, quindi, non ha potuto difendersi rispetto alla rivalutazione di elementi già esaminati.
4.2. Il secondo deduce il difetto della necessaria tipizzazione normativa della misura applicata, avendo la Corte d’appello confermato la confisca di prevenzione anche rispetto beni acquistati in un periodo in cui era vigente una disciplina normativa, la legge n. 575 del 1965, che consentiva l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale solo nei confronti di soggetti indicati all’art. 1). Per cui si sarebbe applicata una misura patrimoniale valutando condotte che, al momento della loro consumazione, non avrebbero potuto legittimare
l’applicazione della misura; e ciò, quindi, in violazione dei principi di legalità determinatezza richiesti dagli artt. 25 Cost. e 7 CEDU (applicabili anche alla confisca, in quanto provvedimento ablativo della proprietà).
4.3. Il terzo deduce l’apparenza della motivazione offerta dalla Corte d’appello in ordine alla ritenuta sproporzione fra i redditi prodotti e l manifestazioni di capacità economica connesse all’acquisto dei beni confiscati. La Corte territoriale, sostiene la difesa, avrebbe omesso di confrontarsi con le risultanze documentali e le deduzioni difensive che attestavano la provenienza lecita RAGIONE_SOCIALE risorse economiche impiegate per l’acquisto dei beni confiscati. Non viene spiegato, infatti, per quali ragioni i calcoli difensivi fondati sul criterio de stratificazione sarebbero erronei, né perché si sia ritenuto di non dover valutare l’incidenza dei mutui sull’economica familiare o la circostanza per cui alcune attività imprenditoriali dei figli siano state avviate fuori dal periodo di asseri pericolosità.
2.4. Il quarto, formulato sotto i profili della violazione di legge e de connesso vizio di motivazione, attiene al compendio probatorio utilizzato dai giudici di merito e, segnatamente alla ritenuta necessità di una perizia contabile (diretta ad accertare la compatibilità dei redditi familiari e le connesse manifestazioni di capacità economica) e alla indebita valutazione degli esiti di procedimenti penali non definitivi (valorizzati dalla Corte territoriale in violazione del principio di non colpevolezza).
Il ricorso proposto nell’interesse della RAGIONE_SOCIALE si compone di due motivi d’impugnazione, a mezzo dei quali si deduce violazione di legge (in relazione all’art. 23, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011) e connesso vizio di motivazione.
RAGIONE_SOCIALE, premette la difesa, è soggetto giuridico terzo rispetto al preposto NOME COGNOME e ai familiari coinvolti nel procedimento di prevenzione e ha rivendicato la proprietà di tutti gli apparecchi, dettagliatamente indicati nell’istanza di restituzione, ubicati all’interno dell’esercizio “RAGIONE_SOCIALE” allegando la relativa documentazione attestante la titolarità (fatture di acquisto dei macchinari, nulla osta rilasciati dall’RAGIONE_SOCIALE per la messa in esercizio degli apparecchi, annotazioni sul libro giornale della società).
La Corte d’Appello ha rigettato l’istanza, ma non ha indicato né il perché non emergerebbe la prova ‘certa’ della proprietà dei beni rivendicati, né ha offerto elementi concreti attraverso i quali collegare i beni rivendicati all’asserita attivit illecita del proposto o alla gestione occulta da parte di quest’ultimo. Non si chiarisce, continua la difesa, il perché i documenti prodotti non siano stati ritenuti sufficienti, né il perché la presenza dei beni nei locali di RAGIONE_SOCIALE farebbe
presumere la riferibilità degli stessi al proposto, né, in ultimo, il perché ta apparecchi siano stati ritenuti provento o strumento di condotte criminose del proposto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto nell’interesse dei COGNOME e della COGNOME è, complessivamente, infondato.
1.1. Va premesso che il giudizio di pericolosità espresso in sede di prevenzione va scisso – nelle sue componenti logiche – in due autonome fasi, l’esistenza RAGIONE_SOCIALE quali, alla luce del necessario rispetto dei valori costituzionali di tutela dell’individuo, consente di adottare le limitazioni alla sfera di libertà de soggetto raggiunto da tale prognosi (Sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, Mondini, Rv. 260103, in motivazione); una prima fase, di tipo “constatativo”, nella quale vengono importati i dati cognitivi idonei a rappresentare l’avvenuta condotta contraria alle ordinarie regole di convivenza tenuta – in passato – dal soggetto proposto; una seconda fase, di tipo essenzialmente prognostico, per sua natura alimentata dai risultati della prima, tesa a qualificare come “probabile” il ripetersi di condotte antisociali, inquadrate nelle categorie criminologiche di riferimento previste dalla legge.
La “fase constatativa”, in particolare, è alimentata dall’apprezzamento di “fatti” storicamente apprezzabili e costituenti a loro volta “indicatori” dell possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una RAGIONE_SOCIALE categorie crinninologiche previste dalla legge; un apprezzamento che, attesa l’autonomia del procedimento di prevenzione (diretto ad accertare la pericolosità), prescinde dagli esiti dell’eventuale, parallelo, giudizio penale (diretto, invece, ad accertare la responsabilità) e potrà alimentarsi anche di fatti per i quali si sia giunti ad una sentenza di proscioglimento (purché il fatto risulti delineato con sufficiente chiarezza o sia comunque ricavabile in via autonoma dagli atti: Sez. 2, n. 4191 del 11/01/2022, COGNOME, Rv. 282655; Sez. 2, n. 33533 del 25/06/2021, Avorio, Rv. 281862; Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 277225) o a un decreto di archiviazione (fermo restando, in questi casi, l’obbligo di attenta disamina del provvedimento, al fine di verificare se da esso emergano accertamenti ostativi alla trasmigrazione dei dati in sede di prevenzione: Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280145). Con l’unico limite, da un canto, della pronuncia di una sentenza irrevocabile di assoluzione che escluda la sussistenza del fatto (in quanto il relativo accertamento, in ossequio al principio di unitarietà e di non contraddizione dell’ordinamento, impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità (Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, COGNOME, Rv. 264319; Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020,
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dep. 2021, COGNOME, Rv. 280145; Sez. 2, n. 11846 del 19/01/2018, COGNOME, Rv. 272496; Sez. 5, n. 48090 del 08/10/2019, COGNOME, Rv. 277908); dall’altro, la necessaria esistenza di indizi di reità, ancorché privi dei requisiti che il codice di rito richiede ai fini dell’affermazione di colpevolezza (Sez. 2, n. 26774 del 30/04/2013, COGNOME, Rv. 256820).
1.2. Ciò considerato, la prima questione sottoposta alla valutazione di questa Corte attiene ai limiti di operatività, nel settore della prevenzione, del principio generale del ne bis in idem.
L’assunto dal quale muovono le argomentazioni difensive è corretto: l’esercizio di un potere del giudice (o RAGIONE_SOCIALE parti) può essere precluso dal precedente compimento di un atto (o dall’inosservanza RAGIONE_SOCIALE modalità prescritte dalla legge processuale) incompatibile con il successivo esercizio dello stesso potere. Si tratta di un principio attinente all’ordine pubblico processuale, coessenziale alla stessa nozione di processo, esso stesso non concepibile se non come serie ordinata di atti normativannente coordinati tra loro, ciascuno dei quali – all’interno dell’unitaria fattispecie complessa a formazione successiva condizionato da quelli che lo hanno preceduto e condizionante, a sua volta, quelli successivi secondo precise interrelazioni funzionali (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, COGNOME, Rv. 231800).
Cosicché, ferma restando la non riferibilità alle misure di prevenzione (stante la natura della decisione che le applica) della nozione di giudicato in senso proprio, qualora una questione sia stata già decisa, per esigenze di certezza del diritto e di efficienza processuale, la stessa non può formare oggetto di rinnovata delibazione in diverso procedimento, salva l’ipotesi di deduzione di nuovi elementi non previamente considerati (Sez. 6, n. 53941 del 03/10/2018, COGNOME, Rv. 274585, in motivazione).
In questi termini, quindi, per quel che rileva in questa sede, un pregresso accertamento giudiziale che abbia escluso la sussistenza della pericolosità del proposto (ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione) non impedisce una rivalutazione del medesimo profilo, ove si acquisiscano nuovi elementi di fatto (anche preesistenti al giudicato) mai apprezzati nei provvedimenti precedenti (Sez. U, n. 600 del 29/10/2009, dep. 2010, COGNOME, Rv. 245176; Sez. 6, n. 53941 del 03/10/2018, COGNOME, Rv. 274585).
Ciò considerato, da un canto, il provvedimento di revoca (evocato dalla difesa), come correttamente rilevato nel provvedimento impugnato, trova la sua ragione fondante nelle gravi condizioni di salute del proposto, dato fattuale idoneo ad incidere non già sull’esistenza RAGIONE_SOCIALE pur rilevate manifestazioni di pericolosità (in relazione alle quali, in realtà, si rileva solo un difetto motivazionale e non già l’inesistenza), ma sulla concreta possibilità di una loro reiterazione e, quindi,
sull’attualità del giudizio; dall’altro, il parallelo giudizio di coerenza patrimonia (prospettato, in ultimo, dalla Corte nel procedimento di prevenzione personale), a prescindere dalla oggettiva genericità dell’assunto (giustificata dalla prevalente differente ratio decidendi), trova il suo limite nel diverso patrimonio cognitivo fondante le due decisioni, parannetrato al differente oggetto dei rispettivi giudizi (l’attuale pericolosità di un soggetto gravemente ammalato e la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di una misura patrimoniale, con le connesse indagini patrimoniali).
Cosicché, se effettivamente il giudizio di pericolosità ha riguardato un soggetto ormai deceduto ed è stato fondato su condotte illecite già note e risalenti nel tempo e già oggetto di verifica giurisdizionale, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, le due parallele valutazioni appaiono tra loro divergenti nei soli limiti della rilevata diversità degli elementi valutati. E tanto esclude ogni pur ipotizzabile violazione del principio del ne bis in idem:
Né, in ultimo, il sopravvenuto decesso del proposto ha inciso sul concreto esercizio del diritto di difesa, pacificamente riconosciuto agli eredi. Il procedimento di prevenzione patrimoniale, infatti, ai sensi dell’art. 18, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 e in considerazione della funzione propria RAGIONE_SOCIALE misure reali di prevenzione (diretta alla neutralizzazione degli effetti patrimoniali dell’attività illecita), può legittimamente proseguire (o essere introdotto) anche dopo la morte del soggetto proposto, nei confronti dei suoi eredi o aventi causa, entro il termine di cinque anni dal decesso; e, in tale evenienza, gli eredi subentrano nella posizione processuale del de cuius ed esercitano i medesimi diritti e le stesse facoltà con riferimento ai beni per i quali sono succeduti, potendo avvalersi (come in concreto avvenuto) dei mezzi probatori e dei rimedi impugnatori riconosciuti a quest’ultimo (in conformità ai principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 21 e n. 216 del 2012).
1.2. Infondato anche il secondo motivo di censura.
La prospettazione difensiva si fonda sull’assunto, erroneo, dell’applicabilità, alle misure di prevenzione, dei principi riferibili alla sanzione penali.
Le misure di prevenzione patrimoniali, invece, nonostante la loro indubitabile portata afflittiva (in quanto limitative della fruibilità di diritti della per costituzionalmente garantiti), non sono assimilabili alle sanzioni penali: il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione non viene ritenuto “colpevole” o “non colpevole” in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto “pericoloso” o “non pericoloso” in rapporto al suo precedente agire (per come ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza), elevato ad “indice rivelatore” della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell’ordine sociale costituzionale o dell’ordine economico (Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015,
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COGNOME, Rv. 264322). La misura non viene applicata per sanzionare precedenti condotte, ma per recuperare beni illegittimamente o inspiegabilmente accumulati dal soggetto, ripristinando la situazione patrimoniale antecedente all’acquisizione illecita. E gli effetti ablatori riconnessi alla misura patrimoniale, se impongono, in ossequio al monito espresso dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 24 del 2019, la necessaria tassativizzazione della fattispecie normativa (e la conseguente necessità di una descrizione normativa chiara, circoscritta e verificabile dei comportamenti presi in considerazione come “fonte giustificatrice” di dette limitazioni) non permettono di attribuire alla confisca una funzione sanzionatoria o punitiva e non consentono, conseguentemente, la sottoposizione RAGIONE_SOCIALE misure medesime allo statuto costituzionale e convenzionale RAGIONE_SOCIALE pene. E, in questi termini, anche la più recente giurisprudenza sovranazionale, che ha espressamente escluso la possibilità di sussumere le misure di prevenzione patrimoniali nell’alveo RAGIONE_SOCIALE “sanzioni penali” richiamate nell’art. 7 della Convenzione EDU (negandone dunque la natura punitiva e, di conseguenza, l’applicabilità del principio del nullum crimen, nulla poena sine lege: Corte EDU, Sezione Prima, sentenza Garofalo c. Italia del 13 febbraio 2025), riconducendole nell’ambito dell’art. 1 del Prot. addiz. CEDU, in ragione della loro specifica incidenza limitativa sul diritto di proprietà, come azione civile in rem.
La descritta funzione, quindi, rende le misure di prevenzione sostanzialmente assibilabili, sotto questo profilo, non già alle sanzioni penali (come sostenuto dalla difesa), ma alle misure di sicurezza con conseguente applicabilità, in caso di successione di leggi nel tempo, della previsione di cui all’art. 200, comma 1, cod. pen. e, con esso, della normativa vigente al momento dell’applicazione della misura (Sez. U. n. 4880 del 2015 ric. COGNOME; Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, COGNOME, Rv. 264322; Sez. 6, n. 21491 del 16/02/2015, Meluzio, Rv. 263768). E da ciò l’infondatezza del motivo di censura.
1.3. Complessivamente infondati anche terzo e il quarto motivo.
Dell’infondatezza della prima censura (afferente alla valutazione degli esiti di procedimenti penali non definitivi), peraltro formulata in termini evidentemente generici, si è già detto: la “fase constatativa” è alimentata dall’apprezzamento di “fatti” storicamente apprezzabili e costituenti a loro volta “indicatori” della possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una RAGIONE_SOCIALE categorie criminologiche previste dalla legge; un apprezzamento che, attesa l’autonomia del procedimento di prevenzione, prescinde dagli esiti dell’eventuale, parallelo, giudizio penale e potrà alimentarsi anche di fatti per i quali si sia giunti ad una sentenza di proscioglimento. Ed in concreto, la Corte d’appello ha dato atto dell’esistenza, nel compendio processuale acquisito, di significativi elementi indiziari connotati da sicura gravità (le risultanze RAGIONE_SOCIALE intercettazioni telefoniche, il rinvenimento del
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deposito di auto rubate gestito dal COGNOME, le dichiarazioni dei potenziali testimoni raccolte durante le indagini). E tanto rende irrilevante, in questa sede, alla luce di quanto in precedenza considerato, la circostanza per cui il giudizio di cognizione non si sia concluso con una sentenza di condanna.
Le ulteriori censure (l’omessa valutazione RAGIONE_SOCIALE censure sollevate con i motivi di appello e la necessità di una perizia contabile) sono indeducibili in quanto dirette a far valere surrettiziamente pretesi vizi di motivazione del provvedimento impugnato.
Se, infatti, è vero che rientrano nella nozione di «violazione di legge» (vizio rilevabile in questa sede ai sensi dell’art. 10 comma 3, d. Igs. n. 159 del 2011), oltre agli errores in iudicando o in procedendo, anche quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U., n. 5876 del 28 gennaio 2004, COGNOME, Rv. 226712), in concreto, contrariamente all’assunto del ricorrente, il decreto offre compiuta argomentazione:
della piena riconducibilità al proposto dei beni in sequestro, della loro provenienza e della connessa sproporzione tra la (formale) situazione economica del proposto (che, negli anni di riferimento, era in significativo disavanzo) e l’importo degli investimenti e RAGIONE_SOCIALE spese sostenute per l’acquisto degli immobili e per l’avvio RAGIONE_SOCIALE singole attività economiche;
RAGIONE_SOCIALE ragioni per le quali ha ritenuto di non accogliere la richiesta di perizia contabile (ritenendola recessiva e ultronea rispetto al complessivo impianto motivazionale della decisione e l’istanza fondata su una documentazione del tutto generica e autoprodotta, priva di attendibilità e di riscontri oggettivi, ivi compreso il memoriale redatto personalmente dal proposto);
dell’inconferenza della richiamata “stratificazione” patrimoniale, non risultando in atti pregressi accumuli leciti idonei a giustificare gli investimenti successivi o a interrompere il nesso logico fra la manifesta sproporzione dei beni e le disponibilità di provenienza illecita.
A fronte di ciò, si comprende come le censure sollevate dalla difesa – pur formalmente strutturate in termini di violazione di legge – si risolvano nella deduzione di un mero vizio nnotivazionale, preclusa dal disposto del citato art. 10 e, comunque, in sé inammissibile, in quanto diretta sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio, in palese contrasto con le regole proprie del giudizio di legittimità.
Il ricorso proposto nell’interesse della RAGIONE_SOCIALE è, invece, inammissibile.
Per come si è detto, la società ha assunto di essere proprietaria di tutti gli apparecchi, dettagliatamente indicati nell’istanza di restituzione, ubicati all’interno dell’esercizio “RAGIONE_SOCIALE“.
I beni dei quali la società istante chiede la restituzione sono stati rinvenuti all’interno dei locali della RAGIONE_SOCIALE “RAGIONE_SOCIALE” e, quindi, si presumono (anche ai dini fiscali: art. 53 d.P.R. n. 633 del 1972) ricompresi nei beni aziendali, dei quali l’imprenditore ha la disponibilità; cosicché, incombe sul ricorrente l’onere di dimostrare il proprio diritto sui medesimi beni (Cass. civ., n. 13884 del 06/07/2015, Rv. 635791, principio dettato con riferimento ai beni mobili rinvenuti nella casa o nell’azienda del fallito ed acquisiti dal curatore).
Ebbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte territoriale ha dato atto compiutamente RAGIONE_SOCIALE ragioni per le quali ha ritenuto l’inidoneità della prova documentale offerta dalla società istante: i nulla osta per la messa in esercizio non attestano la proprietà dei beni, ma trovano il loro presupposto in una dichiarazione della stessa parte; le fatture di acquisto e le scritture contabili allegate non permettono la compiuta e certa identificazione, nei beni acquistati, di quelli in relazione ai quali è avanzata richiesta di restituzione. Cosicché, ancora una volta, le censure sollevate dalla difesa, lungi dal prospettare un’effettiva carenza motivazionale, si risolvono in un’inammissibile deduzione di un semplice vizio motivazionale, preclusa dal disposto del più volte citato art. 10.
In conclusione, i ricorsi proposti nell’interesse dei COGNOME e della COGNOME devono essere rigettati e i ricorrenti condannati al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese di lite; il ricorso proposto nell’interesse della COGNOME deve essere dichiarato inammissibile e la ricorrente condannata al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa RAGIONE_SOCIALE ammende.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e NOME NOME e condanna i ricorrenti al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso della società RAGIONE_SOCIALE e condanna la ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa RAGIONE_SOCIALE ammende.
Così deciso il 2 ottobre 2025
Il Consigliere estensore